Al bivio, quale cultura?
Crossroads. Il fatto che si sia entrati nell’era 2.0 del web – una fantascienza soltanto vent’anni fa, ma una fantascienza che abbiamo metabolizzato e già un po’ annoia – non cambia i termini della questione, in sostanza. Tornare a parlare di cultura e critica della cultura, rimettere in discussione il rapporto teoria-prassi, interrogarsi su i legami – sottili, spiazzanti, ambigui, imprevedibili – tra il nostro immaginario e il nostro agire (o, naturalmente, non agire) può essere esasperante, e demoralizza, eppure tanto vale partire anche da queste sensazioni, poco brillanti, e provare a vederci chiaro, ricominciare. Il più delle volte l’impressione è di procedere lungo ampi percorsi pigri e senza sorprese come quelle “austostrade perdute” di cui parlano i vecchi blues e, invece, per quanto il paesaggio sia abbastanza piatto – all’orizzonte, al massimo, scorgi qualche nuvola di passaggio, un palo della luce, una baracca – quando meno te l’aspetti ti trovi di fronte a un bivio, e sono guai.
I went to the crossroad, fell down on my knees cantava Robert Johnson, e allora si appellava al signore (Oh, Lord) e faceva bene. Ci sono bivi e crocicchi e incroci anche nel nulla e arrivarci impreparati è imperdonabile. Adesso, per esempio, la scelta da fare è sorprendente, estrema e, rispetto a tutta una tradizione di pensiero, contraddittoria. Mettiamola pure in termini estremi, non è sbagliato. L’opzione (politica, morale, intellettuale) non è più tra la luce liberatoria della cultura e le tenebre autocompiaciute e crasse dell’ignoranza. Forse in modo inaudito oggi tocca scegliere tra critica e cultura.
Alibi e oppiacei. Per vent’anni, i vecchi intellettuali e i giovinetti si sono consolati con l’alibi di Berlusconi (l’incultura al potere, in due parole), e quando è sembrata chiusa quella stagione e tutti sono stati costretti a rimettersi in gioco, la Storia, con una delle sue giravolte avvilenti, ci ha sorpreso. Adesso, nell’era di Trump e delle fake news, l’alibi che sembrava scaduto torna in auge. È anche normale. Davanti a un demente che si inventa immaginari attentati terroristici in Svezia (“l’ho visto su Fox News”), e cavalca i demoni pigri dello sciovinismo più idiota, e del razzismo, è anche scontato evocare le armi della cultura, le buone letture (o, più semplicemente, una certa aderenza tra la parole e le cose, il documentarsi). Adagiarsi in questo mood è catastrofico. L’imbarazzante pochezza del potere non giustifica l’autocompiacimento dell’intelligenza e pensare che nel mondo prevalga il populismo (o proprio il fascismo) per un difetto di cultura è piuttosto risibile. Ai guasti della politica, in ogni caso, sarà bene rispondere con un’altra politica (a trovarla), ma nel campo intellettuale la questione è molto diversa, e più spinosa. Da troppo tempo ci si trincera dietro questa parola-slogan (la cultura) senza rendersi conto di quanto sia (e in fondo sia sempre stata) una parola ambigua, e reazionaria. Il garrulo tono da liceali degli intellettuali mainstream (vecchi & giovani) equivoca su una banalità di base (e manca il crossroad del presente, procede diritto) perché, e dovremmo saperlo, tutto è cultura (quindi persino Berlusconi, e persino Trump).
O forse più che di un tono da liceali è il caso di parlare di un metodo, di un punto di vista. Se la cultura sono i libri, le buone letture, le pagine culturali dei quotidiani, Radio3 e/o Baricco, i blog, i festival di Torino, Milano, Mantova, Ferrara, le presentazioni, le solite colazioni, aperitivo, cena, gita al faro con l’autore-autrice di turno, i reportage dolenti, eccetera, c’è davvero poco da fare, e niente da dire. L’assoluta mancanza di un punto di vista più politico e concreto (cioè “antropologico”) rende inutile il discorso, o, peggio, derogatorio, irrilevante. Il manicheismo fastidioso di chi si ostina a divedere il mondo in colti/ incolti, mentre autoassolve e nobilita, opacizza il reale, ottunde, acceca (infatti, aveva ragione Diderot: il problema sono i “ciechi”, sono i “sordi”, ma nella luce calda dei Lumi, in pieno giorno).
In un paese in cui diversi milioni di persone vivono di cultura e indotto culturale (siamo a un quinto del Pil secondo i dati presentati da Andrea Toma sul sito web de “Lo straniero”), riprendere, modificandolo, il vecchio slogan di Marx sulla religione e, con un po’ di sarcasmo, sentenziare che la cultura è, oggi, l’oppio dei popoli è quasi inevitabile, e obbligato (tranne il fatto che “popoli” forse è un termine troppo ampio, e impegnativo). La cultura – oggi – è l’oppio della piccola borghesia alfabetizzata (cioè quasi di tutti) ma, in realtà, si tratta di un oppio-caramella, abbastanza dietetico, poco aggressivo (e politicamente corretto, ca va sans dire). Niente a che vedere, sia chiaro, con l’eversione psichedelica dei beat, delle avanguardie. Le porte della percezione restano sbarrate, a doppia mandata. La cultura è un oppio, sì – distrae, rimbambisce, appanna i sensi – ma è un oppio zuccherino, perbenista. Si parla di “cultura” e ci si sente a posto, giustificati, senza neanche porsi il problema di che “prassi” possa scaturirne (a parte quella, ovvia, della propria sussistenza, e della carriera) o forse proprio recidendo alla radice quel legame necessario: teoria & prassi. Chi si ostina a evocarlo, quel rapporto, chi ancora lo pronuncia – i vecchi intellettuali à la Asor-Rosa, Rossanda, Negri, Tronti – si nasconde in realtà dietro i vessili piuttosto logori e stracci dell’ideologia. Chi fa finta di niente (tutti gli altri, quasi tutti gli altri) è addirittura più vacuo, furbo, indecente.
Intemperanze. “Per me l’intellettuale è chi critica in maniera disinteressata. Critica tutto. Appicca il fuoco a tutto ciò che si muove. Mette in crisi facendo domande. Fa vacillare chi è al potere”. In un bel romanzo tunisino da poco tradotto (L’italiano, di Shukri al-Mabkhout, edizioni e/o) c’è questo bellissimo personaggio di giovane donna e filosofa berbera, Zeina, che incarna con commovente forza e ingenuità un’idea di “intellettuale” ormai quasi estinta. Eppure, per quanto ingenue, queste sue dichiarazioni centrano il bersaglio, e alla perfezione. Criticare tutto. Non: leggere, documentarsi, sapere, citare ma… criticare. L’idea – illuminista quanto volete – è quella della funzione intellettuale come funzione assoluta di critica del reale, in permanenza, e dentro questa azione dissolvitrice, di revisione dell’ideologia diffusa, dei rapporti dati, dei “gusti” codificati, dell’immaginario obbligato, dello… Spettacolo. E, ovviamente, dei tremendi feticci che ci circondano.
Se di Marx resta qualcosa nel presente, probabilmente sta qui, in questo concetto. L’analisi del feticismo delle merci è forse l’unica profezia marxiana del tutto avverata. Ma nell’orizzonte in larga parte immateriale del postmoderno parlare di “merce” significa affrontare il tema della cultura in modo diretto perché la merce delle merci è esattamente questa cosa ambigua, espansa, proteiforme e onnipresente che chiamiamo cultura, e pervade tutto. A essa (un magma gelatinoso che va dalle nostre protesi tecnologiche – i vari dispositivi, in due parole – all’editoria, al linguaggio diffuso, all’ossessione a chilometro zero del cibo, al bio), cioè proprio all’osannata, santificata, “asfissiante” Cultura si oppone, o si dovrebbe opporre, il lavoro della critica, l’arte del giudizio (estetico e politico), il saper scegliere, distinguere, discriminare. L’assoluta rimozione dal discorso corrente di una definizione come Industria Culturale è illuminante. Chi diamine mai più osa pronunciare queste due parole tenendole assieme? Forse è l’alibi di ieri, la vecchia scusa. Di fronte a un nemico tigre-di-carta (Berlusconi, le tv commerciali, Trump, persino il web) l’illusione di situarsi nel territorio (o nella riserva indiana) della cultura può sembrare sufficiente, e legittimante. La spensieratezza con cui tanti (troppi) giovani scrittori sono disposti a lasciarsi arruolare nel carrozzone del circo Oklahoma dei festival, delle fiere, dei saloni, delle più varie kermesse letterarie, eccetera, dà da pensare.
Dentro la corsa dei topi, ancora una volta. Dall’89 in poi, l’ordine del discorso che si è imposto come un senso comune inevitabile è tanto estremo quanto consolatorio, rassicurante. La retorica del postmoderno e della società liquida sono diventati un leitmotiv, e non se ne scampa. Il guaio in realtà non sta nella fumosità di questo schema spiega-tutto, naturalmente. C’è un difetto di “immaginazione sociologica”, e politico. Dietro il velo di Maya del postmoderno, del lavoro immateriale, delle relazioni liquide, delle “passioni tristi”, del virtuale, si nasconde il nuovo volto del potere, anzi del dominio, dell’oppressione. Mentre i vari Recalcati & Serra & Scalfari & padre Bianchi eccetera salmodiano l’omelia untuosa della “morte” dei padri o, spenglerianamente, del tramonto dell’autorità, il potere resta una gabbia di acciaio, come sempre. Ma il mostro-Leviatano non è più lo stato assoluto di Hobbes, o il totalitarismo, e neppure la Chiesa o anche l’esercito. Più che uno schema riconoscibile di istituizioni totali, prevale una forma di società “disciplinare”, ancora una volta. Nel suo strabismo di Giano il volto doppio del potere si incarna oggi nell’oscurità della Finanza e nella luce – abbagliante quanto finta – della Cultura. È un passaggio di fase, e uno snodo nel Tempo, delicatissimo. Quando a inizi Novecento Walter Benjamin osservava di far parte della prima generazione ad aver capito che il “capitalismo non morirà di morte naturale” aveva ancora alle spalle l’ombra di una speranza, o almeno un ricordo di speranza, cioè l’utopia. Sognare ancora, coltivare ancora l’illusione dell’utopia è al momento delittuoso, ingiustificabile. Che il capitalismo non sia destinato a morire di morte naturale lo diamo per scontato e non è neanche il caso di ostinarsi a ragionare dentro questo orizzonte ancora impregnato di filosofia della storia, cioè in termini di vita o morte, e di superamenti dialettici, svolte, rotture epocali (più o meno rivoluzionarie, naturalmente). Il nodo è capire di cosa vive il capitale, e come vive. Siamo dinnanzi a un mistero, a un rompicapo. Nella sua doppia natura, il Leviatano moderno si incarna nell’esoterismo enigmatico della Finanza e nella sua controparte teologicamente ingannevole e ammiccante, cioè la Cultura (scienza inclusa). La contiguità tra queste due dimensioni è antica e al tempo stesso inedita, sfuggente. Se nell’orizzonte classico della politica moderna (e anche nel progetto ribelle dell’egemonia) la cultura ha sempre avuto questa funzione ancillare di creare consenso, orientare l’opinione pubblica, creare i presupposti al mantenimento dello status quo o al suo sovvertimento più radicale, adesso è abbastanza lampante che la posta in gioco è diversa, e meno limpida. Alla cultura, e agli intellettuali, si chiede (ma è una richiesta implicita, latente) di creare adattamento, o adeguamento. Quasi cent’anni di “società dello spettacolo”, e solo un po’ meno di società dei consumi, non sono trascorsi invano, come è evidente. La gabbia d’acciaio di Max Weber ha anche l’aspetto della gabbietta per i criceti, con la sua ruota. La metafora della “corsa dei topi” usata da Paul Goodman per denunciare “l’assurdo” dentro cui siamo destinati a crescere, diventare adulti e morire, continua a essere terribilmente efficace, direi perfetta. Se il potere, se il centro delle nostre vite (o meglio il centro che decide delle nostre vite, insiste a plasmarle) è un arcano per iniziati – la Finanza – alla cultura si chiede di formare gli abiti mentali e i caratteri capaci di sopportare una totale impossibilità di agire, incidere sulla propria esistenza, fare la Storia. È un gioco delle parti, ed è agghiacciante. L’intellettuale opinionista è il perfetto cane-da-guardia del Potere, in questo schema. La lettura mattutina degli editoriali ispirati e pensosi di “Repubblica” (ma poi di tutti i giornali, onestamente), l’ascolto della radio, delle tivvù, dovrebbero dimostrarlo a sufficienza. Il chierico-opinionista non “critica” ma edifica, consola, ammonisce, redarguisce e rallegra, insomma predica (e insieme fa “terapia”, vuole adattarci). La notizia è che quando parliamo di Cultura, parliamo di questo.
L’ideologia italiana. Ironicamente, i fondatori del “materialismo storico” cominciarono dal cielo delle idee, ossia al contrario. L’ideologia tedesca, il primo, imponente manoscritto di Marx-Engels – “due grossi fascicoli in ottavo” mai pubblicati e presto abbandonati “alla rodente critica dei topi” – era un corpo a corpo con i fantasmi dell’idealismo e i vari bonzi del pensiero germanico tutto interno al terreno della sovrastruttura dove le figure di Feuerbach, Bauer, Stirner, e i fantasmi di Hegel, Schelling, Fichte si muovevamo come in un teatro fantastico e furioso perché “finora gli uomini si sono sempre fatti idee false intorno a stessi, a ciò che sono e devono essere” e “i parti della testa sono diventati più forti di loro… Ribelliamoci contro questa dominazione dei pensieri”. Lo racconta Marx, in un altro testo. Prima ancora di rimettere la dialettica in piedi e avventurarci dentro la critica dell’economia politica, “volevamo fare i conti con la nostra anteriore coscienza filosofica… il nostro scopo principale” era” di veder chiaro in noi stessi”.
La critica della cultura, quindi, prima ancora della scienza della storia, dell’analisi della struttura economica, e del comunismo. Siamo in una situazione simile, volendo; ci tocca, di nuovo, provare a “veder chiaro in noi stessi”. In questa (lunga) fase di sospensione gassosa della politica prima ancora di domandarsi come agire è il caso di provare a fare chiarezza sul paesaggio intellettuale più generale: un impasto di pregiudizi, idee-ricevute, tic mentali, riti, convenzioni, farse, crampi o coliche del cervello, schemi ottusi. In ogni italiano ci sono un San Francesco e un Cagliostro (e un Pulcinella) e l’ideologia italiana resta quest’incredibile mix di familismo amorale e perbenismo bigotto che non si riesce a spiegare sino in fondo ma con cui è sempre il caso di ricominciare ogni volta da capo a fare i conti. E questo, davvero, anche solo restando dentro il campo minato delle apprenze (tanto da Debord in poi dovrebbe essere chiaro quanto la cosiddetta Società dello Spettacolo abbia reso sfumata la differenza struttura-sovrastruttura).
La questione è sempre capire dove si nasconde, e chi è il nemico. Nel passaggio cruciale degli anni ottanta, Alfonso Berardinelli aveva provato a ridare forza al tema radicale della “critica della cultura” facendo riferimento a figure come Adorno e Wright Mills, per poi scagliarsi contro le icone (di sinistra) del momento in cui vedeva in sostanza l’incarnazione di una nuova alleanza tra “arte” e “merce”. Nel mirino c’era “uno stile di vita senza stile” (quello di una piccola borghesia ormai anti-marxianamente classe unica) e una forma latente ma inarrestabile del gusto (la cosa più politica che c’è, per quanto non sembri). Con sarcasmo, Berardinelli se la prendeva con l’Eco del Nome della Rosa, col sussiego kitsch in salsa mitteleuropa delle edizioni Adelphi e con le omelie di Scalfari, cose del genere. Bisognerebbe rifare un’operazione analoga, ma aggiornata, tenendo sempre presente che il problema è il midcult non la Cultura di Massa o quel che ne resta. Prendersela con Fabio Volo o Margaret Mazzantini eccetera non ha molto senso e persino i vecchi bonzi alla Scalfari non sono più Il problema (anche se restano un problema, ca va sans dire). Però in termini di midcult sarebbe forse il caso di seguire altri percorsi, riconoscere altri “nemici”, ben altri guasti. Il gusto, e l’ideologia italiana, seguono percorsi abbastanza tortuosi, oggi, e non troppo evidenti. Colpisce ad esempio la linea di continuità tra certe operazioni apparentemente di nicchia (la collana Nichel di Minimum fax ne è un esempio sintomatico, per dire) e un certo stile Einaudi-Sellerio-Giunti. L’ideologia italiana, oggi, è fatta anche di questo. La “voce”, il timbro, la retorica di una certa letteratura diventano sempre più riconoscibili. Nel campo del midcult dilagano i romanzi parassitariamente, ricattatoriamente appiattiti sulla cronaca (una letteratura engagé da sociologia spiccia o da giornalismo), i finti reportage di denuncia, le opere tutte giocate sui più ovvi meccanismi di identificazione, immedesimazione ( c’è tutta una iperproduzione che si nutre e rinutre dell’edulcorata paccottiglia vintage della nostalgia: i bei momenti anni ottanta, il Commodore e le Play Station, Drive-In e i Duran Duran, i “lucidalabbra”), le creazioni pensose-ispirate-sapienzali à la Moresco, Corona, Erri De Luca, Cognetti, e compagnia. E poi, in termini di Potere, la questione è capire dove si nasconde il potere, e chi lo incarna. Quello vero, si capisce, resta nelle mani della Finanza. Quello cultural-mediatico – dopo essere stato appannaggio per decenni dei reduci, più o meno pentiti, del ’68-’77 – adesso tocca ai trenta-quarantenni che solo pochi anni fa riuscirono ad autoproclamarsi “generazione” (Tq, appunto) solo sulla base di una rivendicazione isterico-sindacale di posti e prebende e incarichi (e naturalmente, anche, responsabilità, o almeno questo uno se lo augura). L’Industria Culturale – i funzionari del capitale – oggi sono loro, poco da dire.
Poco di buono. Quanto al “che fare?”, la tentazione di svanire e blindarsi nel silenzio può essere comprensibile ma resta rinunciataria, e serve a poco. Un’opzione (questa rivista ne fa in parte una bandiera), sarebbe piuttosto quella di concentrarsi sul “poco di buono” che ancora si riesca a creare-mettere-in-scena-pubblicare, e via dicendo. Va benissimo ma è ancora insufficente, e, forse, ha un che di consolatorio, tranquillizzante. Se si continua a parlare di cultura e critica della cultura, bisogna tornare a criticare, e farlo sul serio, ovvero in termini di smascheramento, guerriglia culturale permanente, irriverenza e sarcasmo, sovversione. Proteggere il “poco di buono” che c’è, è ancora… poco. Il critico, oggi, dovrebbe semmai accollarsi il lavoro di Sisifo che Walter Benjamin assegnava o vedeva realizzato nella figura stramba del collezionista, colui che toglie (o prova a togliere) “Il carattere di merce alle cose”, ma non per restiturgli un’aura, per smascherarle.