Insegnare
Agli inizi degli anni novanta insegnavo in una classe multiculturale di scuola elementare, a Roma. In classe tutti gli alunni avevano un soprannome. C’era uno specialista tra di loro che teneva la documentazione e aveva i nomi scritti su un quadernino. Etunem, figlio di immigrati nigeriani, soprannominato “Tunnel”, un soprannome che lui portava con orgoglio, allusione all’imminente apertura del tunnel sotto la Manica di cui si parlava spesso in quel periodo. Le talpe scavatrici e le squadre di operai, tecnici e ingegneri si erano incontrate e avevano brindato, là sotto. I telegiornali e tutti i media avevano raccontato l’impresa. Come avevano fatto, tanti anni prima, con il tunnel sotto il Monte Bianco. Feste sulle sponde inglesi e francesi, tanti discorsi e molta retorica: Europa unita, libera circolazione, eccetera.
Quel tunnel, nell’estate 2015, è diventato un muro; sulle due sponde, polizia, cani, filo spinato. E i discorsi? Un balbettio penoso: sui migranti, sulla sicurezza, sulle “quote”, su Bruxelles. Il tema delle migrazioni, dei migranti è sotto gli occhi di tutti, è diventato il discorso pubblico dominante degli ultimi mesi, dalle televisioni alla politica ai discorsi nei bar, sugli autobus. Tutti dicono la loro ma il dibattito pubblico ha preso una strada che esclude approfondimenti, sfumature, idee di governo sul lungo periodo.
Anche la continua, ossessiva proposta di numeri, tabelle, statistiche su quanti sono gli stranieri, i profughi, i rifugiati, i minori stranieri non accompagnati, diventa sterile se priva di chiavi di lettura, di capacità di contestualizzare, di idee per il futuro.
In televisione parlano i politici, i ministri soprattutto: degli interni, della difesa, degli esteri. Parlano con le loro lingue, quelle che conosciamo: “il prefetto, la polizia, la situazione è drammatica ma sotto controllo, navi, contrasto agli scafisti, quote di profughi da suddividere in Europa, non fare come la Merkel, fare come la Merkel, i muri, l’accoglienza…”
Non una parola, un’idea dai ministri della cultura e soprattutto dell’istruzione, università e ricerca. Afasia totale. Perché? La scuola, l’istruzione, l’università sono un mondo a parte? Non c’entrano con quello che sta accadendo? Nessun ragionamento sul fatto che l’immigrazione ha cambiato e può cambiare la nostra scuola. Nessun tentativo serio di collegare le migrazioni di questi ultimi anni e mesi con la realtà della scuola e dell’istruzione in contesti che sono già multiculturali. Sui banchi di scuola e nei corsi di istruzione per adulti ci sono già alunni e studenti provenienti da paesi al centro delle drammatiche migrazioni di oggi: siriani, afgani, egiziani, nigeriani, eritrei.
Non sarebbe questo il momento, con un’opinione pubblica così frastornata, di avviare un piano pluriennale di formazione, di sensibilizzazione, di conoscenza, a tutti i livelli, sulle migrazioni e le loro implicazioni economiche, culturali, educative? E sulle implicazioni filosofiche e spirituali e le interazioni con il nostro modo di vivere e di pensare.
Condivido quello che ha scritto Umberto Curi, sul Corriere del 13 agosto: “…è davvero deprimente constatare quanto sia miserabile il livello complessivo dell’elaborazione politico-culturale del nostro Paese, alle prese con una questione che richiederebbe, invece, la messa in campo delle risorse migliori… a contendersi il terreno non sono state politiche diverse e concorrenti, chiamate alla verifica della loro efficacia sul piano concreto della capacità di fronteggiare il problema, ma semplicemente due parole d’ordine, avvilenti nella loro povertà concettuale: respingimenti o accoglienza”
Non è da oggi la disattenzione e la mancanza di consapevolezza politica sul tema dell’integrazione e dell’istruzione dei figli di immigrati e degli adulti migranti.
Le ragioni sono varie ma oltre al senso comune più facile, sentito tante volte, e che fa dire : “l’immigrazione non porta voti” ci sono altre possibili spiegazioni. Sono idee, modi di pensare (sic!) diffusi soprattutto nelle classi dirigenti, nei decisori delle politiche dell’istruzione, a tutti i livelli, anche e soprattutto tra coloro che si dichiarano per l’integrazione, l’intercultura, l’inclusione (questa è l’ultima parola di moda, burocraticamente corretta, presente in tutte le circolari, in tutti i documenti ufficiali). Allora l’idea di questi decisori è questa: “la scuola italiana ha già integrato un milione di alunni stranieri, l’Italia non ha fatto classi speciali, separate per i figli di immigrati, come invece hanno fatto altri Paesi, gli insegnanti italiani sono bravi, sono inclusivi e poi molti stranieri sono nati in Italia”. È una rappresentazione superficiale e propagandistica: presuppone che l’integrazione sia già fatta, che sia un processo spontaneo, un strada in discesa, che i bravi insegnanti se la cavano da soli…
Ma quella dell’integrazione è una strada in salita e quello degli studenti “stranieri” è ancora, in gran parte, un percorso ad ostacoli: sono in ritardo scolastico (cioè hanno uno o più anni in più dei compagni di classe italiani) più di 6 studenti stranieri su 10 nel primo anno delle scuole superiori. Fioccano bocciature nel primo anno delle medie e nel biennio delle superiori, nonostante la crescente stabilizzazione dell’immigrazione e la crescita delle seconde generazioni. E nonostante le forti aspettative di una parte delle famiglie immigrate verso l’istruzione vista come la più importante leva di riscatto e mobilità sociale.
La seconda rappresentazione superficiale è questa ed è un’idea molto diffusa: si pensa agli studenti stranieri come ad un gruppo fragile, in difficoltà, bisognoso d’aiuto, vulnerabile. Un modo di pensare difensivo, l’idea di integrazione come aiuto ai più deboli: bisogna accoglierli, insegnare la lingua, orientarli ect…Un’idea da politica sociale, da servizi di emergenza, e in parte è anche così, ma non tutti i migranti sono fragili. Una parte di loro conosce le lingue e il mondo meglio di noi, sa resistere e adattarsi, porta punti di vista differenti sulla scuola e l’educazione, una fiducia e una speranza di cui noi abbiamo perso traccia. “Alcuni di loro hanno delle storie, ha scritto Eraldo Affinati, insegnante alla Città dei Ragazzi, scrittore, che sembrano Ulisse nascosto sotto il montone per sfuggire a Polifemo”. Siamo noi che abbiamo bisogno d’aiuto. Siamo noi i “fragili e spavaldi”.
La situazione attuale, certo complicata, contiene anche elementi dinamici, di trasformazione, un’occasione di cambiamento per tutti. È questo che non viene capito.
Un esempio: la maggioranza degli studenti “stranieri” immatricolati all’università è costituita da studenti che provengono dalle scuole italiane (e non dall’estero) e una percentuale significativa, il 17%, da istituti tecnici e professionali.
Anche se hanno accumulato ritardi scolastici, anche se sono arrivati senza conoscere la lingua italiana, anche se “schiacciati” su scelte tecnico/professionali una parte di loro non rinuncia a proseguire gli studi. Un chiaro segnale della spinta verso lo studio, della fiducia, del sogno, della speranza nel futuro da parte di alcuni gruppi di immigrati (Alunni con cittadinanza non italiana. Tra difficoltà e successi, Miur/Ismu, 2015).
La mia esperienza – lavoro tutti i giorni su questi temi – mi fa dire così: c’è un paese, l’Italia, cioè la sua classe dirigente, che non crede e non investe nell’integrazione dei figli degli immigrati perché ne ha un’idea superficiale, burocratica, difensiva, “sociale” quando va bene. Una classe dirigente e una burocrazia ottusa che non sa e non studia (penso più a questo che non alla furbizia di “gli immigrati non portano voti”) e che è peggiore di quella di vent’anni fa. Non sa del potenziale innovativo del plurilinguismo degli immigrati, dei vantaggi per tutti derivanti dal confronto con altre idee di scuola, dalla maggiore spinta verso l’istruzione e fiducia nel futuro da parte di alcuni gruppi di immigrati. E il rispetto delle regole, e la legalità? (parola totem della sopracitata burocrazia). C’è né in abbondanza tra i ragazzi tamil e tra i minori sbarcati soli, senza famiglia, inseriti nelle scuole di Palermo.
C’è una storia che riassume molti dei temi, delle preoccupazioni e dei sogni di mobilità sociale dei ragazzi stranieri. Ma che è anche un evidenziatore della nostra idea di “inclusione”. È quello della studentessa, figlia di un operaio senegalese di Pisa, in Italia da 15 anni. Famiglia musulmana, a scuola porta il velo che le copre i capelli, ha frequentato il primo anno di un istituto tecnico con risultati eccellenti.
La materia che le piace di più è diritto, il suo sogno è diventare avvocato.
Nell’ultimo mese di scuola ha ricevuto in classe lettere e messaggi minacciosi e offensivi, con dentro frasi di questo tipo: “Non si è mai vista una negra che prende 10 in diritto! Non diventerai mai avvocato.”
Il sogno, la possibilità di mobilità sociale contrastata dai compagni di scuola italiani.
C’è anche una rappresentazione dell’Italia in questa storia triste, un Paese che invece di capire e di favorire l’integrazione la contrasta.