Agli animali e altre poesia
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poesie di Wystan Hugh Auden
a cura di Paola Splendore
Autore di numerose opere poetiche, drammi, saggi, libretti d’opera, W.H. Auden è universalmente riconosciuto tra i poeti maggiori e più influenti del Novecento. Nato a York, Inghilterra, nel 1907, è morto nel 1973 in Austria, a Kirchstetten, dove si era trasferito dopo aver vissuto per più di trent’anni negli Stati Uniti. Poeta civile dalla forte vena satirica anti-borghese, spesso la sua è poesia d’occasione, nel senso più alto del termine, commento politico e psicologico ai grandi eventi del tempo, come nelle notissime Spagna 1937 (durante la guerra civile Auden era andato a guidare un’ambulanza come volontario) e 1° Settembre 1939, scritta allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Fin dall’esordio negli anni Trenta, tra poesia e teatro di influenza brechtiana, prevalgono le note dell’ironia e le preoccupazioni etiche, inserite poi in una gamma sempre più differenziata di voci poetiche e di temi ricorrenti, come la riflessione sul tempo, la natura, l’amore. La sua grande ricchezza linguistica, la straordinaria perizia tecnica, penalizzano spesso le numerose traduzioni italiane, non sempre all’altezza dei testi originali. Dal corposo canone audeniano proponiamo tre poesie da Grazie, Nebbia (Adelphi 2004, traduzione di Alessandro Gallenzi), e due da Un altro tempo (Adelphi 1997, traduzione di Nicola Gardini).
Agli animali
Per noi, che
dall’istante in cui veniamo
scaraventati al mondo
cadiamo nel
disordine
che di rado
sappiamo esattamente
cosa stiamo facendo,
e preferiamo anzi non
saperlo,
è una gioia
pensare,
anche senza vedervi e senza udirvi,
che voi siete
presenti,
benché pochi di
voi
ci ritengano degni di uno sguardo,
a meno che non ci
accostiamo troppo.
Per voi tutti
gli odori sono sacri,
tranne il nostro, e i profumi
da noi
confezionati.
E con quale
prontezza e abilità
eseguite i precetti di Natura
senza
seguire mai
comportamenti
errati,
salvo di tanto in tanto
qualche nefasto imprinting.
Dotati di
un’innata cortesia,
non dimenate con sussiego i gomiti
e non
guardate male,
e nemmeno
storcete le narici,
né le andate a ficcare negli affari
di
qualche altra creatura.
Le vostre
abitazioni
sono comode e intime,
non templi presuntuosi.
Siete costretti
a togliere la vita,
ma solo per proteggere
la vostra, e non
certo per un plauso.
In confronto ai
più ingordi tra di voi,
come sembrano Rozzi
i nostri
gentiluomini che cacciano.
Esenti dalle
tasse,
non avete sentito mai il bisogno
di essere istruiti,
ma la vostra
cultura, tramandata
oralmente, ha ispirato
dolci versi ai
poeti;
i vostri Inni
Eucaristici,
pur se ignari di Dio
son più santi dei nostri.
Di solito si
dice che l’istinto
sia quello che vi guida;
mai io lo chiamerei
Senso Comune.
Se non siete
capaci
di generare un genio come Mozart,
neppure siete in grado
di affliggere la
terra
con sciocchi di talento come Hegel
o ingegnosi tipacci
come Hobbes.
Diventeremo
mai
adulti, come a voi succede subito?
Sembra poco probabile.
Anzi un bel
giorno noi
potremmo trasformarci non in fossili,
ma in nubi di
vapore.
Ora siamo
distinti, ma un bel giorno
ci riuniremo a voi
(ben presto si
assomigliano i cadaveri),
eppure non
mostrate di sapere
che siete condannati.
Sarà forse per questo
che noi nuovi
arrivati
siamo spesso gelosi della vostra
innocenza, però
invidiosi mai?
Grazie, nebbia
Grazie,
Nebbia
Abituato al clima newyorkese,
conoscendo lo Smog fin
troppo bene,
mi ero dimenticato
di Te, la Sua Sorella
immacolata,
di ciò che porti ai nostri inverni
inglesi:
conoscenze native si risvegliano.
Acerrima nemica
della fretta,
spauracchio di aerei e guidatori,
certo Ti
maledice ogni volatile,
ma io sono felicissimo,
perché Ti sei
convinta a visitare
le campagne incantevoli del Wiltshire
l’intera
settimana di Natale,
e nessuno può correre
nel mio cosmo,
ridotto
ad una villa antica e a quattro Monadi
legate da
amicizia:
Io, Sonia, Jimmy e Tania.
Fuori un
silenzio informe:
persino quegli uccelli spinti a stare
dal
loro sangue caldo
qui intorno tutto l’anno,
come il bottaccio
e il merlo,
da Te allettati frenano
il loro verso
allegro,
nessun gallo si azzarda a strepitare,
e le cime degli
alberi, visibili
appena, non stormiscono ma restano
immobili e
condensano efficienti
in gocce esatte la Tua umidità.
Dentro, spazi
accoglienti ben precisi
rendono confortevole
la lettura e il
ricordo, i cruciverba,
le affinità, le risa:
ristorati da
sapide cenette
e allietati dal vino,
sediamo lieti in
cerchio,
ignari di noi stessi ma solerti
nei confronti degli
altri,
cercando quanto più di approfittarne,
perché ben
presto occorrerà rientrare,
finiti questi giorni di clemenza,
nel
mondo del denaro e del lavoro,
dove si è attenti ad ogni punto e
virgola.
Nessun sole
d’estate potrà mai dissolvere
le Tenebre totali diffuse dai
Giornali,
che vomitano in prosa trasandata
fatti violenti e
sordidi
che non riusciamo, sciocchi, ad impedire:
la terra è
un brutto posto,
eppure, per quest’attimo speciale,
così
tranquillo ma così festoso,
ti rendo Grazie: Grazie, Grazie,
Nebbia.
Una
maledizione
Nero
fu il giorno in cui Diesel
concepì il suo truce motore che
generò te, vile invenzione,
più perversa, più criminale
perfino della macchina fotografica,
mostruosità metallica,
afflizione e infezione della nostra Cultura,
principale
sciagura della nostra Comunità.
Come
osa la Legge proibire
l’hashish e l’eroina e al tempo
stesso
autorizzare il tuo uso, tu che gonfi
tutti i deboli Io
inferiori?
I drogati danneggiano soltanto
la loro vita: tu
avveleni
i polmoni degli innocenti,
il tuo fracasso sovreccita
i pacifici,
e su strade intasate ne muoiono
ogni giorno a
centinaia nel guazzabuglio del caso.
Agili
tecnici, certamente dovreste
per la vergogna abbassare la
testa.
Il vostro ingegno produce meraviglie,
ha sbarcato degli
uomini sulla Luna,
sostituito i cervelli coi computer,
e può
forgiare una “magnifica bomba”.
E’ uno scandalo che
grida vendetta
che non riusciate mai a trovare il tempo
o a
darvi la pena di costruirci
ciò che il buon senso sa che ci
occorre,
una piccola carrozza elettrica,
inodore e silenziosa.
Oh, dite che cos’è davvero Amore
Per alcuni Amore è un fanciullo,
e per altri un uccello,
per alcuni governa il mondo,
il che per altri è assurdo:
ma quando chiesi al mio vicino che
sembrava lo sapesse,
la moglie si è seccò e ribatté
che non era suo interesse.
Assomiglia a un pigiama
o a un prosciutto vecchio e scipito?
Il suo odore fa pensare a un lama,
o avrà un buon profumo di pulito?
Al tatto è acuto spino
o d’oca soffice piumino?
È aguzzo o liscio fuori?
oh, dite che cos’è davvero Amore.
I libri di storia ne parlano
in note misteriose,
ed è un argomento consueto
nei viaggi di crociera;
l’ho visto menzionato nei
racconti di suicidio,
e scarabocchiato perfino
sull’orario dei treni.
Fa l’urlo d’un famelico alsaziano
o come una fanfara un gran baccano?
Lo imiterà nel modo meno incerto
una sega o uno Steinway da concerto?
Quando canta alle feste fa furore?
Soltanto roba classica gli piace?
E quando vuoi il silenzio, anche lui tace?
Oh, dite che cos’è davvero Amore.
Sono andato a vedere nel bersò,
non ci aveva mai messo piede,
ho esplorato il Tamigi a Maidenhead
e l’aria salubre di Brighton.
Non so che cosa mi cantasse il merlo
O che cosa dicesse il tulipano,
ma non era nascosto nel pollaio
né era finito sotto il letto.
Fa straordinarie smorfie forse?
Sull’altalena gli gira la testa?
Passa tutto il suo tempo alle corse
o pizzicando qualche corda pesta?
Sul denaro s’è fatto proprie idee?
Rende a quella di Patria il giusto onore?
Storie allegre racconta, pur plebee?
Oh, dite che cos’è davvero Amore.
Quando viene, imprevisto s’avvicina
mentre mi metto le dita nel naso?
Busserà alla mia porta la mattina?
O sul tram mi schiaccia un piede a caso?
Giunge improvviso come un temporale,
saluta da villano o da signore?
Per la mia vita, è un cambio radicale?
Oh, dite che cos’è davvero Amore.
Blues del profugo
Diciamo
che questa città ha dieci milioni d’anime,
alcune abitano in
ville, altre in tuguri:
eppure non c’è posto per noi, mia cara,
non c’è posto per noi.
Una volta avevamo una terra, la
credevamo bella,
cerca nell’atlante e la troverai:
non possiamo
andarci adesso, mia cara, non possiamo
andarci adesso.
Nel cimitero del paese cresce un
vecchio tasso,
ogni primavera fiorisce tutto:
fiorire non sanno
i vecchi passaporti, mia cara, fiorire
non sanno i vecchi
passaporti.
Il console ha battuto il pugno sul
tavolo e ha detto:
” Se non avete un passaporto siete
ufficialmente morti “:
ma noi siamo ancora vivi, mia cara,
siamo ancora vivi.
Mi sono rivolto a un patronato; mi
hanno fatto sedere;
mi hanno gentilmente chiesto di tornare l’anno
prossimo:
ma oggi dove andremo, mia cara, oggi dove andremo?
Sono andato a una riunione; l’oratore
s’è alzato e ha detto:
” Se li facciamo entrare, ci fregano
il pane quotidiano”;
parlava di te e me, mia cara, parlava di
te e me.
Mi è parso di sentire il rombo del
tuono nel cielo;
era Hitler sull’Europa che diceva: “Devono
morire”;
oh, pensava a noi, mia cara, oh sì, pensava a noi.
Ho visto un cagnolino in una giacca
chiusa da uno spillo,
ho visto una porta aperta e un gatto
entrare:
ma non erano ebrei tedeschi, mia cara, non erano ebrei
tedeschi.
Ho passeggiato per il porto e mi sono
fermato sul molo,
ho visto i pesci nuotare come se fossero
liberi:
a soli tre metri da me, mia cara, a soli tre metri.
Ho attraversato un bosco, ho visto gli
uccelli sugli alberi;
non conoscevano politicanti e cantavano a
piacere:
non erano gli uomini, mia cara, non erano gli uomini.
Ho sognato un palazzo di mille
piani,
con mille finestre e mille porte;
non una era nostra,
mia cara, non una era nostra.
Stavo su una grande pianura sotto la
neve;
diecimila soldati marciavano avanti e indietro:
cercavano
te e me, mia cara, cercavano te e me.”
Il cittadino ignoto
A
Js/07/M/378
Lo Stato Dedica
Questo Monumento Marmoreo
L’Ufficio Statistico attesta
che mai fu fatta contro di lui
querela,
e rapporto sulla sua condotta non si dà
che non lo
giudichi un santo nel senso moderno di un termine antiquato,
perchè
in ogni atto egli servì la Comunità.
A parte il
periodo della Guerra, finchè andò in pensione
lavorò in una
fabbrica e mai fu licenziato,
ma piaceva ai padroni, Fudge Motors
Inc.
Eppure non era un crumiro né aveva idee bizzarre,
perché
il Sindacato attesta che pagava le sue quote
(e ci è
attestato che il Sindacato non mente)
e i nostri Assistenti
Sociali hanno rilevato
che era popolare tra i suoi compagni e non
disdegnava un bicchiere.
La Stampa è convinta che
comprasse ogni giorno un quotidiano
e che non reagisse alla
pubblicità in modo strano.
Le polizze a suo nome mostrano che
era assicurato a vita,
e il suo Libretto Sanitario prova che andò
in ospedale una volta ma ne uscì guarito.
Le varie Ricerche di
Mercato dichiarano
che sapeva usufruire dei Piani Rateali
e
che aveva tutto quanto occorre all’Uomo Moderno,
un grammofono,
una radio, un’auto e un frigo.
I vari Sondaggi d’Opinione
rilevano soddisfatti
che aveva l’opinione giusta al momento
giusto;
quando c’era la pace, voleva la pace; quando c’era la
guerra, partiva.
Era sposato e accrebbe di cinque figli la
popolazione,
numero perfetto secondo il nostro Eugenista per un
padre della sua generazione,
e i nostri insegnanti riportano che
non ostacolò mai i loro programmi.
Era libero? Felice? Che
domande assurde:
se qualcosa non avesse funzionato, di certo ne
saremmo informati.
1° settembre 1939
Siedo in una delle bettole
della
Cinquantaduesima strada
incerto e spaventato
vedendo scadere le
astute speranze
d’un decennio basso e disonesto:
onde di
rabbia e di paura
circolano per le luminose
e oscurate contrade
della terra,
ossessionando le nostre vite private;
l’indicibile
odore della morte
offende la notte di settembre.
Le ricerche degli esperti
possono
riesumare intera l’offesa
che da Lutero ad oggi
ha
fatto impazzire una cultura,
scoprire quello che successe a
Linz,
quale immensa illusione ha creato
un dio psicopatico:
io
e il pubblico sappiamo
quel che i bambini imparano a
scuola,
coloro a cui male è fatto,
male faranno in cambio.
L’esule Tucidide sapeva
tutto
quello che può dire un discorso
sulla Democrazia,
e quello che
fanno i dittatori,
l’antiquato ciarpame che raccontano
a un
apatico sepolcro;
egli analizzò tutto nel suo libro,
la
ragione messa al bando,
il dolore che plasma l’abitudine,
il
cattivo governo e il cordoglio:
tutto questo ci è inflitto
un’altra volta.
In
quest’aria neutrale
dove ciechi grattacieli usano
tutta la
loro altezza a proclamare
la forza dell’Uomo Collettivo,
ogni
lingua versa a gara
la sua scusa vana:
ma chi può vivere a
lungo
in un sogno euforico;
essi guardano fuori dallo
specchio
la faccia dell’imperialismo
e il torto
internazionale.
Le
facce lungo il bancone
s’aggrappano al loro giorno medio:
le
luci non devono mai spegnersi,
la musica deve sempre andare,
tutte
le convenzioni cospirano
perchè questa fortezza
assuma
l’arredamento di casa;
perchè non vediamo dove
stiamo,
persi in un mondo stregato,
bambini spaventati dalla
notte
che mai felici sono stati o buoni.
Le
idiozie di partito più vacue
che gridano le Persone
Importanti
non sono radicali come il nostro
desiderio:quel che
il folle Nijinsky
ha scritto su Diaghilev
vale per il cuore di
tutti;
chè ogni donna e ogni uomo
nutre nelle fibre
l’errore
di bramare quel che non può avere,
non l’amore
universale,
ma d’avere per sè solo ogni amore.
Dal
buio conservatore
gli ottusi pendolari entrano
nella vita
etica,
ripetendo il voto mattutino:
” Sarò
fedele a mia moglie,
mi concentrerò di più sul lavoro”,
e i
governanti impotenti si svegliano
riprendendo il loro gioco
obbligato:
chi può liberarli adesso,
chi può arrivare ai
sordi,
chi può parlare per i muti?
Tutto
quello che ho è una voce
per svelare la bugia nascosta,
la
bugia romantica ch’è nel cervello
del sensuale uomo della
strada
e la bugia dell’Autorità
i cui edifici frugano il
cielo:
non c’è una cosa chiamata Stato
e nessuno esiste da
solo;
la fame non lascia scelta
al cittadino nè alla
polizia;
dobbiamo amarci l’un l’altro o morire.
Senza difesa il nostro mondo
giace sotto la notte attonito;
eppure, accesi ovunque,
ironici punti di luce
lampeggiano là dove i Giusti
si scambiano i loro messaggi:
oh, ch’io possa, composto come loro
d’Eros e di polvere,
assediato dalla medesima
negazione e disperazione,
mostrare una fiamma affermativa.
La foto è tratta da Farmacia notturna dei fratelli D’innocenzo (Contrasto 2019).