Abbiamo ancora bisogno di fiaba
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Vittorio Giacopini intitolava “Tutto è guerra” un suo intervento sul numero degli Asini di ottobre-novembre 2022, il cui obiettivo era disegnare i contorni del tempo che viviamo e fare da orizzonte di senso a molti altri articoli della rivista. Funzione che, d’altronde, continua a esercitare. Ma alla perentorietà di tale titolo ci sentiamo di contrapporre quello, similmente categorico, di questa sezione: “Tutto è fiaba”. Estrapolato dai Frammenti di Novalis, questo fu anche il titolo di un importante convegno del 1980 diventato poi volume per i tipi di Emme Edizioni. Ci si interrogava allora sulla persistenza della fiaba, sulla sua resistenza a tempi diversi o, ancor più, sulla sua capacità di trasformarsi in dialogo con essi. Domanda che ci sembra ancora più urgente oggi e forse dovremmo trasformarla in esortazione, per trovare la necessità di adoperare anche questa lente – ché la fiaba è un modo per leggere il mondo – per cercare di capire come viviamo.
Il fatto è che nel momento in cui le categorie principali con cui leggiamo, misuriamo, immaginiamo la realtà vengono meno, o presentano falle evidenti e non recuperabili, la fiaba si ripresenta come opportunità apparentemente remota ma inequivocabile, come la lucina lontana di una casa che vediamo avvicinarsi quando si è fuori di notte, alla ricerca di una sosta. Immagine che subito ci riporta a scenari fiabeschi e che Gaston Bachelard individua come una delle più paradigmatiche a rappresentare il nostro bisogno di tornare a casa, di trovare rifugio, non solo in termini concreti.
Ma non si tratta di fuga, di una forma di evasione, anzi. Troppo spesso siamo portati ad associare all’universo fiabesco un immaginario escapista, privo di increspature, più o meno kitsch o stereotipato. La fiaba non si trova in questa tappezzeria precostituita, si rifiuta – e non potrebbe mai anche volendo – di ridursi a carta da parati. Quella “vera” non ha nulla a che fare con scenari rassicuranti e atemporali, anzi la Storia è una delle materie prime di cui è fatta la sua pasta. L’universalità di cui si fa portatrice non deve essere confusa con una supposta genericità del contesto da cui nasce, in cui ritorna, si trasforma. Ogni fiaba conserva le tracce del luogo, del tempo e della cultura che le ha dato forma, bisogna saperle riconoscere. Non c’è quindi alcuna contrapposizione tra Fiaba e Storia, tra Evasione e Realtà e in quest’ottica si rivela utile la lettura del recente volume per Bompiani di Nicholas Jubber, I raccontastorie, che nel suo tono ampiamente divulgativo e non poco ammiccante al lettore è pure sorretto da un’intenzione sincera e ben messa in atto: riportare certe narrazioni alla concretezza e alla specificità degli spazi e delle epoche in cui si sono affermate. Le “meraviglie” di Giambattista Basile, ad esempio, sono ricollocate in un contesto dove convivono la Napoli secentesca, Caravaggio e Artemisia Gentileschi, le contraddizioni e i soprassalti di miseria e nobiltà e la stessa figura dell’orco, così spesso protagonista e più varia e sfumata di quanto si pensi, non è che il travestimento della condizione dei ceti più poveri, inchiodati a un fallimento senza riscatto.
Ma c’è anche un’altra storicità specifica della fiaba che si nasconde nella stratificazione dei tempi e delle genti in cui è circolata e ancora sopravvive. La fiaba è sempre anche una costellazione di generazioni, una camera d’echi che dietro la voce che la racconta fa risuonare quelle che l’hanno preceduta. Ed è proprio questa compresenza, questa natura intrinsecamente collettiva e corale, che la rende insostituibile e ne reclama la necessità: riporta noi a cercare i comuni denominatori del nostro vivere, a riconoscerne i fondamentali, le domande di base, il bisogno di dare significato, di ritrovarsi. Il presente che viviamo, le contraddizioni che sembrano insanabili, lo smarrimento radicale, la sensazione di essere arrivati a un punto morto dove non è dato più progresso nonostante gli strumenti con cui ci convinciamo altrimenti, la vaghezza di un’idea di futuro, la convinzione di un irredimibile fallimento: sono tutti richiami, richieste d’aiuto a cui la fiaba sa rispondere a suo modo, perché ci riporta al centro, ci orienta nel mantenere vive le domande, fa pulizia degli orpelli e ripresenta lo scheletro di quella questione che è l’esistenza. Una questione a cui, inevitabilmente, non si può rispondere da soli, come da soli non si possono risolvere gli scenari che drammaticamente si presentano oggi ai nostri occhi, siano essi la guerra, una pandemia, la mutazione climatica e le sue derive ecologiche, la sproporzione nella distribuzione delle ricchezze, la necessità di spostarsi per sopravvivere, la crepa tra le generazioni. In questo la fiaba è anche ammonimento, un antidoto a tutte le forme di individualismo narcisistico con cui ci coccoliamo, che sbandieriamo, con cui ci consoliamo.
Ecco se c’è proprio una parola che la fiaba rifugge è “consolazione”. Perché la sua capacità di dare senso, di porsi come sponda possibile, come bussola per orientarsi, non si raggruma in una risposta, non sventola verità, ma rimane domanda. L’essenzialità da cui trae forza, la sintesi – come in chimica – a cui riesce a dare forma è quella dell’interrogativo. Gli echi a cui alludevamo prima sono il risuonare sempre delle stesse questioni che poniamo a noi stessi, agli altri, alla natura, alla morte, alla temporalità, al desiderio. Il vero shock di questi anni è l’aver nuovamente scoperto la voragine di queste domande: sono sempre state lì, ma ci eravamo convinti di averle risolte. Di fronte alla crepa di questa illusione la fiaba se la ride, ma ci vuole bene ed è disposta per l’ennesima volta a prenderci a braccetto e riportarci paziente là da dove non ci eravamo mai mossi, la linea di partenza, noi che ci pensavamo prossimi al traguardo.
Da questa posizione il nostro sguardo deve riabituarsi a sopportare una luce che sembrava dissolta, quella del mistero, e a riaccettare l’invisibile. Tendiamo oggi sempre a vivere ciò che non capiamo o non prevediamo come minaccia, come nemico potenziale, come sfida alla risoluzione e alla vittoria. Dimentichiamo così che il mistero è tanta parte dell’esistenza e che è humus fertile, non impedimento. La forma con cui la fiaba ce lo ricorda, e ricorda come il sacro sia nostro compagno segreto al di là che lo vogliamo riconoscere o meno, è la meraviglia. Che, ancora una volta, non è luccicore di plastica o barlume in 3D, non è la soddisfazione carezzevole della conferma ma il sovvertimento ora insperato ora terribile delle aspettative, che costringe di nuovo a ripartire, in un andamento perpetuo tra andare e tornare (come il rocchetto, il telaio, il dondolare della sedia, le stagioni, le generazioni…) che non è paralisi ma la forma del vivere.
Ma una volta riconosciutane la necessità, dove si palesa oggi la fiaba? Spesso non è là dove la si andrebbe a cercare per prima, nei libri per bambini e bambine, settore a cui è, in parte impropriamente, associata. Schiacciata dal “dovere” di essere utile, la letteratura per l’infanzia oggi tende a essere in presa diretta con la realtà e raccontare anche ai lettori e alle lettrici più giovani quali sono le sfide dei nostri tempi, accontentando e, cosa più grave, consolando le ansie educative di genitori, insegnanti, bibliotecari. Quando la fiaba appare, risulta essere una materia prima da rimodellare o parodizzare, e viene tradita dalle “nobili intenzioni” del politicamente corretto, della rivendicazione femminile, dell’attenzione alle minoranze e dell’inclusività. Sguardo ottuso davvero, perché è difficile pensare a una forma di immaginario costitutivamente più inclusiva della fiaba, senza bisogno di alcuna correzione o attualizzazione: vero catalogo dei destini umani, come ci ricordava Calvino, essa non solo li racconta in tutte le sue possibili declinazioni, ma li trascende e li fa comunicare con tutte le altre forme di esistenza, umane vegetali animali minerali. In un’epoca che abbiamo imparato a chiamare Antropocene e che vive di continue ingiunzioni rivolte a noi stessi per ridimensionarci, per rinunciare a vederci alla cima di una gerarchia del creato e per ridurre gli steccati dell’io a favore di un senso di comunità non facile da recuperare, la fiaba ci ricorda sorniona che è sempre stata qui, accanto a noi, a dire queste cose. E non è un caso che essa possa far capolino in contesti solo apparentemente lontani, come in certa tradizione fantastica e fantascientifica femminile ora giustamente recuperata (pensiamo a un volume antologico come Le visionarie ad esempio, ma anche ad alcuni autori e soprattutto autrici del fumetto contemporaneo), ma anche nel Padiglione Centrale dell’ultima Biennale di Venezia, che recuperava le radici del surrealismo di Leonora Carrington per esplorarne i prolungamenti fino alle propaggini più vicine a noi. Un’ultima notazione ci piace farla su certi titoli del cinema italiano contemporaneo: più che negli affondi diretti, come il Basile o Pinocchio rivisti da Garrone, la fiaba si fa sentire con forza nell’opera di alcune delle firme più importanti di oggi: in Alice Rohrwacher, abile nel trovare e dare vita a sguardi laterali e liminari, capaci di cogliere “le meraviglie” a partire dalle materie prime più scadenti, il kitsch televisivo, una campagna fuori tempo massimo, il “Ba ba baciami piccina” di Alberto Rabagliati gracchiante dalle radio durante il fascismo e la guerra. In Pietro Marcello la fiaba germina come pasta ctonia e diventa l’humus di Bella e perduta in tutta la sua ancestralità, universale eppure inequivocabilmente italiana nell’uso della maschera, in certo fatalismo, nell’oscillazione mai equilibrata tra la bellezza e la sua idiota usurpazione; e ricompare anche nell’ultimo Vele scarlatte, storia di resistenza da parte di chi si ostina a mantenere uno sguardo incantato, aperto al mistero. Segnali che sembrano colti anche da artisti più giovani, come la Samani di Piccolo corpo o i Rigo de Righi e Zoppis di Re Granchio; senza dimenticare i fratelli D’Innocenzo, capaci in Favolacce di mettere in scena il più triste e squallido mondo possibile, quello che alla fiaba rinuncia.