A Napoli, bambini e scienza
Tornando a Città della scienza dopo decenni di assenza si può ricevere più di una conferma. La prima è che è sicuramente una fortuna avere ancora un posto così a Napoli. Sorprende trovare tanta gente, finalmente file e liste d’attesa lunghissime per qualcosa che non sia una pizza o un panino. Entusiasmo e un mix apparentemente ben equilibrato tra professionisti e tirocinanti, tutti accoglienti e preparati.
È evidente che Città della scienza per rinascere ha fatto scelte importanti, prima di tutto puntare sulla comunicazione e collocarsi nei trend propri della modernità. E per farlo è chiaro che ha dovuto affidarsi all’unica scienza che potesse davvero aiutarla: il marketing e in particolare il marketing per l’infanzia. Direzione ben visibile nelle due attrazioni Planetario e Corporea, meno nell’Officina dei piccoli, baluardo di un’idea di divulgazione scientifica basata su altri presupposti. Quegli stessi oggi ancora prevalenti nei libri di testo per futuri maestri e nelle indicazioni accademico-governative rivolte alla scuola, basati sulla convinzione secondo cui non c’è conoscenza senza esperienza. L’esperienza della “materia corpo” in contatto diretto con altra materia, dove per insegnare non è tanto importante dare spiegazioni, quanto alimentare curiosità e capacità autonoma di ragionamento scientifico. Poco importa se si usa una calamita, un elastico o un cristallo, ciò che conta è la ricerca, nutrita dall’interesse che l’interazione con la natura di quell’oggetto è stata in grado di mettere in moto. È la base della pedagogia attiva, di maestri come Freinet, Don Milani, Montessori, Steiner, fondatori di scuole dove oggi purtroppo vanno per lo più i ricchi, ma che a suo tempo nacquero per i poveri e per chi aveva bisogni “speciali”. Furono proprio questi studenti difficili a permettere di scoprire che l’apprendimento funziona partendo dall’interesse e dalla curiosità dell’alunno, più che dal volergli ficcare in testa le proprie verità. Stili pedagogici supportati dagli studi psicologici sulle interazioni tra psiche e corpo, sull’attivazione del potenziale di guarigione interno come unica vera possibilità di cura (Rogers e Reich ne furono i precursori). Lowen, l’iniziatore della bioenergetica, ha portato avanti analisi e cure approfondite su uno dei principali mali della modernità, il narcisismo. Più che consistere nell’innamoramento per se stessi, il narcisismo per Lowen e altri autori sta piuttosto nell’impossibilità ad accedere al proprio sé, a sentimenti e sensazioni autentiche, perché imprigionati nell’immagine illusoria che ci si è costruiti di sé (prezioso in proposito è il testo di Alice Miller Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé). Per farlo ricorriamo a una sorta di anestetizzazione, attraverso un bombardamento di stimoli esterni con cui mettiamo a tacere quelli interni. Lowen fa l’esempio della musica a tutto volume di una discoteca, che specie se unita ad altri stimoli è capace di far andare completamente fuori di sé. Chiunque frequenta bambini sa quanto la chiassosa animazione moderna o le giostre di palline colorate siano basate sullo stesso principio di stordimento da iper-stimolazione esterna. L’effetto è una sorta di ubriacatura (anche quella contro cui ci mette in guardia l’Oms con i nessi tra “ore schermo” e iperattività o insonnia dei bambini).
La pedagogia attiva si basa invece sul radicare l’apprendimento nelle emozioni e sulla valorizzazione del sé autentico, sempre. Dentro e fuori scuola, contrariamente a quanto raccomandato da accademia e politiche ufficiali di cui sopra, stiamo invece assistendo a una veloce avanzata di altri stili, tanto preziosi anche per la tecnologia robotica di cui oggi cominciamo a vedere l’avvento, fautori di una visione più meccanicistica dell’uomo. Scrittori come Paolo Volponi o Philip K. Dick (ad esempio in Vulcano 3) continuano ancora oggi a suggestionarci con la loro lettura di queste tendenze. Ebbene dopo una giornata a Corporea l’impressione è proprio che queste tendenze abbiano ormai preso il sopravvento, che sia prevalsa la versione “incorporea” della conoscenza e della stessa esistenza. Opposte visioni forse sintetizzabili confrontando uno dei pannelli della mostra, dove si afferma che l’uomo si differenzia dagli altri animali per la capacità di comunicare, con il pensiero di Giordano Bruno secondo cui è l’uso delle mani la vera peculiarità umana. Un’infinita quantità di schermi, pulsanti, informazioni e stimoli, degni della più sfrenata movida, al cui ritmo si muovono centinaia di consumatori ubriachi di tecnologica: questo ci è sembrata Corporea. Certamente qualche spazio residuale è stato lasciato anche all’interazione tra corpo/materia, ma nei tre piani di esposizione a farla da padrona sono schermi e immagini. Con un’idea di fondo: l’uomo è una macchina ben montata. Il sensazionale e lo spettacolo prendono il posto di sensazioni, emozioni, dello sporcarsi, del correre il minimo rischio. Consacrazione dell’idea che l’esperienza di realtà virtuale (in verità ce n’è ben poca in questa mostra) possa sostituirsi a quella della realtà reale. Nel museo come a scuola. Dopo essere stati frullati per qualche ora in un marchingegno così, ci sorge il dubbio che a passare per davvero sia un sotto-messaggio, un potente incitamento al consumo di video giochi e affini: stare davanti a uno schermo è molto bello.
Per fortuna capita di riprendersi qualche metro più in là, tra le mura dell’Officina dei piccoli, catturati dalle facce di un bambino che trascorre tempo lento davanti a uno specchio convesso per vedere l’effetto che fa. E continuare a osservarlo nel mondo di fuori, nelle vetrate, sul pavimento, sul terreno dove le scoperte avviate all’interno hanno un seguito. Sarebbe bello se quel bambino potesse proseguire la sua interazione con la sabbia, il mare e le meraviglie della natura che ci sono anche fuori dalla Città della scienza. Peccato che con questa natura sia ancora vietato interagire perché inquinata, occupata da privati o sotto sequestro.