Gli Asini - Rivista

Educazione e intervento sociale

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Volontariato per volontari: cosa ho capito
lavorando in una scuola di italiano per migranti

Salvatore Esposito/contrasto
1 Marzo 2022
Rosa Esposito

In un vecchio edificio, in uno dei quartieri più multietnici della città, c’è una piccola e storica scuola di italiano per stranieri e richiedenti asilo. La scuola è piccola, ma rimane un importante crocevia di persone provenienti da tutti i paesi del mondo e per questo è stata molte volte paragonata con entusiasmo a un “porto di mare”. Il porto non è formato solo dagli studenti della scuola, ma anche da un mare di maestri e maestre che volontariamente decidono di dedicare il loro tempo all’insegnamento dell’italiano. Insegnare una lingua straniera è un lavoro complesso, soprattutto se quest’ultima deve essere trasmessa a persone di cultura diversa. È un processo delicato e (a livello teorico) noi volontari sembriamo tenerlo ben presente; ma nella pratica, una volta in classe, la situazione cambia radicalmente, mettendo in risalto un grande scollamento tra il pensiero e l’azione. Questo divario è pericoloso per chi, pur a livello volontario, fa questo genere di lavoro ed è bene prenderne consapevolezza il prima possibile. È incredibile, infatti, quanto sia facile, nonostante tutta la buona volontà, ritrovarsi a essere maestri mediocri e perseguire ostinatamente e in maniera ottusa la propria strada senza accorgersi di avere ormai perso i propri studenti. Evidentemente la buona volontà non basta.

Che fare dunque? Come prima cosa, dovremmo – in quanto insegnanti volontari – capire chi siamo, ovvero pensionati e studenti universitari mossi da altruistici sentimenti e che vedono nell’insegnamento dell’italiano una valida attività per impegnare i momenti di tempo libero. Come diceva Deligny, siamo convinti di avere quel “briciolo di intuizione, immaginazione creativa e simpatia verso l’uomo”. Eppure, nonostante ciò, rimaniamo disgraziatamente “inconchigliati” in noi stessi: conchiglie forse belle se viste dal di fuori, ma chiuse ermeticamente. Così, ci siamo scordati cosa vuol dire essere studenti, non parlare una lingua, sentirsi a disagio, annoiarsi alle lezioni, vivere in un paese straniero.
I due elementi che permettono al volontario e alla volontaria di restare inconchigliati in se stessi sono la sottovalutazione dell’insegnamento e l’idea di tempo libero. Oggi, nel nostro immaginario, il ruolo di maestro (insieme a quello di educatore) ha perso significato e anche a livello istituzionale si tratta di un mestiere sottovalutato, sottopagato e senza valore. È diffusa, inoltre, la convinzione che insegnare la propria lingua madre sia qualcosa di intuitivo, un lavoro che non richieda troppi sforzi. Questa è la prima trappola: cadere nell’illusione che sia facile trasmettere una materia conosciuta alla perfezione, trascurando la complessità della lingua e dell’insegnamento. L’altra trappola sta nel fatto che il volontario decide di impegnare il proprio tempo libero. Il tempo libero non ammette sforzi radicali e non accetta di essere disturbato. Dovremmo invece, in quanto maestre e maestri volontari, attuare un “attacco a noi stessi”, mettendoci continuamente in discussione, uscendo dalle nostre convinzioni e convenzioni. Purtroppo la parola “attacco” entra in conflitto proprio con quella dimensione nociva di tempo libero, di sicurezza personale e di autoconvincimento. Lavorare sui dubbi, sui fallimenti e sui successi – studiare, insomma – è uno sforzo aggiuntivo, faticoso e spesso doloroso anche per chi fa di questi lavori una professione. Ma il volontariato, come si è detto, è tempo libero… ed è triste vedere quanto siano poche le realtà di questo tipo che intraprendono un serio percorso di autocritica e formazione.

Il rischio, nel rinunciare a un attacco a se stessi, è che qualsiasi lavoro, anche quello del volontariato, si riduca a un rituale dogmatico, come una religione. Carlo Levi diceva che “non c’è religione senza sacrificio”. Se rinunciamo a mettere in discussione noi stessi, il sacrificio ricadrà proprio sui nostri studenti e così la persona migrante che decide di imparare la nostra lingua diventa una specie di ospite, un ospite sacro. Eppure, se di questa religione noi siamo i sacerdoti, allora dovremo necessariamente sacrificare qualcosa o qualcuno affinché essa possa rimanere tale. Il volontariato, la lezione e gli studenti stessi devono rispondere alle nostre esigenze e non viceversa; per questo il sacrificabile sarà proprio il nostro studente. Con mossa da trasformista, l’atto di volontariato assume paradossalmente l’aspetto di un servizio a maggior vantaggio dei volontari, voltando invece le spalle a chi dovrebbe godere del nostro lavoro.

In classe
Nella scuola, la formazione dei nuovi volontari avviene frettolosamente, in un paio d’ore, su alcune dispense. In queste fotocopie sono riportati il sillabo (il programma da attuare a seconda del livello linguistico degli studenti) e le valide norme generali per affrontare e strutturare una buona lezione. La direttiva principale è di insegnare usando il metodo comunicativo: ormai la lingua non può essere più concepita a brandelli, secondo dettami grammaticali, ma deve essere appresa nel modo più naturale possibile, simulando i contesti o partendo da trame testuali che consentano di capire come quella lingua funzioni. La grammatica è indubbiamente utile, ma a ben vedere è anche una sterile scomposizione che riduce la lingua a un complicato puzzle, escludendo la naturale scoperta delle regole. Viene poi insegnato a non appesantire le lezioni con un eccessivo carico di parole; si avverte sulla pericolosità dell’abuso della traduzione, che evita lo sforzo di apprendimento; si sottolinea l’importanza dell’errore, che non deve essere subito corretto e condannato, ma deve diventare occasione di riflessione e apprendimento. Infine si invitano gli insegnanti ad andare al passo di chi ha più difficoltà.

Una volta formati, i nuovi arrivati cominciano il canonico periodo di affiancamento, nel quale però finiscono spesso per perdere le poche ma buone istruzioni ricevute all’inizio. Si entra così in un acritico circolo vizioso: i cattivi maestri formano allievi peggiori, che formeranno a loro volta pessimi apprendisti. Perciò, nella pratica, la schematicità della lezione standard, grammaticale e di più facile improvvisazione prende il sopravvento. A questi metodi seguono molti altri comportamenti sconsigliati. Fioccano lezioni sui verbi “essere” e “avere”; se la lezione fatta solo in italiano non scorre, ricorro a un grammelot che mischia francese e inglese; l’errore diventa un mostro inavvicinabile. Si sostiene l’inutilità di sovraccaricare gli studenti di lessico? Bene: parole a pioggia! Bisogna andare al passo del più lento? Sia mai, lo spedisco in un’altra classe, che non mi rallenti! In men che non si dica lo studente tornerà nella classe di primo livello: ancora gli articoli, ancora “io vengo da”… Insomma, i metodi del professor Balboni (che tanto ha scritto e riflettuto sull’insegnamento della lingua) vengono presto dimenticati.
A chi viene data la precedenza? Agli studenti o ai programmi? Difficile rispondere, dato che nella nostra scuola gli studenti cambiano di giorno in giorno, in quanto la frequenza è totalmente libera. Uno studente, infatti, decide di venire a lezione quando crede: sempre, una volta all’anno, una volta ogni tre mesi o mai. E lo stesso si può dire dei volontari, liberi di insegnare quando vogliono. L’assenza di un gruppo classe impedisce di costruire un percorso unitario, condiviso e definito. Possiamo immaginare cosa questo comporti: programmi improvvisati, lezioni inutilmente ripetute, classi sovraffollate (in periodo pre-Covid) e mancanza di una profonda conoscenza degli studenti. Tutto ciò è giustificato con la decisione di aprire a chiunque questo “porto di mare”, affinché ognuno possa godere di una lezione sugli articoli determinativi. Ma in questo modo la scuola rischia di diventare un luogo per i più forti, mentre i timidi e coloro che hanno più difficoltà si perdono per strada e, giustamente, se ne vanno. Rimane l’illusione di agire su una grande massa di persone scavalcando titanicamente la molto più sincera “misura d’uomo”, quando, a ben vedere, l’aiuto senza qualità che si fornisce sarà sempre rivolto a un numero ristretto di persone.

Un tale approccio – illusoriamente profondo, ma in realtà superficiale – ci porta a perpetrare degli atteggiamenti che dovrebbero essere banditi. Il primo e più comune è infantilizzare lo studente adulto. La barriera linguistica, la differenza culturale e anche una buona dose di buonismo sono ingredienti pericolosi che ci portano ben presto a semplificare fino al ridicolo il rapporto con lo studente. È infatti molto facile, per noi insegnanti, sentirci più o meno inconsciamente superiori ai nostri allievi, ricoprendo spesso vesti paternalistiche e maternalistiche. La sterile e ormai mercificata idea di assistenzialismo non migliora la situazione. In quanto assistenti tratteremo gli assistiti come delle persone a cui si deve insegnare tutto, si deve dare tutto. E purtroppo questo comportamento viene messo in atto anche con i bambini, considerati come dei deficienti che non sanno abbastanza del mondo e non hanno ancora raggiunto la tanto agognata età adulta.
L’infantilizzazione dello studente condiziona in maniera aberrante tutto il resto, a partire dalla produzione di molto chiasso inutile: noi insegnanti parliamo troppo, a volte urliamo convinti di farci capire meglio o di attirare l’attenzione. Nei nostri percorsi di insegnamento, spesso percepiamo la mancanza di un contatto, di un incontro, o più semplicemente percepiamo la nostra frustrazione che cerchiamo di colmare con la parola. La verbosità riempie la lezione, ma alla fine, cosa rimane? Forse il piacere puramente narcisistico della spiegazione prolissa. Nel rapporto con gli altri ci scordiamo dell’importanza del silenzio, probabilmente perché ne abbiamo paura in quanto “vuoto” e che sicuramente all’inizio genererà disagio, può permettere agli studenti la riflessione, lo sforzo, la sperimentazione. Infine, attraverso “il silenzio dell’ascoltatore puro” ascoltiamo meglio i nostri studenti, aumentiamo il significato di una frase esaltandone il calore; attraverso il silenzio diamo alle persone la possibilità di esprimersi e partecipare.

Il fatto di considerare lo straniero come un bambino, ossia come qualcuno a cui “manca qualcosa”, ci porta a fare l’errore di formare gli studenti affinché parlino un italiano grammaticalmente perfetto e affinché assimilino interamente la nostra cultura. La scuola ci fa dimenticare, con le sue formalità, la letterarietà, e dunque il valore, che può assumere la lingua parlata da uno straniero. Ci scordiamo del valore delle diverse pronunce, delle peculiarità che caratterizzano quell’italiano parlato da quella persona. Certo, il nostro lavoro è correggere, ma la scuola non può ridursi solo a questo: al compito, alla correzione. Allo stesso modo, ci dimentichiamo di considerare la cultura e il vissuto degli studenti, imponendo le solite lezioni sulla tradizione del caffè, della pasta e del bar che saranno perfettamente inutili a colui che resta comprensibilmente ancorato alle proprie abitudini.
Certo, da fruitori di una scuola che indottrina invece di educare ci si deve aspettare una sorta di restituzione di quanto studiato in passato, ossia la lezione frontale e performante dimentica di qualsiasi spinta vitale. È sorprendente notare come si continui a considerare l’uso di materiali alternativi per l’insegnamento (cinema, musica, arte e stampa) come obsoleti, superflui o troppo elitari. Ma se entriamo nella bellezza e – perché no? – nella bruttezza di una cultura attraverso uno scritto o un dipinto, non saremo più soli con quella lingua, ma accompagnati. La letteratura e l’arte non sono solo un belletto, un qualcosa in più: ci siamo dimenticati del loro valore popolare e della loro forza erotica, che potrà affiancare l’apprendimento o diventare l’apprendimento stesso.
Non c’è niente di peggio della corruzione del meglio, dice un adagio latino. Per evitare la corruzione dobbiamo provare ad aprire la conchiglia: è difficile, ma necessario.
Illuminare le zone d’ombra della scuola e del volontariato tutto è possibile, a patto che ci sia un impegno maggiore di tutte e tutti e che si punti a una visione di volontariato per la collettività e non solo per se stessi.

È importante riunirsi, programmare serie assemblee (anche con gli studenti!) in cui si possa discutere; organizzare adeguate e costanti formazioni per insegnanti; distogliere finalmente lo sguardo ossessivo dalle proprie abitudini.
Questo implica disporre di un’organizzazione maggiore, di specialisti e non solo di volontari sempre attivi e presenti sul campo; ma è anche vero che per realizzare tutto questo, oltre a una nuova forma mentis sono necessari i fondi. A livello istituzionale, in Italia, non c’è ancora l’adeguata cura e cultura per la sovvenzione di quegli spazi che si occupano di immigrazione. E le associazioni di volontariato stentano a sopravvivere.
Al di là del (necessario!) soldo, al di là del metodo e dell’approccio (anch’essi fondamentali), è importante più che mai guardare sinceramente al proprio lavoro e ai propri studenti, alle persone. Nella sua esperienza educativa alla scuola di Jasnaja Poljana, Tolstoj aveva capito che se l’educazione e l’insegnamento devono continuare a essere puro appannaggio di educatori e insegnanti, allora è meglio istruire lasciando lo spazio alle macchine, gettando via la maschera dei buoni sentimenti e lasciando all’educando la totale libertà di scelta. Forse è una provocazione, ma forse no. Rimane il fatto che questo è quello che dovremmo fare noi volontari. Prendere consapevolezza dell’importanza del nostro lavoro, guardare chi abbiamo di fronte e fare anche noi delle scelte.


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