Stazione Termini
1) Mentre ci si domanda se vogliamo vivere in una società multiculturale o ci si scaglia contro di essa, questa lo è già di fatto. Sono decenni che un continuo flusso migratorio raggiunge e si stabilizza nei paesi europei trasformandone, soprattutto nelle grandi città, la società e rendendola multiculturale. Questo cambiamento che appartiene alla Storia è stato graduale e per lo più impercepito nel mentre che avveniva e riconoscibile da tutti a conti fatti: a partire dalle classi di scuola che cambiavano fisionomia, lingue, religioni, come i quartieri, le strade, i negozi, le fabbriche, i cantieri, le officine, le campagne, le stazioni ferroviarie. Un risveglio dopo l’altro la città era cambiata e questo cambiamento diventava realtà per tutti.
Abbiamo cominciato ad ospitare nelle nostre case rifugiati curdi iracheni, afghani, sudanesi, da oltre dieci anni senza che nessuno si accorgesse che stavano arrivando e quale mondo si portavano dietro. Fa sorridere il candore con cui la signora volontaria e insegnante di italiano per diverse associazioni, intervistata da Repubblica, ora che tutti e finalmente, Papa e parrocchie comprese, parlano di ospitare famiglie di profughi, dice: “Ma io sono dieci anni che li ospito in casa quando vengono sbattuti fuori dai centri di accoglienza”. E racconta di almeno dieci ragazzi afghani che hanno trovato rifugio nella sua casa e piano piano si sono guadagnati una casa, una famiglia, un lavoro. La signora si chiama Misa e vive a Roma e per anni silenziosamente ha ospitato profughi, come oggi li chiamano, vedendo e vivendo quello che era in atto e di cui in pochi si accorgevano.
E così la città cambiava ed è cambiata e continua a cambiare in un continuo divenire. Solo da poco, ora che la migrazione si è storicizzata anche in Italia, sembrava fosse arrivato il tempo di superare il mero discorso dell’accoglienza, del noi e loro, e di cominciare a guardare alle nostre città, al nostro spazio pubblico, ai nostri contesti di convivenza appunto come luoghi comuni e di comune responsabilità, oltrepassando quella retorica interculturale per cui ciò che non è tollerato a un italiano è tollerato a un immigrato in quanto immigrato altrimenti si è razzisti. Ovvero cominciare a pensare un dialogo necessario come dialettica di chiamata alle reciproche responsabilità rispetto al nostro vivere comune e in comune. Sulla strada, nelle scuole, nei parchi, sugli autobus andiamo tutti insieme e non è possibile cercare una città più a misura e più vivibile e più rispettosa senza la partecipazioni di tutti. Non è più possibile provare a costruire socialità senza il coinvolgimento degli altri e in modo sempre unidirezionale da noi verso di loro. Non è possibile pensare e agire in un contesto cambiato senza una presa di coscienza e di responsabilità di tutti il più paritariamente possibile. L’asimmetria della relazione tra chi accoglie e chi arriva si poteva cominciare a superare. Una società multiculturale non è una società ideale di per sé, è una nuova forma di società che andrebbe gestita, indirizzata, educata, dovrebbe avere al suo interno la possibilità di vivere sani conflitti di confronto, e non solo un appiattimento e una rinuncia lì dove certi comportamenti non sono accettabili. Non si capisce perché molto pensiero critico si è rivolto a se stesso e alla società richiamando alle responsabilità individuali dei piccoli gesti di convivenza e di doveri civici e nei confronti degli immigrati si torna ad essere statalisti, assistenzialisti per cui ogni atteggiamento o anche espressione culturale che mette in discussione certi valori, certe conquiste, debbano essere ricondotti solo a un dato culturale o a uno stato inefficiente nemico dell’immigrato e non alla diretta responsabilità della persona o del gruppo perché straniero seppure ormai cittadino. Anche questa è una forma di razzismo o che comunque mantiene la società divisa e fortemente asimmetrica, assistenzializzata nelle coscienze più che nei fatti. Continuerei ad essere amico di un italiano che ha deciso insieme ai membri della propria famiglia di uccidere una sorella che ha tradito il marito? Perché di un afghano sì?
Perché percepiamo su noi stessi il potere manipolatorio della tecnologia, di certi stili di vita e cerchiamo magari per i nostri figli, se non per noi stessi, di costruire degli anticorpi, delle difese, un’altra educazione, mentre con gli immigrati crediamo sia loro diritto conquistarseli, esibirli, dai comportamenti consumistici e aggressivi agli oggetti di consumo?
Anzi su comportamenti e stili di vita, consumo e ambiente, diritti e lavoro, strade, quartieri e parchi pubblici non è vero che la presenza di persone immigrate ha dato un impulso a ulteriori e nuovi miglioramenti, battaglie, lotte. Ma loro malgrado, per colpa nostra e loro, è tutto peggiorato. Eccetto forse le scuole elementari dove veramente, prima tra i bambini e poi anche tra gli adulti, l’incontro ha prodotto veri progressi di civiltà ma che apparentemente non si sono allargati ed espansi alla città.
Ora sembra che di nuovo questi ragionamenti per una sana conflittualità dialogante intorno a doveri civici comuni sia nuovamente da rimandare perché la Storia si è rimessa in cammino potentemente facendo diventare quei flussi di poche migliaia di persone ora di centinaia di migliaia. Quelle persone che prima vedeva solo Misa e pochi altri adesso le vedono persino i politici, non solo quelli “cattivi” ma anche quelli “buoni”. E così di nuovo è tutto così in divenire che la bolla europea è scoppiata sotto la pressione di un mondo in disfacimento che nulla ha a che vedere con i paesi da cui prima arrivavano i migranti e a cui tornavano con la casa ricostruita con i soldi delle rimesse. Tutto è in divenire con una forte accelerazione. La società continua a cambiare diventando sempre più multiculturale e dentro questa agitazione scomposta generale mancano gli strumenti per comprendere e agire, per non rimanere spiazzati e passivi verso una complessità che necessariamente porta con sé anche aspetti degenerativi e nuove sofferenze e marginalizzazioni sociali.
La retorica (di sinistra) contro lo stato di emergenza e l’allarmismo da invasione che mette a confronto le poche migliaia di persone migranti in arrivo con i 500 milioni di cittadini europei non fa i conti con gli anni che passano e come goccia a goccia la migrazione anno dopo anno ha cambiato le nostre città. Non fa i conti con le proporzioni del disfacimento del mondo da una parte e gli studi demografici su una popolazione europea autoctona che non si rigenera dall’altra, e con una popolazione mondiale in fortissima crescita e quindi scenari per il prossimo futuro molto incerti e affatto rassicuranti.
Non è un’invasione perché è una fuga ed è impossibile immaginare uomini, donne e bambini chiusi dietro le recinzioni di nuovi muri europei. Ma qualcosa sta avvenendo con un’accelerazione significativa.
La marcia dei 10000 siriani, a cui seguiranno altre marce, attraverso la Macedonia, la Serbia, l’Ungheria, l’Austria, la Germania è un fatto storico perché una marcia di popolo, di famiglie, piene di coraggio e determinazione per salvare la propria vita e quella dei propri cari, piena di fiducia nei nostri confronti. Un procedere che non può prevedere soste con la speranza di un abbraccio dall’altra parte. E quell’abbraccio è arrivato con la scelta individuale di trecento austriaci che si sono mossi, fuori dagli schemi dell’assistenza e dell’associazionismo, ma con coscienza individuale, in loro soccorso per andarli a prendere lungo la strada. Un gesto che porta con sé mille ambiguità prime tra tutte il pericoloso sentimento del salvatore, ma è comunque stato un gesto spontaneo di solidarietà e di questi tempi meglio questo riflesso che non quello della reporter ungherese che fa lo sgambetto a un uomo anziano con in braccio un bambino mentre scappano dalla polizia per proseguire la marcia. Entrambe immagini di segno opposto ma che testimoniano il cedimento di quella fortezza Europa sotto i colpi di un mondo che dall’altra sponda ha raggiunto un culmine di disfacimento e di cui non si vede la ricostruzione né la pacificazione. E forse, se e quando arriverà, ormai noi avremo cambiato ancora di più volto, volenti o nolenti, pro o contro una nuova società profondamente e dichiaratamente multiculturale con tutti i significati che questo comporta.
Le stazioni ferroviarie delle grandi città sono specchio di questo nel bene e nel male. Roma Termini di cui qui ci parla Bruno è una stazione molto cambiata dove alcuni tratti, già visibili negli anni passati, sono diventati sempre più evidenti soprattutto in quella parte di umanità sbandata e ai margini e solo in parte mascherata dalla stazione-centro- commerciale e dai grandi manifesti pubblicitari o dai parziali restyling di arredo urbano. Per altro bisogna amaramente convenire che molto del controllo sociale o deterrenza nella stazione Termini è fatta indirettamente dal commercio e dalle guardie private a difesa dei negozi. Fuori, sui muretti, negli angoli delle strade, lungo i binari, nei bar, negli hotel, un’umanità composita per lo più sofferente fatta di molti giovani e di molti gruppi di giovani, soprattutto immigrati, fanno da cornice e da sfondo alle 500 mila persone che la attraversano ogni giorno. Luogo di ritrovo per eccellenza, di riparo, di nascondimento e di piccole e grandi economie di sussistenza spesso illegali, di feroce violenza, come anche di vincoli e solidarietà, cooperazione e amicizia spesso legate alla sopravvivenza. Stazione dormitorio e unico luogo accogliente per chi dal resto della città è rigettato. Non c’è niente di romantico in questa multiforme magmaticità umana, è così, è specchio di una città. Anzi di molte città.
Che differenza c’è tra l’arrivare a Milano, a Roma, a Napoli? Ci si rende forse più conto scendendo dal treno di entrare a far parte di un altrove rispetto al luogo da dove veniamo? Percepiamo davanti a noi un popolo diverso, sapori, odori, comportamenti diversi? Le stazioni sono luoghi omologati sia come centri commerciali sia umanamente, lo stesso tipo di umanità ci accoglie subito fuori dalle grandi stazioni. Prima, mi raccontavano amici ben più grandi di me, quando scendevi dal treno sentivi subito di essere da un’altra parte, l’Italia era fatta di tanti popoli. Oggi è più o meno tutto omologato, non solo il popolo italiano è uniforme ma anche la società multiculturale con i suoi pregi e difetti e con il suo carico di umanità sofferente è una forma di omologazione, di piccolo villaggio globale uniformato. Non è né peggio né meglio, non si può cambiare e neppure arrestare, sarà sempre più così, ma in qualche modo bisognerà capire come viverci dentro e che cosa fare. Oggi più che mai è vero che non ci si salva da soli, e dobbiamo imparare a farlo con gli altri senza scorciatoie semplificatorie sia dei buoni che dei cattivi. L’Italia è cambiata irrimediabilmente con il boom economico. Adesso sta cambiando di nuovo con l’immigrazione, tutti insieme, autoctoni e immigrati cambiamo dentro un ambiente sempre più tecnologico e dove la vita umana perde sempre più valore, noi insieme a loro non abbiamo solo piccole sfide quotidiane da combattere ma cose molto più grandi mentre non riusciamo a occuparci insieme neppure del parco sotto casa. Se i problemi piccoli e grandi che scaturiscono da una società muticulturale devieranno la nostra attenzione dai grandi temi che riguardano l’intera umanità, questa sì, sarebbe una conseguenza molto negativa di una società multiculturale tutta concentrata al suo interno e in lotta, e cieca verso altri e più definitivi cambiamenti.
2) “225.000 metri quadrati di estensione, 480.000 frequentatori al giorno, 150 milioni di visitatori l’anno, (…) un’area dedicata allo shopping e al food & beverage di 32.000 metri quadri, 14.000 metri quadrati dedicati alle vetrine. Roma Termini è la prima stazione italiana per grandezza e traffico e tra le principali d’Europa” e “negli anni è diventato un luogo esclusivo, una risorsa fondamentale per la città, con la duplice veste di hub multi-trasporti e piazza cittadina, ricca di servizi e opportunità commerciali”. Così viene presentata la stazione sul sito ufficiale di Roma Termini, qualificato come “un luogo dove vivere”.
Le serate e le mattinate che ho passato a Termini si svolgono nell’estate aperta dal polverone suscitato dell’articolo del New York Times sul degrado romano, proseguita con gli assalti agli autisti dell’Atac e culminata con i funerali dei Casamonica e la messa sotto tutela di Marino, che preludeva alla sua definitiva estromissione di fine ottobre.
Termini è un interessante punto di osservazione perché intorno alla stazione si concentrano, estremizzate, diverse contraddizioni. Ciò che le unifica, però, è l’invito a ignorarle. Perché c’è la compensazione del consumo. Dopo il viaggio stancante, prima della lunga partenza o durante la tratta baloccandosi con il desiderio dell’acquisto, quantunque ci si trovi schiacciati nella ressa. E infatti si sta costruendo un secondo piano di negozi.
Sotto questa patina confortante, intorno e dentro al secondo scalo più grande d’Europa, si affastellano diversi temi non risolti. C’è l’antico problema della mancata legalizzazione delle droghe leggere. C’è il dramma dell’assenza di politiche migratorie di accoglienza. C’è l’esito della devastazione dei servizi pubblici e sociali che ha portato all’esplosione delle disuguaglianze e all’emersione del loro sgradevole aspetto. Ci sono le paghe da fame e l’assenza di diritti. C’è la cattiva gestione e il sottofinanziamento dei trasporti che preludono ad una loro privatizzazione. I problemi che solitamente si affrontano però sono soltanto l’abusivismo e il degrado. Infatti a settembre per debellarli Marino ha inaugurato il “restyling” della stazione. “Non per un Giubileo della Cuccagna bensì della Misericordia” dice. Il che significa che sono stati stanziati quattro milioni di euro per aumentare il numero di poliziotti e rifare il manto stradale. Ma della misericordia non c’è traccia. E, a quanto dice il comunicato delle Ferrovie dello Stato, i lavori in corso per il secondo piano sanciranno la rinascita della stazione. Rinascita che consiste in seimila metri quadri di negozi e parcheggi. Il costo preventivato è di ottantatre milioni. Intanto, come a Milano e Firenze, sono state messe delle recinzioni davanti a tutti i binari per evitare che chi sia privo del biglietto possa salire o avvicinarsi al treno.
La rinascita di Termini non avverrà di certo al di là dalle barriere dietro alle quali si tutelano i titolari dei biglietti di viaggi, né dietro alle nuove vetrine in costruzione, protetti da più poliziotti, o sotto i sorrisi dei ventisei cartelloni Armani che ti osservano.
Se non alla rinascita, certo l’ascolto di chi vive la stazione può essere utile ad andare oltre alle “emergenze” e agli “scandali” di cui si legge sui giornali.
L’ascolto può essere inoltre uno strumento interessante contro la nuova crociata per il decoro a cui assistiamo e per la definizione di politiche diverse dalle solite repressive. Solo dando una voce a chi non c’è l’ha si può evitare, infatti, di fermarsi all’epidermide della riduzione delle persone a scarti non dissimili dai rifiuti ammucchiati ai margini delle strade. E si può provare a spezzare il tipo di discorso con cui Grillo ha accostato topi, spazzatura e clandestini. O con cui Salvini, tramite la retorica delle ruspe, vuole spazzare via detriti umani.
Si potrebbe iniziare dal cambia valute di via Giolitti all’esterno del quale
sono esposte banconote estere. Entrandovi sembra di trovarsi in un luogo di un
romanzo di Graham Greene. Le pareti sono tappezzate di banconote e di offerte
per pacchi di diverse valute. Due sottili vetri separano gli avventori dai due
titolari italiani dietro ai quali c’è una parete fatta di assi di legno. Mentre
sono in fila, un uomo con un gilet si affaccia per chiedere se servano contanti.
Da dietro i vetri uno dei due responsabili lo invita a passare dopo. Nell’altro
sportello un uomo cambia un dollaro.
Ho un amico che si appoggia ad una gruccia chiedendo
le elemosina all’Esquilino. Si chiama Sebastian
e non può più passare per Termini. Così un giorno mi racconta perché.
Una sera di novembre di qualche anno fa tre fratelli fanno la fila sotto la
pioggia nei pressi di via Marsala. Non hanno quasi più soldi. Sono stati a casa
in Romania e per tornare a Roma hanno praticamente finito i risparmi.
Nell’attesa, un uomo si avvicina alle spalle del fratello che occupa l’ultima
posizione nella coda. Gli punta un lungo coltello alla schiena e gli intima: “O
mi dai tutti i tuoi soldi o ti do’una coltellata”. Sebastian si gira e gli
dice, con rabbia, che se ha qualche richiesta deve farla a lui. L’uomo col
coltello penetra con la sua lama la pancia di Sebastian. Sebastian crede di
essere morto. Ma sotto il giubbotto di piuma ha una felpa e una maglietta.
Perdendo piume dalla giacca sferra un cazzotto all’assalitore e assieme ai
fratelli si vendicano prendendolo a calci e pugni. L’uomo col coltello giace a
terra. Un poliziotto che ha visto il succedersi dei fatti dice ai tre rom di
fuggire. Per questo Sebastian non attraversa mai la stazione.
Dentro la stazione, tra telecamere e forze dell’ordine, tutto è molto controllato, spiega una sera un guardiano con un giubbotto fosforescente. Lasciano dormire nella stazione chiunque non sia molesto. Conosce ex avvocati o dirigenti della guardia di finanza impazziti che vivono lì. Quando si arriva a parlare di droga, si interrompe e dicendo di aver già parlato troppo si allontana. Una macchina elettrica cavalcata da poliziotti intanto gira per la stazione deserta. Nelle nicchie che si creano tra i pilastri della stazione, lungo i binari e sulle panchine, famiglie e singoli dormono con i propri sacchi e le proprie valigie. Nugoli di studenti in viaggio interrail si apprestano a passare la notte nello spiazzo davanti ai binari in attesa del primo treno della mattina.
C’è un bar con le luci accese e le sedie sui tavoli.
Nessuno dietro la cassa o il bancone. Solo un uomo enorme che schiaccia una
sedia con la sua mole mentre si riempie la bocca di patatine. Guarda davanti a
sé con aria stanca. È un altro guardiano in borghese che passerà lì la notte.
Non c’è nessun servizio di assistenza di notte per chi si sente male. Binario
95, cooperativa finanziata anche dalle Ferrovie dello Stato, è un centro
diurno. Il camper delle Croce Rossa, con sponsor esposti in un riquadro su un fianco che passano dalla
Vodafone all’Eni, c’è solo il pomeriggio dalle 16.00 alle 20.00 e di weekend
non è attivo. La mensa della Caritas ha chiuso due anni e mezzo fa. Rimane un
ambulatorio aperto la mattina dove è necessario avere solo la tessera Caritas
che viene rilasciata a chiunque ne faccia richiesta. In base alla propria
situazione si stabilisce a quali servizi si possa accedere. Spesso vengono
anche migranti titolari di carte sanitarie perché sanno di poter trovare anche
degli interpreti. L’ambulatorio è essenziale: ci sono una sessantina di medici
che si turnano ma non ci sono farmaci. Entrato lì per conoscere il
funzionamento dell’ambulatorio, mi fermo per fare da traduttore a Lawren in
assenza di volontari che parlassero inglese. Lawren è fuggito dalla Nigeria e
ha ottenuto lo status di rifugiato politico ma da quattro mesi vive per strada.
Si trova lì per un check up generale. Non ha sintomi particolari ma ne ha
bisogno perché vuole fare il pugile. Si rifiuta di mostrare ai volontari il
documento che porta con sé con la sua storia perché è la sua storia e solo il
suo avvocato può leggerla. Parla spesso del suo avvocato, perché, dopo aver
raccontato cosa accadesse nel campo di Nettuno dove si trovava a degli uomini
della prefettura inviati lì, è stato espulso.
Prima dell’ambulatorio Caritas e di Binario 95 c’è un sottopassaggio salito
agli onori della cronaca come luogo di prostituzione e degrado – “inferno in
terra” – grazie ad un perverso video fatto dal fotografo Francesco Toiati per
ilMessaggero. Una musica enfatica segue Toiati in macchina che
riprende i cartoni su cui dormono diverse persone. Il fotografo poi fa un
secondo giro a piedi e con fare spavaldo interloquisce con chi vive tra le due
carreggiate prendendoli in giro per darsi sicurezza. Il commento al video della
giornalista è il grido orripilato della violenza della povertà che si trasforma
in muto scandalo voyeuristico.
Quando ci passo non c’è più nulla. Anche perché il video è uscito tre giorni
dopo lo sgombero del sottopasso. A pochi
metri di distanza, un uomo suona la chitarra per la sua più anziana
donna, nel cuore della notte, davanti alla pila di scatole e zaini sovrastante
i loro giacigli.
È sera e fuori
dalla stazione, davanti al bar-discoteca di via Giolitti, un uomo con una
giacca di pelle e le unghie nere prova a darmi cinquanta centesimi per una
sigaretta. Viene dalla Germania, dal lago di Costanza. Spaccia. È gentile ma termina lo scambio di battute
ricordandomi che in stazione, di notte, ci potrebbe essere gente cattiva, che
potrebbe farmi male. Un altro ragazzo, alto e allegro vende dell’hashish. I
suoi parenti stanno in Nord Europa, mentre lui, proveniente dal Ghana, è stato
espulso una volta scaduto il visto. È
uscito la mattina dalla questura perché, essendo solo una delle tante
volte che lo hanno fermato, è stato subito rilasciato e dice: “mi prendono, mi
rilasciano e mi riprendono. Ma io ho moglie e bambini. A me non me ne frega un
cazzo: io torno qui e vendo”. È su di
giri e sulla questione è assolutamente tranquillo.
La notte in via Marsala sotto le vetrate delle poste e
del supermercato giaciono abbandonati dei corpi che dormono, riposano, parlano,
fanno l’amore. Molti di loro vengono da Lampedusa e si trovano lì per passare
la notte prima di prendere un treno per dirigersi verso Nord. Me lo spiega uno
spazzino della stazione che incontro in un giro fatto di mattina presto.
Inizialmente non aveva voglia di parlare. Temeva il licenziamento. L’altro
collega con cui stava mi invita a scrivere dello “spazzino giocoliere”,
mostrandomi come solleva con la paletta un bicchiere di plastica accanto agli
sfiatatoi sopra il centro commerciale sotterraneo.
Chiamano il “pilastro di Termini”, un tassista, un concentrato di maschio
razzismo, che avanza con il figlio visibilmente fiero della violenza che il
padre mostrerà. Arriva gesticolando mentre insulta “ladri, zingari, spacciatori negri, sporcizia,
barboni, matti, immigrati”. Chissà se il nostro, come l’Edward Norton/ Monty
Borgon della 25ª ora, alla fine
scoprirà che al posto dei vari diversi potrebbe prendersela con se stesso. Nel
film è un punto di svolta.
Lo spazzino più basso e tozzo descrive il disgusto di raccogliere il vomito tra
persone che viaggiano e si spostano per lavoro. Parla della difficoltà di
lavorare tra furti e droga tutto il giorno. Poi passa agli immigrati che
vengono qui perché la legge è meno dura. “In Romania” – dove lui è stato – “e
si sta bene, se sgarri t’ammazzano”, dice. Lo spazzino giocoliere, fino ad
allora silenzioso, interviene sostenendo la necessità di gasare
indiscriminatamente tutta ‘sta gente, dai rom agli spacciatori. L’altro
spazzino invece ci tiene a evitare l’accusa di essere razzista e differenzia il
suo odio tra chi viene da fuori per approfittare della scarsa repressione
italiana – e non gli interessano i dati sulle carceri stracolme di migranti – e
chi è vittima della speculazione sul bisogno. Così si arrabbia per
l’ingiustizia di famiglie che fuggendo vendono case a prezzi stracciati ai
potenti locali. Con chi fugge dalla guerra è solidale. Lui lo sa, perché glielo
hanno detto dei migranti che vivono in stazione, che “dei dieci barconi che
affondano i nostri media ne riportano uno solo”.
Arriva un uomo su una bicicletta malandata. Ha la barba bianca che circonda il
bel volto anziano scavato e saluta i due. Questi rispondono affettuosamente.
Scherzano. L’uomo afghano racconta di essere stato derubato la notte prima. I
due solidarizzano e l’uomo riparte. Mi chiedono retoricamente se secondo me
abbia comprato la bicicletta su cui gira. Lo spazzino che non vorrebbe gasare
tutti prorompe poi con una domanda retorica: “E chi gliele vende le armi ai
paesi dove c’è la guerra?” e indignato riprende “Gliele vendiamo noi. La
Beretta è l’unica azienda italiana in attivo! Più ti informi e più viene a
galla il marcio”. Crede che il racket di scippi nella stazione sia protetto in
alto. E mentre c’è chi si arricchisce così, mantenendo un buon nome, nelle loro
case sicure, lui invece da sei anni non fa ferie e gli hanno svuotato la casa
due volte. L’ultima volta gli hanno anche lasciato, sul letto, un regalo fatto
di sterco. Lo spazzino giocoliere mi invita a levarmi dal cazzo e la
conversazione finisce.
È una conversazione
difficile perché non hanno voglia di mediare con quello che vedono e sentono,
sul lavoro e in tv. Però ci sono delle incongruenze rispetto all’odio totale
professato. Il senso di abbandono è totale. Il rancore
è la cifra delle discussioni. E a Termini effettivamente quello che sta
esattamente sul gradino più in basso del tuo si trova sempre. A facilitare il
tutto c’è l’assenza più totale di una corrispondenza tra le difficoltà
incontrate sul posto di lavoro e i lavori svolti. Elemento certamente comune a
molti mestieri, tra cui quello degli autisti.
“Ormai se mi insultano sull’autobus io dico grazie. Sono diventato
indifferente” afferma con l’orgoglio
della sconfitta. Emanuele autista Atac interinale, “milleduecento netti,
duemila lordi: ci scapperebbe un altro stipendio se non se ne andasse in
tasse”. Mentre parliamo mette dello scotch su dei reggimano all’interno del suo
autobus.”Se non aggiustiamo noi non si potrebbe partire”. La combinazione di
poche corse, caldo, ritardi e autobus rotti, vagoni di metro che viaggiano con
le porte aperte ha fatto sì che, a Luglio, ci sia stata un’aggressione ad un
autista da parte dell’utenza infuriata. In questo clima, Christian Rosso,
autista Atac, ha denunciato con un video i motivi per cui non passano gli
autobus a Roma. I mezzi non passano perché sono guasti, ma l’azienda non li fa
riparare e così il servizio decade. È il
classico meccanismo che porta a far credere che una privatizzazione sia
necessaria e desiderabile. Rosso evidenzia però come, se il servizio fosse
privato, le zone con meno utenti non verrebbero servite.
L’azienda ha mandato degli ispettori dall’autista e lo ha sospeso a tempo
indeterminato. Marino quindi ha rilasciato una dichiarazione sulla vicenda
incentrata sulla discontinuità da lui rappresentata. Lui non chiede ai vertici
di nessuna municipalizzata di assumere o non licenziare chicchessia, si vanta.
Come se si trattasse di un problema di clientelismo e non di ritorsioni sui
dipendenti. Emanuele ha molto chiaro che gli autisti non siano altro che dei
capri espiatori utilizzati per coprire i responsabili dei disservizi: i
manager. In basso però ci sono sempre loro: i “rom”, capro espiatorio generale.
Sull’autobus salgono per taccheggiare i turisti. Vorrebbe fare qualcosa ma si
sente impotente. Se gli dice qualcosa lo insultano.“Fortunatamente abito fuori
da questa città di merda” mi dice.
C’è un altro autista, Tommaso, capelli neri lunghi raccolti in una coda, più
giovane, con gli occhiali da sole tirati su, che si unisce alla conversazione.
Prima era anche lui un interinale come Emanuele. È stato assunto da poco. Un giorno dalla
ventola usciva solo aria calda, facevano trenta gradi fuori, e voleva fermare
l’autobus per evitare che la gente si sentisse male e svenisse. Gli hanno detto
di non preoccuparsi e di andare, i passeggeri.
Se la prende col fatto che i superiori, quando gli autisti si lamentano di non poter far partire i mezzi in quanto guasti, gli rispondono che sono dei professionisti e quindi non hanno bisogno di meccanici e possono partire lo stesso.”Sì certo, dei professionisti a milledue al mese, mentre ci sta tanta gente che fa “lavori usuranti” dietro la scrivania: a me fa male il culo ché sto da 8 ore su questo autobus, a loro al massimo i polpastrelli”. Tommaso non crede in alcuna via d’uscita dalla contrapposizione autisti/cittadini. “Si contano sulle dita di una mano quelli che non credono che dovremmo morire tutti, come categoria”. “La prossima volta altro che urla, spinte e insulti. Questi ci accoltellano”.
Tommaso oltre che con i vertici dell’azienda se la prende con quelli che dovrebbero stare dalla sua parte ma si fanno solo i cazzi loro: i sindacati. La politica è distante, non gli interessa. É un sentimento diffuso quanto l’odio per la vasta e generica categoria dei “rom”. I pochi che votano sono incerti tra astensione, Cinque Stelle e Lega, e solo un barista di via Marsala ricorda ai due tassisti indecisi chi abbia governato negli ultimi vent’anni. La conversazione si svolge la mattina presto davanti a un caffè. In alto se la prendono con chi protegge gli NCC, i noleggi con conducente. In basso, di nuovo, se la prendono con i rom. Uno di loro racconta di aver “salvato” una turista cinese accerchiata da ragazzini che le sottraevano il portafoglio mentre non si accorgeva di niente.
Due poliziotti descrivono una dinamica dentro la stazione da guardie e ladri, per cui sono quasi sempre gli stessi che vengono portati in commissariato. Con alcuni c’è quasi un rapporto di amicizia. Uno dei due stabilisce una differenza tra chi ruba per mangiare e chi lo fa per bere, facendo intendere il suo giudizio morale. Un terzo poliziotto, giovanissimo, con una faccia che sembra contraddire le caratteristiche richieste per indossare la divisa che porta, si dice preoccupato per la sorella che spesso, la sera, passa perla stazione. Racconta che alcuni spacciatori sono più violenti di altri. Lo noti dalle tracce delle vite infernali che hanno attraversato: le braccia segnate da lunghe cicatrici.
L’ incontro con dei rifugiati somali avviene in piazza
dei Cinquecento, luogo, come ricorda la scrittrice somala Igiaba Scego in Roma negata, dedicato ai soldati
italiani impegnati nella prima avventura coloniale del Regno uccisi a Dogali
nel 1887. Jabril è un rifugiato politico somalo. Nato e cresciuto a Mogadiscio,
si trova da 4 anni in Italia. È
disoccupato e ha i parenti ad Oslo. La sera viene a Termini perché è
facilmente raggiungibile con i mezzi. Vive di un misero sussidio, in una casa
assieme ad altri. Se riesce a mangiare tutti i giorni è grazie alla solidarietà
degli amici.
Ha attraversato il deserto del Sudan vedendo i suoi amici morire e venire
abbandonati a terra per sfuggire alle violenze di Al Shabab. Trova ad
accoglierlo il razzismo libico che, però, era meno feroce di quello attuale
post Gheddafi. “Se oggi in Libia si uccidono neri che vengono dal sud gli
assassini rimangono impuniti. Con Gheddafi non sarebbe successo”. Quindi si
imbarca su una nave di connazionali e arriva in Sicilia. Racconta divertito lo
stupore del maresciallo dei Carabinieri quando, arrivato sulle spiagge dove
erano sbarcati, scopre che parlano italiano.
Jabril si ritiene cattivo, “sennò non sarei entrato in carcere”. Condannato per
spaccio è stato due anni e mezzo a Regina Coeli. È pentito di non aver usufruito della
condizionale, a causa di una rissa con un compagno di cella che gli aveva
sottratto il tabacco. In preda alla furia ha picchiato anche una guardia.
Mentre parliamo un ragazzo siciliano ci chiede dell’erba. Assam decide di fare
da intermediario con chi può soddisfare la sua richiesta. “Magari domani se ne
ricordano e mi fanno fumare un po’”.
Anni fa è passato per l’ex ambasciata somala di via dei Villini dove diversi
rifugiati vivevano in condizioni disumane con la pioggia che entrava dal
soffitto, in stanze con le mura ammuffite e prive di lampadine e di corrente.
Si cucinava spruzzando alcool puro su microscopici fornelli da campeggio e il
the veniva offerto in bottiglie di plastica tagliate. Molti avevano le mani
ustionate. Se le bruciavano per sfuggire al regolamento di Dublino per il quale
le impronte prese nel primo paese d’arrivo sono quelle che li avrebbe
inchiodati all’Italia.
Il New York Times, che oggi scuote
tanto con l’articolo sul “degrado” romano, allora scrisse dell’ambasciata
somala, illuminando per poco l’insostenibile condizione dei rifugiati che vi
sopravvivevano dentro.
Oggi il posto giace abbandonato tra rifiuti e foglie che si accatastano dietro
all’alto cancello.
Jabril si dice socialista, guarda i Tg nazionali e americani, legge i giornali
che danno in metro e talvolta qualche quotidiano nazionale. In Italia apprezza
“Silvio” ma non sa dei legami che intercorrono con Salvini, che definisce “di
merda”. Oppone poi l’omosessualità di un politico alla possibilità che abbia
delle qualità, anche se poco prima afferma, vedendo un ragazzo, che il sesso lo
praticherebbe sia con i maschi che con le femmine.
Tanto Jabril è inquieto, estroverso e vitale quanto il suo compagno della
serata – Ayaan – è mansueto e timido.
Ayaan, nel 2001, parte da Mogadiscio alle volte di Tripoli, dove lavora in una
compagnia italiana. Con il ricavato compra la traversata per l’Italia
corrompendo un ufficiale libico. Viaggia assieme ad altre 300 persone portate a
terra dalla guardia costiera. Viene sbattuto nel centro di accoglienza di
Lampedusa e, ottenuti dei documenti italiani, si stabilisce a Lecce dove studia
e lavora da meccanico. Viene assunto a Torino dalla FIAT a 1400 euro al mese.
Su suggerimento di un amico italiano lascia il posto per entrare in una
compagnia che gli da’ 400 euro in più a Milano. L’azienda entra in crisi e
licenzia gran parte degli operai. Prende una buona liquidazione e così si
trasferisce a Brescia dove fa dei lavoretti. Quindi viene a Roma dove si
stabilisce dopo un ulteriore intermezzo in Germania, dove, dopo sei mesi viene
espulso.
Da otto mesi è disoccupato, vive per strada, ma cambia sempre luogo. Prende un autobus e se ne va da qualche parte in periferia. Non passa mai la notte a Termini perché una notte qualcuno, mentre dormiva, ha iniziato a tagliargli una porzione della tasca. Sentendo qualcosa si è mosso e il ladro è fuggito. Dice che a rubare in stazione sono “quelli del Maghreb e gli zingari”. Anche in metro, pochi giorni prima, qualcuno gli ha rubato il telefono. Ha un viso tondo e degli occhi gonfi e lattiginosi, come se fosse sempre sul punto di scoppiare a piangere. Parlando di politica si illumina nominando Romano Prodi, probabilmente per il ruolo ricoperto nel continente africano per l’ONU. Ad un tratto, in piazza dei Cinquecento, all’una e mezza di una notte d’estate, un uomo invoca con gioia il nome del leader dell’Ulivo.
A differenza di Jabril (e di Romano Prodi) Ayaan
sostiene che la Libia oggi sia più sicura di quando c’era Gheddafi, perché
degli amici gli hanno detto che è diventata una discreta meta turistica.
Secondo lui bisogna accogliere i profughi ma non chi viene per ragioni
economiche. Si definisce politicamente “moderato”.
Un’altra mezzanotte, stesso luogo, un uomo, sui
settanta, con una lunga barba legge seduto. Fa il guardiano accanto a una
bancarella coperta da un telone. La sua sedia si trova sul tratto di
marciapiede tra le strisce pedonali e il corridoio da cui escono i taxi per
immettersi nel traffico.
La bancarella non è sua. Narsi è nato in Bangladesh e il suo nome vuol dire
“santo” e “poeta”. Sta leggendo un testo religioso.
Sembra il centro di un’oasi nel deserto di asfalto
davanti alla stazione. È imperturbabile.
Non si cura minimamente di ciò che accade intorno. Da diversi anni si siede lì
alle diciannove e stacca all’una e mezza. C’è un connazionale a qualche metro
di distanza che fa lo stesso mestiere. Dopo di lui attacca un altro.
Nel sito da centomila fan Roma fa schifo
troviamo di Termini un’indignata descrizione che si focalizza sullo scandalo
dei video porno contenuti nel mercatino di libri usati vicino piazza della
Repubblica (“Sì, avete capito bene non state sognando, di fronte alle Terme di
Diocleziano, a due passi dal Grand Hotel di piazza Esedra si vendono
liberamente film porno, assoluta normalità”), dell’illegalità dei venditori di aste
per selfie a Santa Maria Maggiore, che per l’anonimo autore risulta essere
addirittura pericolosa, poiché i turisti potrebbero inciampare o mettersi i
bastoni negli occhi. La ricognizione tra le bancarelle di piazza dei
Cinquecento porta quindi l’autore, disperato, a chiedersi se non si trovi nella
sconosciuta, e quindi oscura, e quindi degradata “Marrakech”. Ma il degrado non
è quello dei margini. Il degrado è quello del centro, politico, economico,
mediatico, che, per distrarre l’attenzione da sé, spinge a concentrarsi su chi
non ha modo di celare i propri comportamenti e non può difendersi. Il degrado
più devastante è quello del deserto morale che è stato creato. Degrado è
concentrarsi su atti e scene“sgradevoli” cancellando la dimensione sociale in
cui avvengono. Degrado è non rendersi conto che il tema del decoro viene
agitato da destra e sinistra per non ammettere la perdita di potere reale della
politica nei territori. Degrado è non cogliere il nesso tra pulizia delle
strade e pulizia sociale come sottolinea Tamar Pitch nel suo Contro il decoro. L’obiettivo è
nascondere le “vite di scarto”, rimuoverle dalle strade e dalle piazze, in
quanto scandalo sempre più diffuso di cui non si deve avere coscienza. La
cittadinanza propugnata è infatti una sorta di attivismo in dormiveglia dei
penultimi contro gli ultimi. La mania per la pulizia delle strade e dei muri fa
perdere di vista le reali – sporche – dinamiche in atto nelle metropoli.
Attraverso il tema del decoro, quindi, oltre a pervertire l’impegno pubblico in
lotta per l’esclusione, si sperimentano e perfezionano nuovi strumenti di
controllo sociale volti a reprimere il dissenso e a nascondere lo “sporco”
prodotto dalle nostre società. Nessuno vuole negare il disagio di vivere tra i
cattivi odori dei rifiuti accatastati accanto ai secchioni, ai quali si
mischiano quelli dei bisogni lasciati in strada o delle bottiglie di birre e alcolici
abbandonate. Questi contesti sicuramente accrescono la percezione
dell’insicurezza di chi li vive. Il problema però sta esattamente nella mancata
distinzione tra insicurezza percepita e insicurezza reale, per cui, ad esempio,
l’Esquilino, se a livello di percezione
dell’esposizione alla criminalità si trova, a Roma, al primo posto, in termini
di crimini effettivi occupa una posizione medio bassa.
Le vite e le storie che racchiudono gli scatti dei cittadini “indignati” o
“esasperati”sono sempre più ricche e complesse dei gesti e dei comportamenti
stigmatizzati da siti come Roma fa schifo,
che miete consenso costruendo una solida ideologia escludente. Infatti, sotto
l’ampia volta della lotta per il decoro – assunto come il contrario di degrado
– il sito mette insieme i sacchi dell’immondizia che si accatastano fuori dai
cassonetti e i video di persone che si lavano le parti intime alle fontanelle
pubbliche. Il superamento dei limiti di velocità e le riprese di furtarelli
compiuti dagli irrecuperabili rom. La cartellistica abusiva e dei raffronti tra
i giacigli ai margini delle strade romane e le linde piazze di Budapest (senza
interrogarsi ovviamente sul nesso tra autoritarismo, omogeneità etnica e ordine
urbano ). Scene di sesso nella metro e scritte sui muri fatte da
pericolosissimi writers si accompagnano a commenti non cancellati sulla
necessità di un ritorno ai campi di sterminio, o quanto meno al Ventennio,
accanto a degli inni ai roghi di ladri e tossicodipendenti. Nel sito troviamo
poi un panegirico della faraonica Nuvola di Fuksas ma anche la soddisfazione
per lo sgombero di occupanti di case definiti come ipocriti, in quanto figli di
papà, e immorali, in quanto trasgressori della legge (perché c’è identità,
ovviamente, tra i due termini per i nostri crociati). Il livore verso
quest’ultimi e la passione per quello che è stato denunciato come un buco nero
di denaro pubblico sono spiegati da un’inchiesta pubblicata nell’Aprile di
quest’anno da Dinamopress a firma di
Luther Blissett, in omaggio al collettivo che negli anni ’90 si organizzò “per
scatenare l’inferno nell’industria culturale”.
Il disgustoso, ma anche ridicolo, sito risulta infatti essere gestito da
Massimiliano Tonelli, una sorta di portavoce degli interessi dei costruttori
Astaldi, impegnati nella metro C di Roma. Opera pubblica che, stranamente,
nonostante i numerosi casi di corruzione che l’hanno investita, viene incensata
senza posa dal sito.
Non si tratta di esaltare lo squallore, il disagio e la criminalità ma
semplicemente di restituire la dignità alle persone che vivono questi fenomeni
e di inserirli nel più complesso contesto che li produce. Non si vuole qui
negare neanche che sia meglio un impegno per tutelare la qualità della vita
dell’apatia generale. Senza dubbio esistono cittadini che pensano di fare del
bene pulendo strade in cui magari non vivono. Che però chi impugna la spazzola
non pensi perciò di essere un custode della “buona” città, perché questa spesso
non coincide con quella giusta. Ciò che ci interessa analizzare è la tendenza,
nella spoliticizzazione generale, a sminuire il concetto di cittadinanza a
quello più semplice di tutela del decoro, il cui innalzamento a bene comune
stabilisce, implicitamente, una sua priorità rispetto alle questioni sociali.
Ma se il decoro come bene comune è una narrazione comoda per le amministrazioni
pubbliche e per i poteri economici, lo è un po’ meno per l’acqua o i servizi
pubblici. E quindi i secondi, seppure ventisette milioni di persone abbiano
espresso la volontà di custodirli come beni comuni, per la narrazione egemone
sono beni da privatizzare al più presto.
Il decoro così si salda con la difesa di città sempre più privatizzate ed
esclusive, ispirate da logiche tutt’altro che votate al bene comune (si pensi
ai costanti sgomberi di spazi che offrono servizi a migranti e cittadini in
luoghi precedentemente abbandonati), dove si amministra il consenso attraverso
delle ordinanze, facili strumenti messi in campo dagli amministratori per
mostrare il proprio attivismo. Sotto queste politiche e questa retorica però
l’inumanità prolifera e il rancore si fa religione civile. L’odio è organizzato
e stimolato continuamente e così sprofondiamo, assieme ai resti di ciò che
consumiamo, nella melma dell’indifferenza e dell’attivismo dell’espulsione.