Occupazioni e sgomberi a Bologna
Il 20 ottobre 2015 è stato per Bologna un giorno importante, con il quale la città dovrà fare i conti in futuro per capire esattamente cosa sia successo, quali fenomeni siano venuti alla luce e quali contraddizioni e fratture siano finalmente emerse.
Il giorno è stato quello dello sgombero del cosiddetto “Ex-Telecom”, un grande edificio nel quale aveva sede la nota compagnia telefonica: migliaia di metri quadrati di uffici, mense, bar e refettori, perfino un grande auditorium, vuoto da almeno 10 anni e di proprietà di un fondo d’investimento tedesco. Siamo nel quartiere Bolognina, uno degli storici quartieri industriali (e operai) della città che dalla fine degli anni Ottanta sta vivendo una profonda trasformazione sociale e urbanistica dovuta alla chiusura delle fabbriche cittadine e alla scomparsa dalla città degli operai. Quartiere storicamente popolare dove si intreccia una forte e antica migrazione cinese a un’altrettanta importante, ma molto più recente migrazione prevalentemente africana (maghreb e aree sub-sahariane). La zona dell’Ex-Telecom si trova proprio nel cuore delle più grandi operazioni di “riqualificazione urbana” della città: lo stabile in questione si situa a poche centinaia di metri dalla nuova stazione dell’alta velocità e di fronte alla nuova sede del Comune di Bologna, con le sue tre nuove torri scintillanti che svettano sullo skyline della città. Certo una riqualificazione che, a causa della crisi economica fatica molto a decollare: la zona è puntellata da cantieri fermi e semi abbandonati, edifici industriali fatiscenti e da grandi aree una volta industriali e ora semplicemente abbandonate.
Lo sgombero, dicevamo. Quel giorno alle 8 del mattino il tratto di via Fioravanti su cui affacciano gli uffici comunali offre uno spettacolo inquietante: più di 200 agenti tra polizia e carabinieri con decine di furgoni blindati circondano l’edificio, bloccando un’ampia area del quartiere mentre centinaia di donne, bambini e ragazzi alle finestre percuotuono pentolame e infissi, il cui frastuono, amplificato dal grande anfiteatro creato dalla sede comunale proprio lì di fronte, rimbomba sinistro per tutto il rione. È stato senza dubbio il più massiccio e brutale sgombero che la città ricordi: nel corso di diverse lunghissime ore la polizia trascina fuori dallo stabile donne, bambini, neonati e ragazzi con le loro povere cose stipate dentro carrelli della spesa, valigie e zaini della scuola. Mentre sul tetto gli uomini (assieme ai giovani militanti del collettivo e a diversi adolescenti) continuano a battere contro le ringhiere di ferro, come a dare un ritmo lugubre all’intera giornata. Alle operazioni partecipano anche alcuni mezzi dei vigili del fuoco che con le gru e le lunghe scale fanno venire alla mente un assalto in stile medievale all’edificio. Nel frattempo centinaia di persone danno vita a un presidio in strada, assistendo impotenti al triste spettacolo. Un’operazione imponente e smisurata, tristemente spettacolare, una prova di forza della questura di Bologna dopo lo sgombero dello storico centro sociale Atlantide (che dal 1999 si trovava a Porta Santo Stefano e, dopo anni di convenzione e regolare affitto con il Comune stava trattando per una nuova sede) eseguito su richiesta del Comune stesso il 9 ottobre e lo sgombero di una palazzina occupata da alcuni singoli e famiglie. Sgombero avvenuto il 15 ottobre ed eseguito, pare, senza nemmeno informare il Comune nonostante ci stessero vivendo dei minori.
Per capire questa escalation è importante tenere presenti alcuni processi che hanno interessato la città negli ultimi anni. Fin dal 2010 in città il movimento di occupazioni di edifici pubblici a scopi abitativi ha ripreso vigore, complice la crisi che dopo i primi anni cominciava a colpire duramente soprattutto le fasce più deboli della popolazione. Con la disoccupazione, per le famiglie senza reti di sostegno e protezione arrivarono ben presto gli sfratti e la perdita della casa. I numeri sono in drammatico aumento: se nel 2008 gli sfratti per morosità erano a Bologna 108, già l’anno successivo erano saliti a 680 fino a superare i 1.500 del 2015. Gli strumenti a disposizione degli enti locali sono, come al solito, pochi, poco efficaci e il welfare cittadino si trovava del tutto impreparato ad affrontare questa emergenza: l’accesso alle case popolari è sempre più difficile (con 6.500 aventi diritto in lista d’attesa e circa 4/500 assegnazioni ogni anno). Gli operatori dei servizi sociali si trovano con le armi spuntate: contributi economici una tantum o brevi periodi di tirocinio formativo di certo non sono più sufficienti e, in caso di sfratto, si interviene solo per tutelare i minori, con soluzioni spesso temporanee ed economicamente insostenibili (come gli alberghi). Il fondo “anti sfratti” e il relativo protocollo firmato a Bologna da Comune, Provincia, Regione e parti sociali ha pochi fondi a disposizione e riesce a intervenire solo su una piccola percentuale di situazioni. E, di fronte a numeri come quelli che abbiamo visto le decine di appartamenti che l’amministrazione è riuscita a reperire per l’emergenza abitativa nel corso degli ultimi anni non riescono a dare risposta a tutte le situazioni.
«Fino a qualche anno fa riuscivamo a intervenire in situazioni come queste con risultati spesso positivi, l’assegnazione dell’alloggio Acer era possibile per la gran parte delle persone sotto sfratto. Poi con la progressiva diminuzione di fondi e strumenti al sociale e l’aumento vertiginoso del problema casa siamo rimasti quasi impotenti. Le situazioni a cui riusciamo a dare una risposta positiva sono poche», racconta una delle assistenti sociali del Comune che lavora con alcuni nuclei familiari che abitavano all’Ex-Telecom.
Come detto dal 2010 le occupazioni abitative riprendono vigore e, dopo anni in cui non riuscivano a superare i 2 mesi di vita, tra il 2013 e la fine del 2014se ne contano diverse in città, soprattutto in periferia. Ad animarle collettivi provenienti dal mondo antagonista: uno legato a un sindacato di base (Usb), un collettivo vicino all’area storica dell’autonomia cittadina (Social Log) e un altro legato all’area disobbediente dei centri sociali bolognesi (TPO-Labas). Fin dall’inizio le occupazioni coinvolgono sia i singoli che famiglie che hanno perso la casa e si sono rivolti agli sportelli per il diritto all’abitare gestiti dai vari collettivi. Mentre alcune occupazioni sono animate prevalentemente famiglie straniere e italiane, altre sono caratterizzate dal coinvolgimento di rifugiati e richiedenti asilo arrivati in città e transitati attraverso il sistema di accoglienza cittadina.
Una escalation, quella delle occupazioni abitative, passata per lo più in sordina, interrottamomentaneamente solo da qualche sgombero eseguito ai danni di collettivi universitari. Tutto questo in un clima di lasseiz-faire e ambiguità istituzionale: infatti, mentre pubblicamente condannava le appropriazioni indebite degli stabili il Comune, era pienamente consapevole che quelle pratiche intercettassero una necessità reale e diffusa della popolazione bolognese e, in quest’ottica, informalmente ha sempre mantenuto rapporti con i rappresentanti delle realtà occupate. È di questi giorni la notizia che a causa di questi legami e per via del riallaccio all’acqua di uno degli edifici (l’articolo 5 della legge Lupi nega di poter prendere la residenza e di allacciare utenze agli stabili occupati) sindaco e assessore al Welfare (che ha sempre mantenuto vivo un dialogo con le occupazioni) sono ufficialmente indagati per abuso d’ufficio dalla magistratura bolognese così come alcuni consiglieri comunali sono stati denunciati dagli stessi procuratori per aver criticato queste indagini.
Quello che succede nel dicembre 2014 con la nascita di questa nuova occupazione appare fin da subito un’accelerazione di questa situazione. Nell’enorme edificio dell’Ex-Telecom entrano ad abitare quasi 300 persone, con una presenza di minori molto consistente: circa 70 tra bambini e adolescenti (le cui famiglie sono ora nel mirino della procura dei minori). Piuttosto inusuale è anche l’alto numero delle nazionalità presenti: infatti vi alloggiavano famiglie sudamericane, cinesi, nord-africane, dell’Africa sub-sahariana e alcune famiglie italiane. Fin da subito l’occupazione desta grande curiosità tra la cittadinanza e una certa irritazione nella politica locale, che osserva letteralmente dalla finestra dei propri uffici comunali la vita che si organizza nello stabile occupato esattamente dal lato opposto della strada. Le prime reazioni ufficiali da parte del comune non si fanno attendere delegittimando pubblicamente l’occupazione, con l’accusa al collettivo di strumentalizzare le famiglie in situazione di fragilità.
L’occupazione fin da subito si caratterizza, oltre che per le importanti dimensioni, anche per le modalità organizzative. Il grande edificio ha un ampio cortile interno su cui si affacciano tutti gli ambienti, un grande auditorium e un refettorio spazioso. I locali in cui le persone vivono sono degli ex uffici suddivisi da muri di cartongesso i quali permettono di essere modificati a seconda della grandezza e delle necessità del nucleo familiare. Si sviluppa fin da subito una forte socialità legata sia alla cooperazione nei lavori di adattamento dello stabile che all’utilizzo e alla condivisione degli enormi spazi comuni. Quest’esperienza ha fatto sì che in poco tempo gran parte dei partecipanti all’occupazione si sentisse parte di un processo sociale e politico condiviso e ancora oggi parlando con loro si percepisce un senso di identità e solidarietà molto forte.
Una delle prime iniziative è stata quella di allestire una ludoteca al piano terra e il grande cortile fin da subito si è animato da feste aperte al quartiere: dalla festa della befana, organizzata i giorni successivi all’occupazione, ai lavori di sistemazione del giardino fino ai mercati di Campi Aperti (associazione di contadini biologici molto attivi nel territorio) lo spazio ha ripreso vita, aprendosi alla città e avendo spesso una funzione “pubblica”, cioè di tutti. Ma è quello che succede oltre agli eventi pubblici che più ha colpito chi lo abbia frequentato: in tutte le ore del giorno grandi gruppi di bambini di età e origini molto diverse si trovano a organizzarsi in autonomia ore di attività, giochi ed esperienze. Anche gli adulti si trovano spesso all’aperto per chiacchierare, fare manutenzione degli spazi, organizzare le attività dei bambini e i turni alla portineria.
«Questa occupazione» ci racconta una delle militanti del collettivo «si è caratterizzata molto più di altre per il forte senso di comunità che si è formato. Questo grande spazio comune ha permesso di rompere quel senso di isolamento che c’è nelle altre occupazioni, in edifici formati da tanti appartamenti in ognuno dei quali vive una famiglia che fatica così a entrare in contatto con le altre. Qua la gente è uscita dalla dimensione di vergogna che spesso prova chi vive in solitudine processi di impoverimento e ha attivato pratiche di autogestione e auto aiuto». Dalla gestione comune degli spazi, agli impegni nei picchetti per impedire gli sfratti, all’organizzazione dei materiali per le manifestazioni cittadine, agli aiuti nella gestione delle vicende quotidiane (la gestione dei figli, la sistemazione degli alloggi, ecc.) gli aspetti di auto organizzazione e auto gestione danno piano piano vita a un interessantissimo esperimento sociale, prima ancora che politico. Esperimento che prosegue per 10 mesi durante i quali si apre un dialogo attivo con la città, creando reti di collaborazione e solidarietà con associazioni e gruppi che cominciano a vedere quel posto come a un luogo di libertà e sperimentazione di pratiche sociali ed educative come non si vedeva da anni in città.
Uno degli aspetti che più colpisce chi, come noi, è entrato all’Ex-Telecom con l’idea di organizzare attività con bambini e ragazzi nel grande cortile e per le strade del quartiere, è il senso di “emancipazione” e “liberazione” che le famiglie sembrano vivere nei confronti del welfare pubblico con il quale si sono rapportati durante gli anni precedenti. La scelta di occupare coinvolgendo anche la propria famiglia deriva sia dalla impossibilità di scelta, sia dalla consapevolezza che ormai i servizi sociali hanno ben poco da offrire e, spesso, vengono vissuti dalle famiglie come presenze intrusive e ricattatorie più che come un sostegno e un’opportunità.
Il giorno dello sgombero gli occupanti sono rientrati nei circuiti assistenziali ufficiali e legali. Questo passaggio era chiaramente rappresentato anche fisicamente da una curiosa triangolazione: durante le lunghe operazioni di sgombero le persone uscivano a gruppetti (di solito le mamme con i figli e le poche cose che riuscivano a portare con sé), attraversavano il cordone di polizia, si infilavano tra i furgoni della polizia (schierati a mo’ di barriera davanti all’edificio), oltrepassavano tra gli applausi di solidarietà il presidio e attraversavano la strada fino al parchetto davanti alla sede del Comune. Là venivano accolti dagli operatori del Comune che si sono adoperati tutta la giornata fino a notte fonda per trovare una sistemazione per tutti. I colloqui e le “prese in carico” avvenivano negli uffici del comune che affacciano proprio sull’Ex-Telecom. In questo modo gli ex occupanti si trovavano a pochi metri in linea d’aria dagli ultimi resistenti sul tetto: dalle pareti trasparenti degli uffici potevano assistere agli ultimi atti dello sgombero, allo schieramento di forze in strada e al presidio di solidarietà sotto di loro.
A partire da quella stessa notte tutti gli adulti senza minori a carico sono stati trasferiti in un dormitorio comunale che hanno però dovuto lasciare a inizio dicembre per i meccanismi di turn over che regolano i dormitori e sono tornati a farsi ospitare da un’altra occupazione del collettivo. Le famiglie con minori non residenti nel territorio bolognese sono state alloggiate in diversi alberghi cittadini dove ancora la quasi totalità di queste vive in attesa di una proposta dal Comune di ultima residenza. Una ventina di famiglie con minori sono state trasferite direttamente in un residence vuoto da tempo e di proprietà pubblica (dell’INAIL), il “Galaxy”.
Il Comune di Bologna era da tempo in trattativa con la proprietà di questo edificio prima dello sgombero e all’incirca una settimana prima dell’intervento delle forze dell’ordine era stata aperta la struttura di “transizione abitativa” che, al momento della tragica giornata accoglieva già alcuni nuclei inviati dai Servizi Sociali.
Il Galaxy è stato per anni in gestione a un privato e utilizzato nei primi 3 piani come studentato universitario destinato agli studenti migliori dell’ateneo (Collegio Superiore dell’Università di Bologna) mentre gli ultimi 2 erano camere in affitto. Consiste in una settantina di monolocali che al tempo erano utilizzati come alloggi, ciascuna per due studenti. Dopo che la vecchia gestione è fallita l’edificio è rimasto vuoto per un anno fino al nuovo accordo della proprietà con il Comune di Bologna. Situato nello stesso quartiere dell’occupazione è in realtà un’area residenziale chiusa tra un parco pubblico e un grande centro commerciale. Una zona dove, rispetto alla permeabilità nel tessuto cittadino dell’Ex-Telecom, ci si muove con molta meno facilità a piedi: l’unico posto di ritrovo al di fuori dell’edificio raggiungibile con facilità sono il bar e le varie attività del centro commerciale dove è facile incontrare gruppetti di bambini e ragazzi che giocano e famiglie che passeggiano.
L’idea alla base del progetto “Galaxy” è quella alla base dell’accordo tra Comune e Prefettura, i quali si erano impegnati a reperire edifici vuoti di proprietà pubblica e privata da destinare all’emergenza abitativa. Nonostante lo scandalo di centinaia di alloggi pubblici lasciati vuoti (per non parlare delle migliaia di proprietà privata) le trattative non avevano però avuto esiti fino a che, sulla spinta emergenziale dello sgombero imminente, il Comune è riuscito ad avere, in affitto, la gestione dell’ex residence. Come abbiamo detto il progetto di “transizione abitativa” era partito poco prima dello sgombero e al momento del trasloco delle famiglie provenienti dall’occupazione la situazione gestionale era, come troppo spesso accade nei servizi pubblici ormai iper frammentati, questa: la portineria gestita dall’Azienda dei Servizi alla Persona (ASP Città di Bologna), il servizio di accompagnamento e “inserimento sociale” appaltato a una cooperativa sociale, l’accesso al percorso in capo al Comune di Bologna. Questa segmentazione (riflessa anche sull’inquadramento degli operatori) unita all’ingresso contemporaneo e urgente di un centinaio di persone provenienti dal percorso appena descritto ha creato diversi problemi organizzativi che sono andati a complicare una situazione post-traumatica già di per sé pesante.
Oltre alle inevitabili difficoltà comunicative tra le varie istituzioni coinvolte si è aggiunto fin da subito un forte conflitto con il collettivo promotore dell’occupazione e con le famiglie provenienti dall’Ex-Telecom. Conflitto questo che si è espresso attraverso una forte diffidenza dei nuovi inquilini del residence nei confronti degli operatori che con loro lavorano e da una resistenza da parte degli ex occupanti a rientrare nei circuiti assistenziali. Le rivendicazioni più interessanti erano quelle che i soldi destinati all’accompagnamento sociale, al servizio di portierato e alle pulizie erano sprecati con persone che venivano da mesi di autogestione collettiva di uno stabile. Un ex-occupante, ora residente al Galaxy, ci raccontava che all’interno dell’Ex-Telecom tutte le funzioni che vengono svolte ora a pagamento da personale esterno venivano svolte dagli abitanti, «avevamo una portineria 24 ore su 24, eravamo in grado di ripararci tutto da soli o con l’aiuto di altri occupanti, mentre qui dobbiamo sempre chiedere il permesso in portineria». Nei primi mesi di questa esperienza sicuramente molte pratiche di autogestione che erano state attivate all’interno dell’occupazione sono andate disperse, mentre alcune sembra stiano permeando le attività di questo nuovo tipo di contesto abitativo.
Questa diffidenza è corrisposta anche da parte delle realtà del terzo settore coinvolte. Dopo alcuni tentativi di dialogo andati a vuoto è emersa chiaramente la differenza (e diffidenza) del sociale professionalizzato verso la militanza politica: proseguendo le attività con il collettivo di lotta per la casa e visto il forte sentimento di appartenenza che legava le famiglie alla loro occupazione le prime assemblee di gestione dello stabile di “transizione abitativa” andavano quasi vuote (ci partecipavano solamente quelle famiglie che provenivano da altri percorsi). Questa situazione di “conflitto a bassa intensità” tra le parti si è andata smorzando con il passare del tempo e con l’ingresso nello stabile di altre famiglie provenienti da altri percorsi.
La vicenda dell’Ex-Telecom ha fatto esplodere questioni cruciali per chi si occupa di lavoro sociale ed è certamente troppo presto per cercare di fare dei bilanci. Il ritorno dell’autogestione su scala così ampia è certamente una cartina di tornasole che ci restituisce lo stato di enorme difficoltà in cui si trovano gli enti locali, prima linea del sistema di welfare pubblico sui temi della lotta alla povertà. Vittime di anni di tagli economici e riduzione sistematica del personale, in un quadro normativo in continuo e caotico cambiamento che rende quasi impossibile cercare risposte fantasiose e creative alle sfide maggiori dei nostri tempi (basti pensare alle politiche abitative o a quelle per il lavoro), con i comuni sempre più capaci solamente di gestire l’esistente e poco più. Governati inoltre da una classe politica che sembra ben lontana dalle questioni sociali che hanno un ruolo sempre più ancillare e di contorno, quando invece mai come ora dovrebbero essere la colona portate delle politiche utili per uscire dalla crisi.
Oltre a queste drammatiche condizioni oggettive è emerso che il sistema di welfare locale (dagli enti pubblici al privato sociale) sembra del tutto incapace di capire e cogliere il valore di esperienze dal basso così importanti. Mentre non c’è progetto, iniziativa, documento che non si richiami al rischio di cronicizzazione, alla necessità di emanciparsi da soli, alla responsabilizzazione degli “utenti” nella risoluzione dei propri problemi, sembra una sorpresa quando ciò avviene nell’unica forma in questo momento possibile, cioè collettivamente e attraverso pratiche di presa di parola e di rivendicazione radicali. Il terzo settore è oggi sempre più schiacciato al ruolo di semplice esecutore, cui non viene affidato altro mandato che non quello di eseguire a costo sempre più contenuto politiche di welfare sempre più risicate, burocratizzate e frammentate, prive di innovazione e di presa sulla realtà. Può, il terzo settore ridotto in queste condizioni appoggiare e interagire con movimenti sociali che si mobilitano nella rivendicazione di diritti fondamentali? La vicenda Ex-Telecom ci restituisce al momento un quadro piuttosto impietoso.
Un’altra conseguenza delle crisi del sistema di welfare locale che questa vicenda lascia emergere chiaramente è che gli operatori vengono messi in una posizione nella quale vengono percepiti solo con una funzione di controllo e contenimento del disagio sociale e in questo ruolo sono costretti a mettere in pratica le loro azioni. Inoltre nessuna organizzazione (privata o pubblica) del sociale cittadino si è mai realmente interessata alla questione delle occupazioni abitative. Mentre il giorno dopo lo sgombero tutti dichiaravano il grande valore dell’esperienza dell’Ex-Telecom, nei suoi 10 mesi di vita ben in pochi si sono affacciati per guardare, capire e cercare di collaborare con quella situazione.
Dunque da dove ripartire? Come rimettere insieme il senso del proprio agire per chi lavora nei servizi e sempre più si troverà coinvolto in dinamiche così laceranti? Si può pensare ad un dialogo con i movimenti portatori e sperimentatori di pratiche sociali innovative o dobbiamo continuare a pensare ad operazioni di ordine pubblico come unico incontro formale tra le parti? Sono domande queste che rimangono aperte e sulle quali è utile aprire una riflessione, il più ampia possibile.
Per quello che possiamo qui narrare uno dei tanti segnali che viene da questa vicenda è che sia durante l’occupazione che nelle settimane successive allo sgombero molti operatori sociali si sono attivati e, in forme più o meno organizzate di militanza, hanno interagito con quella esperienza. Nella consapevolezza che i militanti devono sempre più agire nelle pratiche sociali per riuscire a modificare il reale (come stanno facendo gli attori dell’occupazione in questione e di altre) è fondamentale che la dimensione e la riflessione politica debba essere sempre più presente in chi lavora in questo settore che altrimenti, come abbiamo detto, rischia di svolgere un ruolo di mero esecutore e controllore sociale. Ruolo questo che, come logico, invece di rendere autonome le vittime e chi subisce il sistema economico ne riproduce la dipendenza. Ad oggi un simile scambio di azioni e riflessioni sembra essere praticabile solo a livello “base” di militanza e impegno di singoli e gruppi che vogliano darsi il compito di sperimentare non solo “buone pratiche”, ma nuove forme di intervento sociale e politico all’altezza dei tempi.
Intanto l’Ex-Telecom resta vuota e presidiata 24 ore su 24 da sicurezza privata, mentre come racconta una ragazzina vicina di casa della vecchia occupazione, il parco a metà tra il Comune e l’occupazione, prima luogo di incontro di tanti bambini ed adolescenti del quartiere, con lo sgombero avvenuto il 20 ottobre è ora molto più vuoto.