Vivere a Tel Aviv
Bianca Ambrosio è nata e cresciuta a Milano. Vive a Tel Aviv dal 2009 dove ha studiato scienze politiche e lavorato per varie ONG legate al conflitto Israelo-Palestinese. Sta completando un master in studi sociali, concentrandosi sulla realtà della prostituzione ed è membro attivo del partito di sinistra Meretz.
* Le esperienze riportate in questo scritto rappresentano il punto di vista personale e soggettivo dell’autrice
A Tel Aviv ci vivo da sei anni. Sei e mezzo per l’esattezza. Vivo a sud, tra la stazione centrale degli autobus e la meravigliosa Yafo, in mezzo a prostitute e giovani artisti squattrinati, tra graffiti e grattacieli qua e là, cacche sul marciapiede, polvere, un rinomato mercato delle spezie, famiglie di profughi africani, i locali degli hipster, il panorama decadente e a un passo dal mare.
La maggior parte del tempo amo Tel Aviv di un amore intenso e cieco, alle volte mi travolge e stanca un po’.
Intensa, irriverente, sorprendente, giovane, libera, liberale, aperta, trasgressiva, a Tel Aviv c’è posto per tutti; l’avvocato in carriera, lo startupper, il ballerino, la studentessa o la barista che scende a fare la spesa in pigiama. Un terzo dei cittadini di Tel Aviv sono giovani tra i 18 e i 35 anni e proprio come i giovani, la città è un’ esplosione di energie, creatività e iniziative. La sensazione è che sia tutto una festa continua e che qualsiasi idea, sogno o progetto possano realizzarsi. Basta volerlo. La città ideale.
Non fosse che questa sensazione di continuo dinamismo, di “tutto-e ‘-possibile” sia anche parecchio disorientante. Il “buffet Tel Aviv” lo chiama una mia amica: quello che non hai nel piatto è sempre più allettante di quello di cui ti sei già servito. Siamo tutti alla perenne ricerca di qualcosa d’inafferrabile. Tel Aviv sa essere sfinente. Il suo turbine di opportunità è allo stesso tempo un’occasione per perdersi. Quale covo migliore per una generazione come la nostra. Persa tra idee, la poca voglia di farsi adulti, infiniti stimoli e un’irrequietudine perenne. La città ci svuota le tasche e ci riempie l’animo, seppure in modo effimero.
Trovo Tel Aviv faticosa anche perche’ spesso ho nostalgia di una scenografia di stampo Europeo. L’ordine, le strade pulite, l’eleganza architettonica e in generale la sensazione che sia tutto più definito. Non come qui, dove ogni tanto si ha la netta sensazione che sia tutto un’improvvisazione. Un’improvvisazione ben riuscita certo, ma pur sempre un progetto che cavalca l’onda della spontaneità e senza basi solide. La frenesia di Tel Aviv, i suoi palazzi accatastati e a volte logori, i fili dell’elettricità’ a vista, i condizionatori che gocciolano sulle teste dei passanti, le urla in strada mi affascinano ma a tratti mi creano disagio e mi fanno sentire la mancanza di un’armonia da “vecchio continente”. Ho come l’impressione che l’estetica classica dell’Europa, costruita su secoli di storia, renda più semplice trovare angoli di tranquillità.
Sembrera’ strano, ma molti Israeliani Tel Aviv non la sopportano. A dirla tutta si tratta di un rapporto ambiguo di odio e amore. Non la sopportano e allo stesso tempo non ne possono fare a meno. Ne riconoscono la vitalità e le opportunità’, ma la criticano di continuo. Più che altro l’odio – un rancore misto ad invidia – è rivolti agli abitanti, piuttosto che alla città stessa. Agli occhi del resto dei cittadini Israeliani, gli abitanti di Tel Aviv “vivono in un film”, in una bolla, e sono completamente estranei alle problematiche sociali, politiche, economiche e culturali del resto del Paese. L’immagine che i cittadini della periferia hanno degli abitanti di Tel Aviv è di giovani benestanti e ingenui che passano le loro giornate nei caffè. Borghesi di sinistra che non si sporcano le mani, che non devono far fronte a problemi di alcun tipo e che vanno al mare e alle feste durante la guerra, quando i loro coetanei sono al fronte. E così spesso ci troviamo a fare da capro espiatorio alle frustrazioni della popolazione Israeliana. E in fondo, è vero che ce ne stiamo giornate intere seduti ai caffè. A leggere, chiacchierare, scrivere, discutere di politica, progettare, e molto spesso a lavorare. Tel Aviv ci da l’impressione, o forse l’ingenua illusione, che la vita qui possa essere normale, che non siamo sommersi da fiumi di problematiche irrisolvibili, che possiamo vivere insieme, ognuno libero di esprimere la sua identità e i suoi principi, sempre che non infrangano la libertà degli altri. Possiamo sederci ai caffè e discutere di arte come in una qualsiasi capitale Europea, godendoci il fascino del Medio Oriente e ignorando l’odore degli escrementi.
La mattina, il caffe’ lo bevo spesso sotto casa, da Cafelix, il bar di zona in un angolo del mercato di spezie Levinsky. Il mercato Levinsky fu fondato da immigrati greci di Salonicco negli anni trenta e oggi è noto per le sue botteghe di spezie gestite da signori di mezz’età e giovani che pian piano popolano sempre più la zona, appropriandosene in maniera forse un po’ prepotente. Quando arrivo la mattina assonnata e non ancora pronta ad affrontare la giornata di lavoro o studio, Niri mi accoglie sempre con un sorriso e il caffè americano ad aspettarmi.
Niri ha trent’anni, una barba incolta, il sorriso dolce e lo sguardo malinconico. Serve caffè tra abbracci e chiacchiere. Apre il locale alle sette ogni mattina, sceglie la colonna sonora della giornata e aspetta i clienti, per lo piu’ giovani artisti e freelance di zona che del locale hanno fatto il loro secondo ufficio. Di tanto in tanto la mattina presto al bar arriva Tamar sulla sua bici rossa, e la giornata di Niri s’illumina di un sorriso più intenso. Niri fa il cameriere per guadagnarsi da vivere, ma in realtà sogna di fare film sulla cultura di gruppi sociali emarginati. Di tanto in tanto si occupa anche di video art, s’improvvisa tecnico del suono o delle luci o
anche dee-jay. Il mercoledì, suo giorno libero, si alza con calma e cerca di trovare ispirazione per il suo prossimo film. Non è facile rimettersi in gioco dopo che il comitato universitario ha bocciato il suo ultimo progetto, un cortometraggio che avrebbe dovuto garantirgli la laurea. Lui e Shani, sua inseparabile collega con cui ha realizzato tutti i progetti cinematografici durante il corso universitario alla rinomata Accademia d’Arte Betzalel, hanno prodotto un film che i professori hanno definito “un insulto al talento dei due giovani artisti”. Agli occhi di Niri e Shani invece, il loro ultimo film è sovversivo e persino in qualche modo geniale. Del loro cortometraggio finale i due vanno orgogliosi, anche se da studenti eccellenti li ha ridotti a non aver portato a termine il corso di laurea.
La trama del corto è relativamente semplice: nell’ingresso di un palazzo della parte sud della città, un giovane condomino trova ogni giorno escrementi umani. Dopo una breve indagine scopre che il colpevole è un vagabondo di zona. Infastidito, il giovane si mette alla ricerca del senzatetto con l’intenzione di convincerlo – con le buone o con le cattive – a smettere di usare l’ingresso del condominio come propria toilette. La scena fulcro del cortometraggio riporta una discussione tra il giovane e il barbone e termina con il fermo rifiuto da parte del senzatetto di defecare altrove. Non bastasse, il senzatetto invita ironicamente il giovane a riflettere sul senso lato della presenza, e dell’impossibilità di sbarazzarsi, della merda all’entrata del suo palazzo.
Questa l’idea di Niri e Shani, basata su fatti reali, e nettamente bocciata dai professori. Una situazione tragicomica, eppure cosi tipica di Tel Aviv: l’incontro tra un giovane e un uomo di strada, la situazione surreale, l’attenzione minuziosa all’aspetto decadente e improbabile del sud della città… e la merda, che anche se spesso facciamo finta di non vedere, non ci si scrolla di dosso.
Così da parecchi mesi Niri è demotivato, quasi depresso e di sicuro senza l’ispirazione per produrre qualcosa di nuovo. Quando la mattina al caffè arriva Tamar, la malinconia si fa un po’ più lieve. Tamar ha ventisette anni, gli occhi a mandorla e un corpo da sballo. E’ audace, sicura di se e persino un po’ arrogante. Si è laureata a pieni voti in Antropologia e Studi Africani e dirige la rete di asili per i figli dei rifugiati africani a sud di Tel Aviv. Prima di andare al lavoro, viene quasi tutte le mattine a bere il caffè da Cafelix e ultimamente tra lei e Niri è nata un’intesa particolare. E’ ormai più di un mese che le loro chiacchiere mattutine si sono dipinte di una nuova sfumatura romantica, eppure nessuno dei due osa fare un altro passo in avanti. Così funzionano i (non) corteggiamenti della nostra generazione. Si tessono su una serie di taciti accordi che richiedono di mostrare interesse, ma mai troppo. A volte sembra di partecipare a una gara di apatia; le relazioni si sviluppano su strategie di gioco delicate e senza vincitori. Guai a fare gesti troppo espliciti, a mostrarsi troppo esposti. La regola principale è correre sull’onda della spontaneità ed è assolutamente vietato fare programmi in anticipo o pensare che la relazione possa prendere una piega più seria. E’ possibile che le cose diventino serie in modo inaspettato ma non è ammesso mostrarsi troppo dediti o coinvolti. La verità è che possiamo raccontarcela quanto ci pare, ma tutti alla fine vogliamo innamorarci. Il problema è che inseguiamo un’idea di amore, senza realmente essere in grado di raggiungerlo. E così si finisce per rimanere soli.
Ultimamente poi va di moda l’ecstasy, più comunemente conosciuta ai giorni nostri come MDMA. La chiamano anche la droga dell’amore poiché amplifica i sensi e a quanto pare simula lo stato di benessere successivo all’orgasmo. Per superare il timore di esporsi sul serio e correre il rischio di amare, i giovani fanno spesso ricorso a sostanze stupefacenti. Alle feste sulla spiaggia, in discoteca, ai matrimoni, girano bottiglie con pastiglie diluite nell’acqua. Farsi di MDMA fa parte delle consuetudini del week-end dei giovani. Ma l’amore delle droghe non dura più di qualche ora e, a quanto parte, il giorno dopo ci si sente di merda.
Mentre le relazioni romantiche finiscono spesso per farci affondare nella solitudine, accade che in città si sviluppino di frequente dinamiche che ci fanno sentire parte di una comunità, pur fittizia che sia. Capita spesso che nei dieci minuti di strada tra il mio appartamento e Cafelix, incontri vari visi conosciuti con cui scambio un semplice saluto o con cui mi fermo a chiacchierare per lunghi minuti. C’è Benny con la sua bottega di gazzose decorata con piante di aloe vera, Adam proprietario di un colorificio e appassionato lettore di palmi, nonché’ promulgatore di grandi massime sulla vita, Noa nipote di lontani parenti e sofisticata conduttrice radiofonica, Iyar ballerina applaudita a livello internazionale, ci sono Eleonora e Flavio compatrioti e musicisti che abitano di fronte a Cafelix, Moshe e Marina architetti conosciuti nella lontana India e rivelatisi vicini di casa, Amir imprenditore e proprietario di “Studio Naim”, studio di yoga e danza che frequentano tutti gli abitanti della zona, Maria, immigrata russa trasferitasi a Tel Aviv per amore che gira con il cordless del bar dove lavora anziché’ il cellulare. Ci sono anche Sima la prostituta narcomane, Hagai che raccoglie bottiglie vuote per strada, i bambini vivaci degli asili che dirige Tamar e i miei colleghi di lavoro, con cui anche fuori dall’ufficio finisco per parlare di politica. Ci sono familiarità e vita di quartiere e la piacevole consapevolezza che se anche ogni tanto scendi in strada in una giornata un po’ storta, trovi il sorriso di un volto conosciuto. Tel Aviv sa essere anche piacevolmente intima.
Vivere a Tel Aviv significa anche avere il prezioso privilegio di essere ad un passo dal mare. Al mare ci vado spesso, ogni venerdì d’estate, alcune volte anche d’inverno, all’ora del tramonto. Mi do appuntamento con gli amici oppure ci vado da sola, dato che il più delle volte posso essere certa di incontrare sorrisi conosciuti anche sul fazzoletto di spiaggia a ridosso di Yafo. Al tramonto il cielo si tinge di rosso, il mare è calmo, i cani si rincorrono e sollevano sabbia, le donne arabe entrano in acqua completamente vestite e felici. Noi ci godiamo il sole che si corica sul mare in silenzio, la luna che si fa più alta in cielo, gli amici assorti intorno. L’ora del tramonto al mare equivale alla felicità.
Di media ogni due anni, Tel Aviv perde il suo fascino. Succede quasi sempre d’estate: scoppia la guerra. E d’improvviso tutto si colora di nero; scura e pesante la guerra ci invade la quotidianità. Durante l’ultima operazione nel 2014, ci ha svegliato ogni mattina con prepotenza a suono di sirene, buttandoci giù dal letto e facendoci precipitare sul pianerottolo, sotto la rampa delle scale, avvolti in un lenzuolo tra i condomini in mutande. In quel periodo uscivo con Tom, un tipo speciale dai riccioli castani e l’intelligenza audace che ascoltava Bob Dylan e faceva politica. La mattina uscivamo sul pianerottolo tenendoci per mano e aspettavamo gli altri condomini: la ragazza con le crisi di panico, quello del piano di sopra che arrivava sempre all’ultimo secondo prima dell’esplosione e quello della porta accanto che si presentava ogni giorno con una ragazza diversa. Stavamo lì, zitti, in piedi, mezzi nudi, ad aspettare che l’esplosione interrompesse attimi di silenzio infiniti. Bum. Il colpo del missile intercettato rimbombava nel palazzo, come una scossa di terremoto. Rimbombava anche nei nostri giovani corpi andandosi ad aggiungere alla lista di traumi che noi tutti ci trasciniamo dietro senza troppa consapevolezza. Pochi kilometri più a sud a Gaza, le sirene non suonavano, le bombe esplodevano e di posti dove rifugiarsi quasi non ce ne erano. In due parole: l’inferno vero.
Tom le sirene le odiava, come odiava la guerra. Ma non come la guerra la odiano tutti, lui proprio non la poteva sopportare. Ovviamente nessuno la può sopportare, eppure tutti in qualche modo la sopportavano. Tom voleva solo andarsene. Prendere un aereo e andare da suo fratello a Parigi. Senza sirene, senza morti e senza il panico quotidiano.
Quell’estate andavamo insieme alle manifestazioni, per darci forza, per non lasciarci schiacciare dalla tristezza e arrenderci ad accettare lo schifo della guerra. E perché’ quella guerra sporca non avrebbe risolto nulla, solo incrementato l’odio e i morti. In piazza, la realtà si faceva ancora più oscura di quanto già non fosse. Ci si trovava alle 20.30 in piazza Habima in qualche centinaio, con slogan di pace: “Ebrei ed Arabi si rifiutano di essere nemici”, “A Gaza e a Sderot i bambini vogliono vivere”, “Non c’è pace, non c’è sicurezza, questo governo è un fallimento”. Alle 21.00 la sirena ci coglieva di sprovvista e ci rifugiavamo in fretta nel parcheggio sotterraneo della grande piazza. Alle 21.30 arrivavano gli estremisti di destra, l’odio negli occhi, ci strappavano gli striscioni di mano e ci minacciavano con violenza. Nella confusione degli allarmi eravamo tutti dispersi e non c’erano poliziotti a difenderci da quei fanatici. Così c’è stato anche chi le botte le ha prese davvero. Altri traumi di quell’estate così scura.
La guerra porta con sé paura, desolazione, e depressione. E soprattutto un dolore lacerante. E’ come se un’enorme sanguisuga si aggirasse per la città succhiando le energie di tutti. Senza riguardo. Le persone qui in Israele si ripetono a vicenda in una sorta di mantra che “andrà tutto bene”. Così lo spirito del Paese ci costringe ad andare avanti e accettare la realtà della guerra. Il fatto è che non va tutto bene per niente. Quando c’è la guerra fa tutto schifo e incredibilmente paura. Ma la situazione fa schifo anche quando la guerra non c’è, solo che è più facile dimenticarsene. Nei periodi in cui la guerra non ci invade la vita in maniera così travolgente, la maggior parte dei cittadini si nasconde dietro un dito e si dimentica del conflitto. Le persone vogliono vivere la loro vita in modo normale, andare al ristorante, al mare, a una mostra. Stare con i propri cari, godersi le cose belle della vita. Fino a quando non esplode un altro autobus, non viene accoltellato un passante, rapito un soldato; fino a che i missili non colpiscono i villaggi limitrofi alla striscia di Gaza o i nostri connazionali non bruciano un adolescente arabo. Solo allora gli Israeliani si ricordano che siamo inesorabilmente nella merda, come ricordava il senzatetto del film di Niri; inconsciamente ci siamo arresi a un destino senza pace e senza soluzioni. Occupiamo da ormai quasi 50 anni un altro popolo, la nostra società diventa sempre più violenta, crescono l’odio, il razzismo e l’intolleranza. La maggior parte di noi si è arresa a vivere in uno stato di guerra perenne che distrugge noi, quanto i Palestinesi.
Noi attivisti di sinistra che ancora ci battiamo per porre fine all’occupazione e cercare una soluzione a questo maledetto conflitto, siamo ormai una minoranza ostracizzata. L’israeliano medio ci considera dei traditori e come gli Arabi Israeliani, non siamo esenti da minacce e violenze. Essere pacifisti nel 2016 nel contesto del conflitto Israelo-Palestinese equivale a combattere contro i mulini a vento di Don Chisciotte. Siamo in balia di governi e politici che invece di battersi per offrirci un futuro, una speranza, ci lasciano a marcire nella disperazione e nell’opprimente convinzione che la pace non ci sarà mai. Che razza di vita è, senza prospettive per il futuro, senza lungimiranza, ottimismo, speranza?
Quando la realtà è così dura e difficile, mi sembra sempre che sia indispensabile amarsi più intensamente. Stare più vicini, uniti. E’ forse per questo che noi tutti cerchiamo sprazzi di vita comunitaria, momenti in cui possiamo sentirci parte di un destino condiviso, che in ogni angolo di città c’è una nuova iniziativa, che i giovani fanno uso di droghe che amplificano i sensi e che siamo alla continua ricerca di un nuovo progetto che ci faccia sentire vivi, particolari e che dia un senso alla nostra quotidianità. Sarà forse una forma di escapismo, ma è il nostro modo per far fronte a questa realtà che è dura e entusiasmante insieme.