A fumetti le origini della “comunità” cinese di Milano
Oltre ai sospetti sibillini sulle origini delle carni dei menù dei loro ristoranti, “comunità chiusa che non si mescola con quella italiana” è il luogo comune sui cinesi che si sente più spesso pronunciato in giro riguardo alla prima minoranza orientale nel nostro paese. È sempre sorprendente constatare come un popolo come il nostro, frutto in sostanza di migrazioni interne ed esterne, che avrebbero dovuto sfociare in una comunità aperta al diverso, sensibile alle sofferenze altrui come simili alle proprie e tollerante verso gli stranieri, sia diventata così gretta e superficiale. Tanto è improprio parlare di “comunità” per gli italiani (dov’è la difesa per l’interesse comune in questo deserto di individualismo e conformismo?), quanto lo è per quei centinaia di migliaia di cittadini cinesi o di origine cinese che vivono oggi nel nostro paese e che non si riconoscono in una “comunità cinese”. La loro storia recente nel nostro paese, e soprattutto quella dei pionieri tra queste due culture (senza andare indietro a Marco Polo e Matteo Ricci), è oggi oggetto di studio da parte di una nuova leva di sinologi e riscuote l’interesse dei figli e dei nipoti meticci di quella generazione. Primavere e autunni di Ciaj Rocchi e Matteo Demonte (Beccogiallo 2015) è proprio la biografia in forma di fumetto della vicenda umana di uno dei primi cinesi emigrati in Italia all’inizio degli anni Trenta, in piena epoca fascista. La biografia di Wu Li Shan, documento di identità numero 86 dei cinesi residenti in Italia, è ricostruita dal nipote Demonte e da Rocchi attraverso un vero e proprio album di fotografie famigliari, digitalizzate quasi a ricalcarle (come la tecnica di animazione rotoscopica) per ricostruire il contesto d’epoca, raccontando i cambiamenti nei decenni soprattutto di Milano. Nel libro la piccola storia imprenditoriale di quest’uomo, partito come venditore ambulante di cravatte e diventato proprietario di un laboratorio di pelletteria insieme alla moglie, Giulia anche lei immigrata ma dal cremonese, si mescola alla grande Storia sia dell’Europa che della lontana Cina, attraverso foto d’epoca e manifesti, segni grafici e design per raccontare le trasformazioni del quotidiano. Corredata dai saggi di Ciaj Rocchi stessa, di Angelo Ou e Daniele Brigadoi Cologna, Primavere e Autunni è un’opera unica e fondamentale per iniziare a conoscere la storia della migrazione cinese nel nostro paese.
Etnia non comunità
Nel 1985 i cinesi censiti in Italia sono millecinquecento, nel 2005 centomila, oggi quasi trecento mila. La storia di mio nonno, che abbiamo raccontato in Primavere e autunni e che si interrompe con la mia nascita – nel 1973 – è quella di una immigrazione con dei numeri irrisori, quattrocento trenta negli anni Quaranta del secolo scorso. Dal 1980 in avanti, con le politiche di riforma e di apertura di Deng Xiao Ping si sono realizzati i primi ricongiungimenti famigliari e le donne cinesi hanno potuto iniziare a emigrare. In soli cinque anni è duplicato il numero dei cinesi in Italia.
Quella di Primavere e autunni è una storia sociale ed economica delle origini, innanzitutto di un gruppo di pionieri imprenditoriali. Quei primi pionieri, perché di una piccola colonia si può parlare, hanno sia tessuto le prime reti interne, che i primi rapporti con le istituzioni italiane. Il frutto di quel lavoro è che oggi non esiste un’altra etnia immigrata che ha una camera di commercio specifica, a cui sono iscritte imprese italiane che lavorano in Cina e imprese cinesi che lavorano in Italia. Se facciamo un confronto con altre etnie, come quella egiziana (che a livello produttivo almeno al nord è molto inserita), non riusciamo a ricostruire una storia migratoria e relazionale con le istituzioni così antica. Gli storici usano un termine specifico, etnic minority, per definire una minoranza etnica. Quella cinese è senza dubbio tra le più antiche e facoltose d’Italia. E’ un errore parlare di comunità oggi. Il concetto di comunità si può applicare solo ai cinesi delle origini e di un periodo storico ben definito; quando erano pochi, coesi e uniti. Condividevano la componente dialettale e biografie simili: questi primi cinesi emigrati si erano sposati con donne italiane e i loro figli avevano tutti studiato nella scuola italiana. Erano inseriti nella nicchia della produzione: alcuni erano grossisti, altri artigiani. Oggi una comunità monolitica non esiste neanche a Milano. Esistono molte associazioni che aiutano a livello materiale i nuovi arrivati, anche attraverso prestiti; il sistema di relazione e di reciproco aiuto in cinese si chiama guanxi.
L’Italcina
La cosa curiosa è che fino al 1969 la Repubblica italiana ha rapporti internazionali solo con la Repubblica nazionalista di Taiwan, infatti nessuno stato occidentale, fino al 1970-71, ha rapporti con la Cina comunista. Qual è, allora, il motivo di questo rapporto così antico? L’Italia, partecipando alla Guerra dell’oppio – dal 1839 al 1842 e dal 1856 al 1860 – aveva ottenuto delle concessioni commerciali che permisero ai primi cinesi di arrivare in Italia già all’inizio del Novecento. È un periodo in cui tutte le potenze occidentali vogliono un pezzo di Cina: gli inglesi, ad esempio, occupano l’isola di Hong Kong. Tra il 1930 e 1933 Gian Galeazzo Ciano è console del Regno d’Italia a Shangai e questo ha favorito la politica di visti per i primi cinesi di spirito imprenditoriale che volevano provare a esportare alcune conoscenze in Europa. Inoltre, non dobbiamo dimenticare la figura del generale Chang Kai Shek, leader del partito nazionalista, che si opponeva a Mao ed era un fan di Mussolini. I rapporti tra i due paesi sono buoni fino al 1937, dopodiché, con l’invasione giapponese della Cina, la situazione cambia drasticamente: l’Italia era alleata del Giappone per cui i cittadini cinesi sul suolo italiano vengono improvvisamente considerati sudditi di un paese nemico. Ma i rapporti tra Italia e Cina hanno origini ben più antiche e non nascono di certo sotto il fascismo: spesso dimentichiamo che i padri missionari del Pime erano andati in Cina già alla fine dell’Ottocento. Il nonno di Matteo, del resto, ha imparato l’italiano proprio dai preti missionari italiani che l’hanno catechizzato. E già negli anni Trenta, nella parrocchia del quartiere di Porta Volta dove era andato a vivere, i preti erano cinesi. Dal punto di vista dell’integrazione sociale la storia di Wu è una storia chiave del rapporto tra questi due paesi.
Periodo arcaico
Primavere e autunni è uno dei classici della letteratura cinese, generalmente attribuito a Confucio. Si tratta di un’opera annalistica e storiografica che racconta, cronologicamente, gli eventi del piccolo Regno di Lu, dove viveva Confucio. Ma “Primavere e autunni” è anche un periodo della storiografia cinese che precede la dinastia di Qin Shi Huang Di, l’imperatore giallo, che riuscì a unificare tutti i vari stati della regione in guerra tra loro. Questo periodo, così chiamato, è quello in cui nascono tutte le scuole filosofiche che sono alla base del pensiero cinese: il taoismo, il moismo, la scuola legista e il confucianesimo. Si tratta di un periodo molto arcaico e fecondo. Dando questo titolo al nostro fumetto, abbiamo fatto un paragone con il primissimo periodo dell’immigrazione cinese in Italia, cercando anche noi un taglio storiografico che potesse, partendo dal particolare, raccontare la storia di un’epoca. Questi primi cinesi sono arrivati in un momento in cui l’Italia era ancora un regno; in piena propaganda fascista, il Paese stava cambiando il suo volto e il mondo che si offriva ai loro occhi a mandorla era totalmente diverso da quello da cui provenivano. Eppure, hanno saputo sfruttare gli eventi a loro vantaggio. Già dagli anni ’40 sappiamo che i cinesi cominciano a differenziare le loro produzioni: dal tessile, con la produzione di cravatte, passarono, sotto la guerra, alla pelletteria con le cinture e i portafogli; nello stesso periodo alcuni di loro si spostano in Romagna, dove la riviera offriva mercati sicuri perché il regime iniziava a sostenere le località di villeggiatura popolari, e poi perché si avvicinavano a Firenze, dove si conciavano le pelli, e al vicino distretto tessile di Prato.
La questione della lingua
Oggi studiosi e ricercatori sinologi utilizzano le fonti orali e sempre più i documenti di questa etnia minoritaria, perché rappresenta un incredibile tesoro, un archivio informale redatto con la scrittura cinese a caratteri non semplificati. Nel libro abbiamo voluto inserire questo cinese, per ricostruire il continuum e per restituire, a livello sonoro, la mistura linguistica in cui sono cresciuti i figli o ha vissuto nonna Giulia. Durante il giorno si parlavano due lingue e due dialetti: tra loro i miei nonni parlavano in dialetto milanese/cremonese, mio nonno con gli amici cinesi parlava in dialetto di Qin Tian (il distretto di provenienza), con i cinesi estranei parlava in mandarino e con tutti gli altri si sforzava di parlare in italiano. Si è trattato davvero di due mondi che si sono incontrati e hanno fatto di tutto per provare a capirsi, sicuramente c’era una grossa confusione (!). Si trattava di due dimensioni così lontane e di due modi diversi di scrivere, due realtà diametralmente opposte. Va ricordato infatti, che la lingua cinese è l’unica al mondo con caratteristiche logografiche, non c’entra niente con i sistemi alfabetici. Per esempio i giapponesi, nella modernità, si sono costruiti due sistemi alfabetici con cui hanno interfacciato la lingua anglosassone. La lingua cinese è un sistema espressivo complesso nel quale le parole, negli ultimi 5000 anni, hanno mantenuto il loro potere evocativo: significato e significante si sorreggono. Quando noi scriviamo “cane”, ad esempio, nella parola, che è convenzionale, non c’è nulla che rimandi all’immagine dell’animale. Mentre quando scriviamo “montagna” in cinese, dobbiamo tracciare dei segni che evocano l’immagine dei versanti di una montagna. Più facile a dirsi che a farsi. Per questo la più grande difficoltà, entrando in contatto col mondo cinese, è soprattutto linguistica. Per gli occidentali è una fatica enorme imparare questa lingua. Invece per i cinesi è relativamente facile imparare i nostri idiomi. Ad esempio oggi ci sono migliaia di ragazzi cinesi laureati in lingua italiana all’università di Pechino che sono perfettamente bilingue: leggono Dante, possono sostenere intere conversazioni e soprattutto lavorano come interpreti tra imprese italiane e cinesi.
Cinesi della diaspora e cinesi d’oltremare
L’immigrazione cinese in Italia è molto mutata nel corso degli anni. In principio era composta esclusivamente da maschi, spesso mercanti e uomini d’affari, questo fino alla fine degli anni Sessanta. Oggi li chiameremmo “emigranti economici”, persone che si spostano alla ricerca di nuove possibilità di lavoro, con la speranza di migliorare la propria condizione. In cerca di fortuna detto con parole povere. Non è un caso che solo in tempi recenti, questi primi emigranti siano stati riabilitati anche in Cina. In passato sono stati considerati quasi dei traditori, tant’è vero che tutta la corrispondenza veniva censurata e buona parte degli archivi delle lettere e dei documenti sono andati distrutti. Per questa primissima generazione di cinesi in Italia, fino alla fine della guerra civile cinese nel 1949, la possibilità di tornare in Oriente era totalmente preclusa. Non dimentichiamo che non avevano vissuto l’esperienza del partito comunista al potere, erano figli proprio di un’altra epoca. Quando nel 1966 è iniziata la rivoluzione culturale – forse l’esperimento più raffinato di ingegneria sociale del Novecento – questi cinesi ancora inneggiavano Sun Yat Sen, il primo presidente repubblicano. Infatti, nel 1911 era crollato il celeste impero della dinastia Qin ed era stata proclamata la Repubblica, si era passati, in un sol colpo, dal feudalesimo alla modernità. Il primo presidente Sun Yat Sen è già un cinese della diaspora: nato a Macao, cresciuto alle Hawaii, ha studiato ad Hong Kong. Il modello evolutivo con cui sono cresciuti mio nonno e i suoi amici era già di un “cinese d’oltremare”. Mio nonno, nato nel 1908, è figlio di quella fase storica oggi quasi dimenticata. Quando nel 1971 avviene la svolta, quando alla Repubblica popolare cinese viene riconosciuto un seggio alle Nazioni Unite, a quel punto i cinesi immigrati, anche di vecchia data, fanno una scelta patriottica stracciando il passaporto di Taiwan e prendendo la cittadinanza cinese, della Cina comunista. Questo passaggio ha aperto un canale privilegiato per i diritti di cittadinanza e soprattutto per le rimesse economiche. Per fare un esempio, quando uno dei miei zii andò in Cina nel 1996, lo portarono a visitare un museo dell’immigrazione: ci sono delle specie di altari dedicati a questi magnati che con le loro rimesse hanno costruito ponti, ospedali, scuole… Le loro imprese migratorie hanno rappresentato un valore economico inestimabile per le comunità di provenienza. Una delle realtà più vive della “comunità” cinese di oggi in Italia è AssoCina, realtà di cinesi di terza-quarta generazione che sono stati educati in Italia e poi sono tornati in Cina per imparare la lingua; sono perfettamente bifronti, l’immagine dell’immigrazione cinese oggi che ha alle spalle un secolo di storia. Anche nella lingua cinese, estremamente precisa, vi sono due terminologie diverse per indicare i migranti di vecchia data, come mio nonno, e quelli che vengono dagli anni ottanta in poi: un termine traduce hua qiao i “cinesi d’oltremare”, mentre quelli successivi sono considerati xin yi min “nuovi migranti”. Inoltre il carattere qiao contiene il fonogramma di “ponte”, come se i primi migranti abbiamo gettato le basi per creare dei legami duraturi tra i due paese, dei ponti intercontinentali.
Foto d’epoca
Inizialmente volevamo fare un film d’animazione, le tecniche digitali sarebbero servite a quello. I modelli erano Valzer con Bashir e Persepolis con le loro animazioni semplici a due dimensioni. Non è detto che ora che abbiamo fatto il fumetto non torneremo a lavorarci. La storia di Wu è personale, intima, quotidiana; non è la biografia di un grande personaggio e per far sì che arrivasse a un pubblico più vasto, abbiamo lavorato molto sul contesto, storico e linguistico, in cui più persone potevano riconoscersi. Perciò, attraverso una ricerca fotografica d’archivio molto rigorosa, abbiamo cercato di rendere protagonista la città con le sue trasformazioni, gli ambienti, gli abiti. Abbiamo provato a capire come la grande Storia abbia influenzato le vicende dei piccoli individui. La storia di Wu è quella di un uomo colto, uno che negli anni Trenta sapeva leggere e scrivere, cosa rara non solo tra i cinesi. E quindi faceva da mediatore e interlocutore per tutta la corrispondenza tra Milano e la Cina, faceva da traduttore e scribacchino per amici e compaesani. Non è un caso che questo uomo così cosmopolita si sia chiuso, nell’ultima parte della sua vita, in una dimensione più famigliare, come fosse tornato nel suo paese di origine a giocare a carte con i vecchi amici parlando solo in dialetto. Ma protagonisti di questa storia non sono solo questi cinesi che ce l’hanno fatta. Le vere pioniere di questo rapporto culturale furono le donne, le mogli, che mandavano avanti i laboratori, si occupavano di questi uomini totalmente estranei al loro contesto, erano regine della casa e le uniche ad occuparsi dei loro figli. Furono loro le vere artefici dell’integrazione: a casa, in parrocchia, a scuola.
Involtini primavera e autunno
Il cibo è molto presente nel nostro racconto perché è stato veicolo di conoscenza reciproca, in famiglia e tra italiani e cinesi. I primi ristoranti etnici ad aprire nel nostro Paese furono proprio cinesi, il primo gusto “strano” che abbiamo conosciuto ed interiorizzato veniva proprio dalla terra di mio nonno! E a dimostrazione di quanto queste storie di migranti siano transnazionali, c’è un aneddoto sul primo ristorante cinese che ha aperto in Italia, nel 1962, proprio a Milano. Si chiamava “La Pagoda” e aprì, dietro la stazione Centrale, proprio per opera di due amici di mio nonno, Jiang Fui Ming e Hu Bung Kou. La posizione era strategica: anche in altre città europee, per esempio a Londra e Parigi, i primi ristoranti avevano aperto vicino alle stazioni. I cinesi avevano intuito che questa ristorazione esotica attirava viaggiatori e turisti, già predisposti al cibo internazionalizzato. Da lì al boom dei ristoranti però ci vorrà ancora qualche anno.
Sociologia a fumetti
Primavere e autunni è un fumetto anomalo. Se da una parte è stata la vicenda biografica della famiglia di Matteo la fonte principale da cui abbiamo attinto, dall’altra questo fumetto è stato ispirato da un testo di ricerca sociologica pubblicato nel lontano 1997 da Patrizia Farina, Daniele Brigadoi Cologna, Lorenzo Breveglieri e Arturo Lanzani. Si chiamava Cina a Milano e per noi è stato fondamentale; proprio per questo Primavere e autunni è un’opera sperimentale, che spinge il fumetto al confine con la sociologia visuale. Non più solo una graphic novel, ma un graphic essay. E non è un caso che sia stata proprio Becco Giallo, una casa editrice che da 10 anni pubblica fumetti d’impegno civile, ad accogliere la nostra proposta. Nel loro catalogo avevano già trattato i temi dell’immigrazione, ma Primavere e autunni offriva un punto di vista inedito, interno, e faceva un bel po’ di passi indietro nella storia, riempiendo un vuoto di conoscenze, documentando e contestualizzando un secolo di immigrazione cinese in Italia.