A Napoli il Gridas, gruppo risveglio dal sonno

“Siamo in dirittura d’arrivo, ma non sappiamo se andiamo a sbattere contro il muro o se tagliamo il traguardo”.
L’amarezza nella voce di Mirella Pignataro è una sfumatura che da quando la conosco, almeno vent’anni, raramente avevo percepito, per non parlare della durezza della sua metafora così concreta sul fatto di trovarsi di fronte a un muro, di burocrazia, affari e cemento armato, in grado di schiacciare persone e decenni di cultura, socialità, educazione popolare, radicamento territoriale.
Mirella racconta le ultime battute di una lotta che va avanti da dieci anni dal punto di vista delle vicende giudiziarie, ma che in realtà risale almeno ai primi Ottanta: quella per legittimare la presenza del Gridas nel rione Monterosa, la parte più antica dell’area nord di Napoli che con la successiva legge di edilizia popolare 167 diventerà la Scampia che tutti conosciamo.
Fondata nel 1981, l’associazione culturale Gruppo risveglio dal sonno si appoggia inizialmente in una delle stanze del centro sociale dove si trova il Sunia, Sindacato unione di coinquilini, un centro fatto per la gente per svolgere attività comuni.
Il Gridas di Felice Pignataro, Mirella La Magna, Franco Vicario e altri, è un gruppo all’avanguardia nel panorama italiano, che cambia il linguaggio e le pratiche dell’attivismo politico calato, radicato in un ambito popolare – e povero – e che decide di “mettere le proprie capacità artistiche, culturali, al servizio della gente comune per stimolare un risveglio delle coscienze e una partecipazione attiva alla crescita della società”. La potenza visionaria dei murales di Felice, che dalle periferie napoletane si irradiano in giro per l’Italia, la bellezza politica dei laboratori partecipati per il recupero della manualità, il cineforum di quartiere che combatte contro l’isolamento provocato dalla televisione e la nascita del Carnevale di Scampia, segnano l’inizio di una storia di impegno sociale, civile e politico che continua ancora oggi e che ha mobilitato e ispirato nel tempo migliaia di persone, nella città di Napoli e in tutta Europa.
“Quando nel 1983 abbiamo fondato il carnevale che continuiamo a portare avanti, serviva più spazio, quindi iniziò la battaglia per legittimare la posizione nel centro sociale. Alcuni dicevano che l’edificio era del Comune, altri della Regione, con la direzione di un suo ente, lo Iacp (Istituto autonomo case popolari) oggi Acer”. Mirella continua a raccontare come fosse ieri che, non sapendo di chi fosse la struttura, Felice andava da una parte all’altra degli uffici istituzionali alla ricerca di un referente, scrivendo lettere e lettere agli Iacp, che non risposero mai, ma che d’altronde non avevano mai presidiato e manutenuto la struttura, fino al punto di non presentarsi nemmeno quando ci fu un incendio nel 1988. L’edificio cadeva a pezzi e tutta la manutenzione è sempre stata presa in carico dal Gridas e da chi abitava lo spazio. In una delle sue lettere del 1994, indirizzate a questo muto interlocutore, tra le più belle secondo Mirella, Felice descrive il sogno di fondare una casa delle culture popolare e senza scopo di lucro e che potesse includere tutti, dai vecchietti che giocavano a carte a chiunque altro, esprimendo una visione ampia, lungimirante, verso l’alto e non calata dall’alto. Serviva uno spazio più grande per costituire un centro di documentazione video, fotografico, un teatro, un cinema, uno spazio pubblico restituito agli abitanti di un quartiere, aperto a tutti. Uno spazio in cui coniugare creatività, laboratori manuali, politica, educazione, processi di partecipazione, convivialità. Uno spazio sottratto alla camorra e alla ignoranza in una terra oppressa dalla sopraffazione e dallo sfruttamento. Uno spazio capace di “fare scuola”, di raccontare, di ascoltare, di coltivare e incoraggiare nei decenni le più importanti esperienze del panorama locale e nazionale. Uno spazio che è tuttora attivo, che è andato avanti sempre in maniera completamente autogestita e autofinanziata e che è diventato un presidio culturale riconosciuto da tutte e tutti, nonostante l’assenza, la sordità e la cecità istituzionale, da cui per fortuna non ci si è fatti annichilire. Uno spazio che è diventato punto di riferimento per gli stessi politici locali di turno che non mancano di farsi fotografare in corteo durante i carnevali che, nel frattempo, in circa quaranta anni, hanno attirato migliaia di persone e restano una delle tradizioni più consolidate e significative di un quartiere giovane e praticamente privo di ritualità collettive radicate in profondità.
La cosa può sembrare paradossale ma non lo è affatto, se si pensa alla continuità, generosità e autorevolezza delle persone che lo hanno costruito e che lo difendono letteralmente dagli assalti giudiziari e dalle ottusità burocratiche. Oltre al danno dunque la beffa, perché per costruirsi una credibilità a molti politicanti è convenuto sbandierare amicizia e atteggiamento rispettoso nei confronti del Gridas.
Ma questo atteggiamento strumentale non serve a molto al Gruppo Risveglio dal Sonno che è costretto a essere insonne per le preoccupazioni legate alla mancata legittimazione e alle vicende giudiziarie che possono portare a uno sgombero. In qualunque altra città del mondo uno spazio come questo non solo non sarebbe in costante pericolo di vita, non sarebbe considerato abusivo – concetto che Felice è riuscito a ribaltare nella famosa lettera del 1994: “Abusivo non è chi restituisce all’uso dei cittadini una struttura abbandonata da anni e ritenuta pericolosa per l’incolumità degli stessi, ma piuttosto il potere che per anni espropria i cittadini, per incuria, delle strutture che potrebbero migliorarne la vita” – ma avrebbe ottenuto con poco sforzo il riconoscimento che di fatto già gli appartiene.
Dopo la morte di Felice nel 2004, la preoccupazione è aumentata. Si sentiva nell’aria parecchia tensione di gente che voleva entrare ma senza un progetto comune, la convinzione era infatti che lo spazio sarebbe stato abbandonato. Invece il gruppo è rimasto sul posto, ha presidiato il territorio con il carnevale, il cineforum, ha attirato sempre più gente nella convinzione che è importante aprire a chiunque voglia ed è altrettanto importante creare un linguaggio di base comune per tutti quelli che ruotano intorno al Gridas, per avere direttive interne nel momento in cui si agisce nel territorio. Operazione non facile. Tutti i percorsi che hanno davanti a sé una utopia collettiva da raggiungere, molto molto faticosa, che richiedono sforzi mentali e manuali quotidiani, in sostanza anima e corpo, rischiano costantemente di non farcela, di trovarsi in minoranza assoluta e di essere silenziati.
Ma silenziare il Gridas sarebbe un vero e proprio delitto e una enorme responsabilità cittadina e nazionale.
Eppure… Come in una favola in cui sono protagonisti spiriti che volano alti, pur mantenendo profonde radici in terra, compare sempre un antagonista che vuole frenare, spingere e affossare verso le mediocrità e gli orrori delle piccole beghe burocratiche e affaristiche.
Ed ecco la seconda parte della storia, un caso in cui i ruoli si ribaltano, i buoni diventano colpevoli e i cattivi diventano i tutori della legge, un classico insomma. Proviamo a semplificare una vicenda giudiziaria non semplice, mediamente lunga per i tempi della giustizia italiana e, più che appassionante, sconfortante per i paradossi che esprime.
Nel 2005 sono partite a cura della Procura della Repubblica di Napoli delle indagini preliminari, conclusesi con il rinvio a giudizio del Gridas e di alcuni altri occupanti per il reato di “invasione di edificio pubblico”. Il Gridas ha rifiutato la strada del patteggiamento perché, scrivono “andare avanti nel processo significa poter raccontare la propria storia e vedere riconosciuta una volta per tutte la propria posizione nell’edificio”. Gli ex Iacp riemergono dagli abissi dopo 30 anni e rivendicano la proprietà dello spazio, proponendo di pagare un affitto “normale”, 3.000 euro al mese, cosa praticamente impossibile per un gruppo che non fa alcuna attività a scopo di lucro. Il gruppo va avanti, senza pensare alla possibile accusa di occupazione abusiva, forti di una pratica territoriale decennale e dei servizi completamente gratuiti offerti alla comunità.
Su sollecitazione del Gridas stesso si tiene un primo incontro informale tra Comune di Napoli, Gridas e Iacp per cercare di trovare una soluzione possibile a questo paradosso: “una realtà attiva per produrre cultura in un territorio martoriato e abbandonato come quello di Scampia che viene messa alla porta dalle istituzioni che dovrebbero ostacolare l’assenza culturale che fa da substrato ottimale per la crescita della cultura camorrista”. Parole forti da cui nessuno si sente però scalfito.
Nel 2010 arriva al Gridas una diffida che intima di lasciare la struttura in 15 giorni altrimenti si va incontro a un processo penale e allo sgombero coatto. La struttura resta presidiata, inizia il processo e contemporaneamente iniziano anche la campagna “Il Gridas non si tocca” e la mobilitazione: si schierano a favore del Gridas gli intellettuali italiani più importanti, alcuni dei quali in parte devono anche al Gridas il loro successo. Nasce San Ghetto Martire, il Santo protettore delle periferie, che viene portato in presidio al Comune, oltre che in corteo a Carnevale, e su cui circolano varie leggende, ma questa è un’altra storia.
Il processo penale si protrae fino al 2013 e si conclude con l’assoluzione perché il fatto non sussiste. Mirella ricorda uno dei tanti paradossi: “Abbiamo avuti i complimenti dell’accusa secondo la quale dovevamo avere un monumento perché avevamo difeso lo spazio”. E continua: “Finito questo, il 23 dicembre 2015 viene notificata dallo Iacp una citazione di comparizione per una nuova causa, questa volta però civile. Io invece pensavo che avessero sbagliato”. Si tenta la strada della conciliazione con il giudice penale, Iacp, e un comune di Napoli molto attivo e apparentemente solerte che dice di voler fare una permuta. Ma non succede niente. Il 10 maggio 2016 inizia la prima udienza del processo civile che si è protratto fino a oggi, con l’ultima udienza spostata al 26 ottobre a causa del Covid-19. Nel frattempo arriva una notizia bomba: hanno scoperto che l’edificio appartiene al comune di Napoli poiché è costruito nell’ambito di un quartiere residenziale che fa capo allo Iacp, ma esiste una legge che stabilisce che se ci sono edifici che riguardano l’utilizzo pubblico, questi appartengono al comune. Pertanto il Gridas non deve alcunché allo Iacp Questa potrebbe essere la svolta conclusiva, ma rimane lettera morta, perché il comune non ha ancora prodotto un riferimento alla legge e quindi non si può portare in sede di giudizio. Il Gridas si trova di fatto in mezzo a una diatriba tra comune di Napoli e regione Campania.
Dopo pressioni varie e vari assessorati al patrimonio che si avvicendano, viene indetto un primo tavolo di confronto con ex Iacp nel frattempo diventato Acer, che viene disatteso da questi ultimi; viene convocato il secondo tavolo, anch’esso disatteso; viene convocato allora un terzo tavolo, con tutti i tecnici del patrimonio, il 28 settembre.
Mirella, coerente con il suo spirito, vuole continuare ad avere fiducia, ma è consapevole che se ci si presenta di nuovo all’udienza del processo senza niente, si rischia lo sgombero. In realtà, punta più in alto e spiega qual è la strategia che dovremmo portare avanti a livello collettivo, come opinione pubblica e cittadinanza attiva: “noi vogliamo il riconoscimento, non vogliamo stare perché ce lo concedono, ma perché ne abbiamo il diritto riconosciuto da 40 anni di pratica attiva sul territorio”. Oltretutto è convinta che “se cambia il vento ci sbattono fuori per primi”, e ritorna quella amarezza di uno scenario futuro negativo che lei e il Gridas non meritano in nessun modo.
La mattina del 28 settembre, il Gridas riceve la telefonata dell’Assessore al Patrimonio del comune di Napoli che avvisa che per la terza volta il tavolo sarebbe saltato perché Acer ex Iacp “si rifiuta di venire”. Alcuni membri del Gridas, più disillusi, non si stupiscono di questa conclusione e prendono atto che Iacp è, di fatto, contro il Gridas. San Ghetto viene riportato in presidio dopo molto tempo. Ma “l’unico miracolo che ha fatto è che quella mattina è uscito un po’ il sole”, ammettono.
Il 26 ottobre si avvicina una udienza che è stata comunque rinviata con molti stratagemmi, inclusa la “provvidenziale” chiusura a causa del Covid-19 che poteva servire al Comune a produrre la documentazione necessaria. Ora come ora, se si arriva così all’udienza, il giudice è costretto a emettere la sentenza.
Per dirla con le parole degli attivisti: “Riteniamo, pertanto, che, arrivate le cose a questo punto, l’unica possibilità che resta perché venga finalmente riconosciuta la valenza artistica e sociale dell’opera di Felice Pignataro sia una presa di posizione chiara e unilaterale da parte del Sindaco, che dichiari la sua precisa volontà di rivendicare il possesso dell’edificio da parte del Comune, dando a noi del Gridas la possibilità di presentarci all’udienza avendo in mano un atto amministrativo inequivocabile che ponga fine a questo processo”.
Il Gridas è stato dichiarato “Bene Comune” con una delibera comunale dell’8 febbraio 2018, ma questo non serve a tutelarlo.
Quello che possiamo fare in attesa del processo del 26 ottobre è provare a ricostituire un fronte di mobilitazione ampio e trasversale, con l’unico obiettivo di sostenere il più antico centro sociale d’Italia al quale tutte e tutti dobbiamo praticamente l’esistenza stessa come gruppi e come movimento culturale, pedagogico, politico, artistico, che con la forza di una utopia ha rivoluzionato lo spazio pubblico, il concetto di periferia e la vita di centinaia persone, altrimenti destinate a una vita vissuta sempre ai margini.
Il Gridas ci ha insegnato a non aspettarci mai che qualcosa venga calato dall’alto, bisogna sempre rimboccarsi le maniche certi della giustizia e della forza di un ideale e della sua bellezza.
Con Mirella e con il Gridas vogliamo continuare ad avere fiducia nelle persone e nella loro capacità di risvegliare le coscienze, proprie e altrui, dal sonno della ragione, è il motivo per cui raccontiamo questa vicenda che fa rabbia ma che non è ancora conclusa definitivamente.