STIAMO NORMALIZZANDO UN GENOCIDIO?
Angelo Stefanini è un medico. Ha lavorato per anni con ONG in Africa. Ha insegnato alle università di Leeds (UK), Makerere (Uganda) e infine Bologna, dove ha fondato il Centro di Salute Internazionale (CSI). Nella Palestina occupata è stato direttore dell’OMS (2002) e del programma sanitario italiano (2008-2011). Dal 2015, come volontario di PCRF (Palestinian Children’s Relief Fund), compie missioni periodiche nella Striscia di Gaza dove collabora al rafforzamento del sistema sanitario locale.
Sconcertato e incredulo di fronte agli eventi a Gaza e in Israele, non posso non tornare con la mente al mio primo impatto con la realtà israelo-palestinese, oltre vent’anni fa.
Quando quel mattino del gennaio 2002 ricevevo la telefonata da Ginevra con la proposta a partecipare al bando per il posto di Coordinatore dell’Ufficio OMS nei territori palestinesi occupati (TPO), chi mi parlava era un mio ex-studente di un corso internazionale tenuto dieci anni prima all’Istituto Superiore di Sanità, a Roma. Allora desk-officer OMS per i TPO, il mio interlocutore non poteva immaginare che in quel momento, per la prima volta, indossavo proprio la stessa sgargiante cravatta rossa (non ricordo il motivo visto che non amo le cravatte) che mi aveva donato alla cena di chiusura del corso. Accettai entusiasta (con in mente le parole di Albert Einstein “La coincidenza è il modo di Dio di rimanere anonimo”) e, vinto il bando, alla fine di marzo mi insediai a Gerusalemme.
Di “occupied Palestinian territories” (oPt), ossia Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, allora sapevo ben poco e immagino che la scelta di ricoprire quella posizione nell’OMS fosse ricaduta su di me grazie ad una serie di missioni esplorative condotte per conto dell’ufficio regionale EMRO (East Mediterranean Regional Office) in paesi di quella regione. Praticamente a digiuno del contesto geo-politico che mi aspettava l’impatto fu per me devastante.
Arrivavo a Gerusalemme nei primi giorni dell’invasione militare israeliana della Cisgiordania, l’Operazione scudo difensivo, la più grande operazione militare dopo la guerra dei sei giorni del 1967. Dal 3 al 17 aprile, gli israeliani presero d’assalto il campo profughi di Jenin abitato da circa quattordicimila rifugiati uccidendo più di 50 palestinesi e rendendone 13.000 senzatetto. L’intento era di catturare o uccidere i responsabili di attentati suicidi che avevano portato a più di settanta vittime civili israeliane nelle settimane precedenti. L’attacco venne condotto con una violenza eccezionale e, secondo l’organizzazione Human Rights Watch (HRW), commettendo gravi violazioni del diritto umanitario internazionale equivalenti a crimini di guerra. Furono invase le maggiori città della Cisgiordania, con periodi anche di diversi giorni di coprifuoco totale.
Come descritto dal rapporto di HRW, l’IDF (Israeli Defence Force) bloccò il passaggio di veicoli e personale medico di emergenza per undici giorni, lasciando i feriti e i civili nel campo, così come i malati, senza alcun accesso alle cure mediche urgenti. Il funzionamento delle ambulanze e degli ospedali nella città di Jenin fu severamente limitato e le ambulanze ripetutamente attaccate. L’IDF impedì alle organizzazioni umanitarie, compreso il Comitato internazionale della Croce Rossa e la stessa OMS, di accedere al campo e ai suoi abitanti civili. Questo blocco continuò per diversi giorni anche dopo che la maggior parte dei palestinesi armati si era arresa.
Da allora ad oggi, la mia conoscenza diretta della realtà israelo-palestinese è venuta negli anni progressivamente migliorando sia durante il periodo trascorso come funzionario dell’OMS, sia nei quasi quattro anni con la Cooperazione Italiana (ora AICS Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo). Anche in seguito, rientrato in Italia, ho continuato a mantenere uno stretto legame sia personale sia professionale e accademico con dirigenti di organizzazioni internazionali, colleghi, politici, accademici e semplici cittadini palestinesi e israeliani in Cisgiordania, Gerusalemme Est e soprattutto nella Striscia di Gaza.
Questa visione privilegiata di quel mondo in un arco di vent’anni mi stimola a interrogarmi su cosa sia cambiato e cosa NON è cambiato con il mutare del clima politico interno ed internazionale; se esistano differenze o similitudini nella condotta e nelle strategie dei principali attori di quello scenario; se soprattutto esista una direzione che gli eventi stanno seguendo e un esito finale a cui stanno conducendo. Sono domande che mi pongo non come scienziato politico o esperto di relazioni internazionali ma come, diciamo, un semplice “osservatore partecipante”.
Rileggendo la corrispondenza che allora tenevo con familiari e amici, alcuni tratti di quanto osservavo stanno riproponendosi in un modello di condotta da parte israeliana che continua a ripetersi.
Scrivevo nell’aprile del 2002 ai miei familiari:
Come avrete visto e sentito, in questi giorni sta avendo luogo un intervento militare da parte di Israele nei territori palestinesi particolarmente violento e in molti suoi aspetti assolutamente ingiustificato e ingiustificabile: mi riferisco alle violenze sia fisiche che psicologiche a cui viene sottoposta in modo indiscriminato la popolazione civile palestinese. Questo atteggiamento da parte dell’esercito israeliano appare chiaramente di tipo intimidatorio, vendicativo e con lo scopo evidente di chiarire una volta per tutte chi comanda e chi deve obbedire … La ragione addotta di combattere il terrorismo appare spesso ridicola, appunto per i mezzi utilizzati, per l’intensità sproporzionata e per l’ovvio intento di ritorsione. […] Quello che ho potuto vedere con i miei occhi e mi ha profondamente turbato é stata la distruzione gratuita, da parte dei carri armati che scorrazzavano per le vie della città, di beni e infrastrutture che faccio fatica a vedere associati con il terrorismo (giardini, monumenti, marciapiedi, aiuole, fontane, fogne, cabine e pali della luce). Le strade deserte, oltre ad essere piene di detriti e resti delle case distrutte, sono ormai colme di rifiuti, gettati dalla gente chiusa in casa che consuma quel poco che ha a disposizione, ormai maleodoranti e circondati da nugoli di mosche.
[…] È come operatore sanitario che mi sento indignato e non soltanto come cittadino del mondo. La comunità umana si è data delle regole anche per, paradossalmente, fare le guerre. L’assistenza ai feriti, la libera circolazione delle ambulanze e dei soccorsi umanitari sono diritti umani basilari sanciti da convenzioni internazionali. È ridicolo nascondersi dietro la scusa della lotta al terrorismo per giustificare questo stato di cose. Per controllare che una ambulanza non contenga armi o terroristi è sufficiente perquisirla accuratamente; non é giustificabile impedirle di portare aiuto ai feriti, o addirittura arrestare il personale sanitario. Gli eventi di questi giorni dimostrano un totale disprezzo nei confronti della protezione dei civili e una arrogante noncuranza delle leggi internazionali e della sicurezza del personale umanitario.
Come vent’anni fa (e come in tutte le guerre) la verità è sempre la prima vittima. Colpito dall’alto numero di amici a cui scrivevo che si mostravano stupiti di quanto raccontavo loro, riportavo nella mia risposta uno studio della Glasgow University Media Group che, riferendosi alla Gran Bretagna, mostrava come la mancanza di comprensione da parte del pubblico del conflitto israelo-palestinese e delle sue origini sia in buona parte da attribuire ai media, in particolare alla televisione. Agli spettatori, affermava lo studio, viene raramente detto che i palestinesi sono vittime di un’occupazione militare illegale. Il termine “territori occupati” è quasi mai spiegato. Addirittura, soltanto il 9% dei giovani intervistati sanno che gli israeliani sono gli invasori e che gli “insediamenti” sono vere e proprie colonie illegali di israeliani in territorio palestinese che non appartiene loro. Evidentemente l’uso selettivo delle parole è determinante. Lo studio mostrava come le parole “assassinio”, “atrocità”, “linciaggio” e “omicidio selvaggio e a sangue freddo” vengono usati soltanto per descrivere i morti israeliani. “Il grado di prospettiva israeliana assunto dal giornalismo”, affermava il prof. Greg Philo, “risulta chiaro se le affermazioni vengono ‘invertite’ e presentate come azioni palestinesi: ad esempio, non abbiamo trovato nessuna notizia che affermi che ‘Gli attacchi palestinesi sono stati compiuti in rappresaglia per l’assassinio di persone che oppongono resistenza alla illegale occupazione israeliana’”.
Le notizie e i servizi televisivi – scrivevo agli ignari amici – raramente tendono a ricordare allo spettatore che Israele si è insediato con la forza sul 78% della Palestina storica e, fin dal 1967, ha occupato illegalmente e imposto varie forme di regime militare sul rimanente 22%. I ruoli dell’oppressore e della vittima sono regolarmente invertiti: gli israeliani non sono mai chiamati “terroristi”, pena l’accusa di antisemitismo al giornalista che si azzardi a compiere un tale errore. Tra i termini più recenti utilizzati dai media troviamo “incursione”, che poi significa “aggredire esseri umani con carri armati, aerei ed elicotteri da guerra”, e “ciclo di violenza” che suggerisce nel migliore dei casi due contendenti uguali e posti sullo stesso piano, e non che uno dei due tenta di opporsi con la violenza ad una violenta oppressione.
Io stesso, qualche anno più tardi, come responsabile dei programmi sanitari finanziati dal governo italiano, mi vedevo regolarmente rimuovere la parola “occupati” dai miei rapporti al Ministero degli Esteri sull’andamento delle attività nei “territori palestinesi”. Meglio ancora se usavo l’espressione “territori dell’autonomia palestinese”. Vane le mie rimostranze per ricordare al Console che oPt, acronimo di “occupied Palestinian territories”, è la locuzione ufficiale usata dalle Nazioni Unite.
Se, da poco “paracadutato” nei fatti cruenti della Cisgiordania, ero rimasto sconvolto dalla brutalità e arroganza di Israele nei confronti delle regole d’ingaggio imposte dalle convenzioni internazionali in caso di guerra, quello che sta succedendo oggi a Gaza e in Israele, unito alla contemporanea crescente violenza dei coloni in Cisgiordania, non regge assolutamente al confronto. La differenza in termini quantitativi e qualitativi è talmente abissale che contare i morti, i feriti, i sepolti sotto le macerie, gli sfollati senza casa sta diventando un macabro esercizio statistico senza un reale valore né morale né mediatico. Dal punto di vista politico già l’allora segretario alla Difesa USA Donald Rumsfeld, nei primi giorni della guerra in Afghanistan nel marzo 2002, in contemporanea con l’invasione israeliana, affermava alla CBS News “We don’t do body counts” (Noi non contiamo i morti). Il modo di contare (o di non contare) i morti, di pesarne il valore e usarli come arma dialettica contro l’avversario rimane una costante nella lotta per ottenere il favore della vasta opinione pubblica e giustificare gravi crimini. Israele è diventato un esperto del settore. Nella cosiddetta “guerra al terrorismo”, guerra in cui non esiste una vera simmetria delle parti (uno stato e un movimento di lotta), quella più forte in termini militari e politici ha gioco facile.
L’ignoranza è anche oggi una delle più potenti armi contro i palestinesi e Gaza in particolare. È l’ignoranza che sta facilitando e addirittura incoraggia questa barbarie. Ignoranza della storia di un’occupazione durata 75 anni, ignoranza dell’ingiustizia quotidiana e della persecuzione e apartheid affrontati dai palestinesi, ignoranza dell’omicidio arbitrario e della detenzione di uomini, donne e bambini palestinesi, tutti aspetti che hanno poca o nessuna copertura nei media occidentali. Ignoranza storica che facilita la riscrittura della storia, il razzismo che celebra la brutalità e la violenza contro persone ritenute inferiori e l’odio che favorisce il massacro di un intero popolo con relativa facilità. Ignoranza che permette ai governi e ai media occidentali di inventare storie di stupri di massa e decapitazioni di bambini, di ospedali bombardati dai propri pazienti, certi che verranno ingurgitati dal loro pubblico ingenuo. E così i palestinesi sono l’incarnazione del male mentre i loro occupanti e carcerieri israeliani, che li hanno oppressi per decenni, sono vittime innocenti di un odio inspiegabile e irrazionale.
Deve pur essere così perché ce lo dicono i nostri leader dei governi occidentali, bastioni della democrazia, della libertà e dell’umanità, e ce lo ripetono obbedientemente i loro alleati mediatici con una complicità coerente e criminale. L’effetto di questa macchina di propaganda (Hasbara in ebraico) è innegabile: non a caso Israele ne ha fatto un ministero. Mentre osserviamo la barbarie scatenata su Gaza, il fatto che questa venga acclamata da così tante persone in tutto l’Occidente è un inquietante promemoria di quanto il pubblico occidentale sia inconsciamente indottrinato. Propaganda, distorsioni e omissioni hanno fatto il loro lavoro: i palestinesi non sono persone, ma animali. E di conseguenza meritano di morire. Dopo anni di sforzi, finalmente è stata raggiunta la normalizzazione del genocidio.
La comparsa della parola “genocidio”, appunto, e la sua progressiva normalizzazione è senza dubbio la novità più clamorosa nel discorso israelo-palestinese. Se da quasi vent’anni era soltanto un professore israeliano bandito dal suo paese, Ilan Pappè, che cercava di convincere il mondo del “genocidio incrementale” in corso a Gaza, ora sta davanti ai nostri occhi stupefatti. Il 15 ottobre più di 800 esperti di diritto internazionale, di studi sull’olocausto e sul genocidio hanno firmato una dichiarazione pubblica in cui mettono in guardia sulla possibilità che le forze israeliane commettano un genocidio contro i palestinesi nella Striscia di Gaza.
Tutto questo è molto significativo perché, come sottolinea Raz Segal, esperto israeliano di genocidio moderno, viene meno “il discorso sull’Olocausto, il modo in cui Israele per decenni ha utilizzato l’Olocausto per negare, distorcere, giustificare e razionalizzare la violenza di massa israeliana contro i palestinesi e creare uno stato di impunità per Israele in tutto il mondo.” Segal definisce l’assalto israeliano a Gaza un caso da manuale di “intento di commettere un genocidio” e la razionalizzazione della sua violenza un “uso vergognoso” delle lezioni dell’Olocausto.
Secondo il diritto internazionale, il crimine di genocidio è definito “dall’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale.” Nel suo attacco omicida a Gaza, Israele ha annunciato a gran voce questo obiettivo, confermato senza mezzi termini dal ministro della difesa israeliano Yoav Gallant il 9 ottobre: “Stiamo imponendo un assedio completo a Gaza. Niente elettricità, niente cibo, niente acqua, niente carburante. Tutto è chiuso. Stiamo combattendo animali umani e agiremo di conseguenza”. I leader occidentali hanno rafforzato questa retorica razzista descrivendo, quello che indubbiamente è un crimine di guerra di Hamas ai sensi del diritto internazionale, come “un atto di puro male” (Presidente Joe Biden) e una mossa che riflette un “male antico” (Ursula von der Leyen). “Questo linguaggio disumanizzante è chiaramente calcolato per giustificare la distruzione su vasta scala di vite palestinesi; l’affermazione del ‘male’, nel suo assolutismo, rimuove le distinzioni tra militanti di Hamas e civili di Gaza e oscura il contesto più ampio di colonizzazione e occupazione”, commenta Raz Segal.
Dei cinque atti che rientrano nella definizione di genocidio delle Nazioni Unite, Israele a Gaza sta perpetrando le prime tre (a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale) attraverso i bombardamenti che nei primi sei giorni hanno visto oltre 6.000 bombe devastare Gaza, una delle aree più densamente popolate del mondo: più di quelle sganciate in un mese dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti nella lotta contro l’Isis.
Human Rights Watch ha confermato che tra le armi utilizzate figurano bombe al fosforo bianco, arma che brucia nell’aria e niente può fermarla, che dà fuoco a corpi e edifici, creando fiamme che non si spengono a contatto con l’acqua. Ciò dimostra chiaramente cosa intende Gallant con “agire di conseguenza”: non prendere di mira singoli militanti di Hamas, come sostiene Israele, ma scatenare una violenza mortale contro i palestinesi a Gaza “in quanto tali”, nel linguaggio della Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite.
Israele ha anche intensificato il suo assedio di Gaza in corso da 16 anni – il più lungo della storia moderna, in chiara violazione del diritto umanitario internazionale – fino a renderlo un “assedio completo”, secondo le parole di Gallant. Questo significa portare il blocco alla sua meta finale di annichilimento sistematico dei palestinesi e della società palestinese a Gaza, uccidendoli, facendoli morire di fame, tagliando le loro forniture d’acqua, cibo e carburante (vitale per i generatori elettrici) e bombardando i loro ospedali. Nel frattempo, gli appelli al genocidio, a “cancellare” e “rasare al suolo” Gaza, sono diventati onnipresenti sui social media israeliani. A Tel Aviv, appeso a un ponte è stato visto uno striscione con la scritta “Zero Gazans”.
“C’è il grave pericolo che ciò a cui stiamo assistendo possa essere una ripetizione della Nakba del 1948 [“catastrofe”, termine utilizzato per gli eventi del 1947-1949, quando oltre 750.000 palestinesi furono sottoposti a pulizia etnica nella Palestina storica e costretti nei campi profughi per creare lo Stato di Israele] e della Naksa del 1967 [“battuta d’arresto”, espressione usata per descrivere la sconfitta nella Guerra dei Sei Giorni del 1967], anche se su scala più ampia”, ha affermato Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi occupati dal 1967. Israele utilizza da tempo la guerra per giustificare la pulizia etnica dei palestinesi. I funzionari governativi hanno apertamente chiesto un’altra Nakba e ciò che sta accadendo ora a Gaza (compreso l’ordine, illegittimo secondo il diritto internazionale, alla popolazione del nord della Striscia di spostarsi in massa verso il sud) è un tentativo di costringere i residenti civili a rifugiarsi e a migrare in Egitto, incoraggiato dalle promesse di Washington di condonare gran parte dell’enorme debito egiziano. È già pronto nientemeno un “Piano per il reinsediamento e la riabilitazione definitiva in Egitto dell’intera popolazione di Gaza”, “piano sostenibile ed economicamente fattibile, che ben si allinea con gli interessi economici e geopolitici dello Stato di Israele, dell’Egitto, degli Usa e dell’Arabia Saudita”. I profughi, una volta attraversato il confine con l’Egitto, verranno ovviamente lasciati a marcire nel Sinai.
Si stanno creando le condizioni progettate per provocare la distruzione del gruppo e bisogna essere trasparenti riguardo all’intento dichiarato che vediamo sempre più palesemente. “Dobbiamo essere chiari, afferma ancora Raz Segal, sul fatto che la violenza israeliana contro i palestinesi è una questione sistemica strutturale sin dalla creazione dello Stato israeliano,” parte integrante del progetto di colonialismo di insediamento che mira, ha sempre mirato, alla eliminazione in tutti i modi della popolazione nativa. “Il sionismo, infatti, è considerato come una forma di colonialismo di insediamento che mira ad impossessarsi della terra e a sbarazzarsi della popolazione indigena” rispondendo ad una “logica di eliminazione”.
Tutto questo mi conduce a una conclusione paradossale. Se è vero che la comparsa e la normalizzazione del termine “genocidio” nel discorso Israele-Palestina è un fenomeno nuovo rispetto al momento del mio primo arrivo nella Palestina occupata, è altrettanto vero che è almeno dal 1948 che il progetto coloniale sionista sta realizzandosi. È quindi dall’arrivo del sionismo nella Palestina storica che opera la “natura coloniale della violenza” che ridimensiona “la falsa simmetria tra ebrei israeliani e palestinesi, considerati come parti con ruoli uguali all’interno di un conflitto, invece che nella dicotomia coloni/nativi tipica delle società nate dall’insediamento coloniale”.
Scrivevo ad amici in Italia il 27 luglio 2002:
Il massacro di Gaza ha suscitato il vespaio che chiunque, compreso Sharon, poteva immaginare. Chi sosteneva la tesi che le bombe suicide palestinesi hanno una diversa rilevanza morale rispetto alla violenza dell’esercito israeliano (in quanto le prime colpiscono i civili mentre la seconda provoca “soltanto danni collaterali”), ora si trova costretto a meditare. Il governo israeliano, come avrete sentito o letto, si é giustificato dicendo che non aveva previsto che si verificassero morti civili. Chi vedesse l’area della città di Gaza in cui si è verificato il fatto si renderebbe conto della ridicolezza di tale affermazione. Quello che è successo è che, allo scopo di uccidere un attivista palestinese membro di Hamas, per quanto considerato pericoloso, è stato utilizzato un aereo da caccia F16 che ha sganciato una bomba di una tonnellata su un appartamento in un quartiere residenziale densamente popolato alla periferia della città di Gaza. La maggior parte delle vittime, tutte civili, si trovava nei palazzi adiacenti, tra cui uno di tre piani. L’attacco ha avuto luogo appena prima di mezzanotte quando tutti erano a letto a dormire. 15 palestinesi, tra cui più della metà bambini, sono stati uccisi, oltre 140 feriti. Come possono affermare le autorità israeliane che non si aspettavano vittime civili?
Questa storia si sta ripetendo almeno dall’inizio della seconda Intifada nel settembre 2000: da allora palestinesi e israeliani, da entrambe le parti sono stati uccisi, la stragrande maggioranza civili disarmati. Sostenere che i primi sono morti “per sbaglio” mentre i secondi sono stati deliberatamente assassinati, ponendo così le due parti su due posizioni morali diverse, va contro sia il senso comune sia le prove a disposizione. Tutte le organizzazioni indipendenti per i diritti umani che hanno esaminato il comportamento di Israele (come Amnesty International, Human Rights Watch, B’Selem-Israele) hanno documentato un sistematico e deliberato uso della violenza contro civili palestinesi disarmati da parte dell’esercito israeliano.
Scrive il giornalista americano Chris Hedges nel suo “Diario da Gaza” pubblicato nell’ottobre 2001 sulla rivista Harper’s: “Ieri gli israeliani hanno colpito otto giovani di cui sei con meno di 18 anni. Uno ne aveva 12. Oggi pomeriggio ne hanno ammazzato uno di 11 anni, Ali Murad, e feriti seriamente altri quattro. Molti bambini sono stati uccisi nelle situazioni di guerra in cui ho lavorato – dalle squadre della morte in El Salvador e nel Guatemala, dai fondamentalisti in Algeria e dai cecchini Serbi – ma non avevo mai visto finora dei soldati attirare dei bambini in trappola come topi e poi ammazzarli, così per sport.
Allora, 20 anni fa, al mio arrivo nella Palestina occupata, come oggi che leggo inorridito quei pochi messaggi whatsapp che amici gazawi riescono a inviarmi, l’uccisione di persone innocenti da entrambe le parti è già abbastanza esasperante. Tuttavia, se tali atti sono seguiti da un’alzata di spalle collettiva e dal tetro eufemismo secondo cui le vittime rappresentano semplicemente “danni collaterali”, disumanizzandole e banalizzando le sofferenze inflitte alle loro famiglie, allora si aggiunge al danno la beffa. In Israele, l’uso del termine “danno collaterale” è diventato una sorta di giustificazione, addirittura un modo per incolpare coloro che sono stati uccisi dall’IDF semplicemente perché si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato, scagionando così i veri responsabili.
Guardandomi alle spalle nel tempo e cercando di dare una risposta agli interrogativi che mi ero posto, la vera novità che constato essere presente oggi di fronte a quanto sta succedendo a Gaza è, da una parte, la totale, acritica complicità attiva del blocco occidentale a quello che ormai si sta rivelando come reale genocidio, dall’altra, la nostra mancanza di consapevolezza dell’abisso morale in cui siamo sprofondati. Nelle parole di un’amica palestinese: “È la morte dell’umanità e della morale.”