18.000 romanzi all’anno
Un amico mi passa i dati dell’Aie, l’Associazione degli Editori Italiani, sul mercato librario degli ultimi tempi. Sono sconcertanti, e andrebbero meditati da tutti coloro che si occupano di cultura. Nel mercato italiano sono stati editi l’anno scorso 66mila libri, sei volte quelli degli anni ottanta dello scorso secolo. I lettori non crescono, sono sempre più o meno gli stessi, ma è significativo leggere nel rapporto dell’Aie che il 38,6% di “dirigenti, imprenditori e liberi professionisti” dice di non aver letto, nel corso di un anno, neanche un libro, mentre è solo l’11% che dice di leggere almeno un libro al mese. Tra i laureati è il 25% che non legge neanche un libro all’anno! Le case editrici sono ben 4.608, e gettano sul mercato 66mila libri all’anno contro i 13mila del 1980. Di essi ben 18mila sono di narrativa, contro i mille del 1980. In quarant’anni, ha scritto un osservatore, Andrea Coccia, la produzione libraria è aumentata del 600%, ma nella narrativa l’aumento è del 1.800%! Diciamolo: è un vero delirio. Gli editori hanno l’obbligo del fatturato, specialmente i grandi e medi, e non si sentono affatto responsabili della qualità di merce che sfornano, l’importante è che, sia pur per brevissimo tempo, circolino sugli scaffali e sui tavoli delle librerie più titoli possibile, e se poi raggiungono qualche lettore oppure no è un fatto secondario.
ll denaro deve girare, e “la cultura” è un modo per farlo girare. C’è qualche affinità con ciò che avviene col denaro riciclato dalle mafie? Non mi intendo di giri bancari e finanziari e non so dirlo, ma certamente c’è nel mercato librario qualcosa di losco, e certamente non si produce perché si innalzi il livello culturale dei cittadini… Ripeto: è un delirio, sul quale dovrebbero soffermarsi a ragionare tutti coloro che scrivono di libri sui nostri giornali, e ovviamente tutti coloro che si mettono a scrivere libri pensando di fare chissà cosa, di nobilitare la propria esistenza e darle un senso o di mirare al successo che arride a quanti, essi pensano e hanno qualche ragione per pensarlo, non valgono poi molto più di loro… (Se tutti scrivono, è diventata una cosa molto volgare, quella di scrivere, dice un altro amico). Una produzione senza un conseguente consumo è un’assurdità tipica del capitalismo, ma in passato non riguardava la merce libro e oggi invece sì. Bisognerebbe forse, noi che scriviamo di libri e pensiamo che i libri siano una cosa importante, diventare drasticamente selettivi, se non vogliamo diventare schiavi delle assurde logiche di un assurdo mercato.
La selezione, diceva lucidamente il buon Darwin al termine dei suoi viaggi, è stata alla base dell’esistenza delle specie animali e vegetali, dell’uomo. Un secolo dopo Vonnegut pensava agli scrittori e agli aspiranti tali: “Mi fa arrabbiare, forse, il fatto di aver subito una selezione? Sono contento che questo sia avvenuto all’università piuttosto che in battaglione di riserva dietro le prime linee. Avrei potuto essere liquidato come soldato semplice assurdamente alto, morente su una cresta nevosa fuori della tenda, mentre i dottori, dentro, operavano quelli che avevano almeno un cinquanta per cento di probabilità di sopravvivere. Perché sprecare tempo e plasma per uno che se ne sta andando? Io stesso ho praticato la selezione, ai corsi dell’Università dello Iowa, a Harvard, al City College. Un terzo di ogni classe era costituito da cadaveri, per ciò che mi riguardava. E quel che è peggio è che avevo ragione. Selezione: sarebbe un nome più adatto per questo pianeta che non quello di Terra, perché darebbe alle persone che ci sbarcano un’idea più chiara di ciò che le aspetta.” (in “Linea d’ombra”, n. 1, marzo 1983). Se questa sezione della rivista “Gli asini” si chiama “Poco di buono”, è però perché siamo convinti che “qualcosa di buono” c’è ancora, anche tra le migliaia di giovani scriventi o aspiranti tali, e forse, chissà, perfino tra gli allievi delle scuole di scrittura (che sarebbe meglio chiamare di plot e sceneggiature per la tv, di sciocchezze per l’intrattenimento della “tribù dei lettori” in cerca di stanche consolazioni e incapaci di guardare in faccia la brutta realtà del mondo, assistiti in questo da mediatori interessati che di “cultura” campano e non possono scontentare le fonti del loro guadagno, peraltro, salvo che nel settore dirigenziale, piuttosto magro. Ma un’altra delle astuzie del sistema e dei suoi interessati fiancheggiatori è proprio quella di illudere della nobiltà e dignità dello scrivere o filmare o disegnare eccetera, cioè, come essi amano dire, della “creazione letteraria e artistica”.
La ripetitività della produzione – pochi modelli e schemi ripetuti all’infinito – fa tornare alla mente l’invettiva dei surrealisti, per quanto fondamentalmente ingiusta: “cosa può mai esserci di bello in un canto già cantato”? Il problema non è ovviamente il nuovo, ma il profondo e il necessario, al passo con i bisogni di comprensione e di azione della nostra epoca.
Tra le vittime dell’epoca, ne siamo coscienti, ci sono i milioni e milioni di giovani che prendono per buone le bugie di cui il potere ci nutre sin dal latte materno, ma proprio per questo ci pare indispensabile scegliere, imparare a distinguere, noi e con noi i nostri quattro lettori minoranza di minoranze, ciò che ha senso da ciò che non lo ha, ciò che ha senso e che vale da ciò che ne ha solo nella logica assurda di un mercato malato, da ciò che magari luccica, ma per un tempo brevissimo, infinitesimale. E anche da ciò che, opera dei più astuti e più cinici tra i fabbricanti di narrazioni (e di consigli) – e non facciamo nomi per carità di patria e perché “il loro nome è Legione” – pretende distinguersi per la denuncia di situazioni che meriterebbero ben altre, e più coinvolte e più attive, analisi (un esempio per tutti, l’ultimo Saviano). I due nemici da combattere sono, tra gli scriventi, da un lato la stupidità e dall’altro il cinismo.