Il mio ragazzo è in prigione: poesie dal Sudafrica
Nata a Cape Town nel 1969, Gabeba Baderoon insegna Women’s Studies alla Pennsylvania State University ed è Fellow all’università di Stellenbosch in Sudafrica.
Ha pubblicato il volume Regarding Muslims: from Slavery to Post-apartheid sulla rappresentazione dell’ Islam nei media, nella letteratura e nell’arte, e le raccolte di poesia, The Dream in the Next Body (2005 Daimler Chrysler Award), The Museum of Ordinary Life (2005), A Hundred Silences (2006). Una scelta di sue poesie è apparsa in traduzione italiana nell’antologia Isole galleggianti. Poesia femminile sudafricana 1948-2008 (a cura di Paola Splendore e Jane Wilkinson, Le Lettere 2011). Le poesie che seguono sono tratte dalla raccolta più recente The History of Intimacy (Kwela Books 2018). Ringraziamo l’autrice per aver permesso la pubblicazione di queste poesie.
Poesia per principianti
Al corso serale di poesia per principianti
una che non si leva mai la pesante
[giacca scurafa un profondo respiro
e azzarda frettolosamente
Il mio ragazzo è in prigione
io sono qui per capire
come scrivergli oltre le sbarre
e qualcuno ride
e lei si stringe nella giacca
e da lì ci guarda senza vederci
e la settimana dopo
non ritorna
e io per anni penso a lei
e a quello che fa la poesia
penso che da qui vengo
dove la poesia è azzardo, è tradimento
e il ricordo della prima domanda
come non essere soli
Distanza focale
Tiro fuori le foto in bianco e nero
che ho portato con me in questo paese
e che non guardo da anni
le sistemo una accanto all’altra
sul tavolo della sala da pranzo.
In una, mia madre giovane, in piedi
accanto alla finestra, all’orecchio il telefono
con il suo filo nero a spirale,
la tenda tirata da un lato,
si volta a guardare l’obiettivo.
Le ho tirate fuori dalla velina
con le pieghe ancora intatte da quando
le aveva incartate per il lungo viaggio.
Nella sfocatura di carta sbiadita le sto
in braccio, poggiata a lei come per gravità.
Lei mi guarda, come mio padre
che scatta la foto.
Il mio viso è nitido e il suo è un po’ mosso
come se lui spostasse lo sguardo tra noi due,
come se l’obiettivo non riuscisse a cogliere
l’oscillazione dell’occhio tra due persone
ugualmente amate.
C’è un’altra fotografia tre volte ripiegata,
prima una volta e poi un’altra per entrare
[in tasca,la pelle così vicina da scaldare la carta,
poi di nuovo spianata per la cornice di legno.
In questa mi giro da un lato verso l’obiettivo
– qualcuno deve avermi chiamato –
e ho una piega proprio sotto gli occhi.
Piegato, nascosto, dimenticato,
il ricordo non mi arriva disteso.
La piega della tenda a cui lei poggia,
la carta con la sua prima piega,
io che mi volto verso chi mi ha chiamato.
The Flats
Nel quartiere le gru gialle si fermano a mezzo giro
e la gabbia dell’impalcatura risuona cupa
[nel vento.Sotto il Civic Centre una colonna di silenzio
e di ombra taglia in due la strada.
Trent’anni fa mio padre, l’elmetto bianco in testa,
sulla piattaforma di un edificio che aveva
[aiutato a far salirefino al cielo, le spalle contro la lastra di vetro
[impenetrabile,fissava un punto che io non potevo vedere.
Il quartiere fu dichiarato bianco
nell’anno in cui lui e mia madre si sposarono
e furono costretti a trasferirsi
in un posto che da qui non si vede.
Io sono nata ai Flats
con le strade sabbiose e i muri umidi
figlia dell’inverno, figlia della perdita.
Ogni giorno la strada per andare al lavoro
li portava davanti alla vecchia casa e a tutto
ciò che avevano perduto, e non guardarono
più in quella direzione.
Nata nel nuovo posto, ero la figlia fantasma
un dolore che cresceva
sempre più.
In giornate come queste, gli perdono
quello che riuscivano e quello che
non riuscivano a guardare.
Perdono il loro lento amore
per il nuovo quartiere,
per me.
Fecero della distanza il loro dramma quotidiano
ma alla fine fu casa.
Il quartiere, senza più loro,
ammutolisce ogni giorno.
Storia dell’intimità
I
Te ne ricordi perché è una ferita.
Un colpo, venti colpi, si chiamano così
le sferzate sul palmo delle mani,
sulle nocche, sulle natiche,
gradazioni diverse di dolore
inflitte per i nostri errori,
a noi che non dovevamo esistere.
II
Fai la bianca, nuh?
Urla Mike nel 1987 sopra la testa
degli studenti a Jameson Steps
e il silenzio improvviso mostra
che non siamo più in uniforme nel cortile
di Livingstone High, a prenderci in giro, hey
perché mi hai guardato come se
non ci fossi? Questo nasconderci a noi stessi
lo chiamavamo fare il bianco,
ma dirlo ad alta voce mostra
che abbiamo imparato
a prendere atto della nostra esistenza.
III
Nel negozio dei video dopo che ho ordinato
[un film,mia cugina mi dà una gomitata, perché ti copri?
Coprire. Verbo transitivo. Coprire cosa?
Coprire la pelle, indossare qualcosa
non il niente.
IV
Dopo l’abolizione della discriminazione urbana
mia madre muore dalla voglia di tornare
alla strada da cui era stata cacciata
e siamo noi, ormai affezionati
alla ferita che chiamiamo casa, a dire No,
non vogliamo vivere in un quartiere di bianchi,
siamo noi questa volta a rinunciare.
V
Madre, come faccio a scrivere di te?
Da studentessa di medicina al turno di notte
imparò ad avere un sonno così leggero
[che riusciva a svegliarsiin un attimo se c’era un’emergenza,
[e per tutta la vitail suo corpo non fu più capace
di dormire per una notte intera.
Raccontava che una sera, per qualche motivo
un po’ arrabbiata con mio padre,
aveva lasciato la tavola, se n’era andata
in camera da sola e aveva trovato
mia sorella livida che non riusciva a respirare.
Ricorda ancora quello che la rabbia
[le aveva regalato,aveva salvato la vita a mia sorella. Rabbia.
[Respiro.Fin dall’inizio tu sei stata respiro,
e poesia.
Mi raccontavi degli studenti neri mandati
via durante l’autopsia dei corpi bianchi,
e quando ho scritto su questo, hai detto,
È la mia storia, non la tua.
E adesso, Madre, con la malattia di cui
[hai taciutoper anni, di nuovo trasformo le tue parole
e il tuo silenzio in poesia?
VI
Nel 1988 alla stazione di Crawford, io
[e mio fratello troviamouna tavola azzurra dipinta a mano
[a lettere gialle:Solo non-bianchi su un lato
Solo bianchi dall’altro,
gettata via oltre il recinto accanto alle rotaie.
Nel raccoglierla, vediamo i due lati
del cartello schiena contro schiena,
ogni lato poggia sul suo contrario,
intimi e opposti
tra loro sconosciuti.
Era un pezzo di storia, lo sapevamo
qualcuno l’aveva fatto a mano, poi nascosto
e cercato di dimenticare. Lo portiamo a casa
e ogni tanto lo troviamo in un angolo
mentre cerchiamo qualcos’altro.
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