Vite migranti costrette in un database
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“I had no choices”. Non è la prima volta che Nasir racconta la sua storia. “I had no choices”, ripete. L’Afghanistan è lontano. I Balcani sono lontani. Non ci sono più i segni della boscaglia, la scabbia, le ferite della fuga, i lividi delle cariche della polizia. Cucendo le parole nelle frasi, e le frasi nel racconto, Nasir allinea i dossi e le storture del suo viaggio verso nord, dalla Turchia alla Grecia, alla lunga risalita a piedi dei Balcani. Macedonia, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Slovenia. Infine Trieste. A quel punto era finalmente vicino alla Germania, dove suo fratello lo stava aspettando da più di due anni. Il peggio era passato, tutti i confini più violenti alle spalle. Ma la polizia di frontiera lo aveva intercettato sul Carso e portato in una stanza della caserma di Fernetti. Dopo ore di attesa, era entrato un poliziotto insieme a un ragazzo dai tratti asiatici e lo aveva interrogato, minacciando di respingerlo in Slovenia. Nasir, in effetti, non aveva avuto scelta: aveva dichiarato il suo paese di origine, il nome dei familiari; aveva rilasciato le impronte digitali e si era fatto fotografare. “Do you have a passport?”. No, non aveva un passaporto. Dopo la fuga dall’Afghanistan, la rotta lo aveva gradualmente spogliato di tutti i suoi effetti personali, e forse anche dell’identità, dissolta nei Balcani, tra quei tendoni bianchi dei campi profughi, disposti uno di fianco all’altro come in un manicomio postmoderno.
Nella confusione di quella stanza, percorsa senza sosta da agenti e migranti, gli avevano parlato di richiesta di asilo, status di rifugiato, permessi di soggiorno, ma nulla gli era parso davvero chiaro. “Dacci i tuoi dati e noi ti facciamo uscire”, aveva detto il poliziotto. Il nome, il paese di origine, il nome completo della madre e del padre: le informazioni erano scorse una dietro l’altra, incalzate dall’automatismo di quel viavai. Alla fine, Nasir era stato indirizzato al Centro di Accoglienza Straordinaria di Udine. Ma ben presto aveva preso un treno per Amburgo.
Nelle maglie dei regolamenti
I movimenti dei migranti che entrano in territorio europeo sono monitorati da molteplici soggetti, dalla Polizia di frontiera che li intercetta ai confini agli operatori dei centri di prima accoglienza, al Dipartimento delle Politiche Europee che gestisce le banche dati relative alle migrazioni. L’obiettivo primario delle politiche europee è limitare il più possibile i “movimenti secondari” dei migranti, ossia il loro attraversamento irregolare dei confini interni dell’Unione. A partire dalla sua istituzione nel 2000, il sistema Eurodac risponde dunque all’esigenza, espressa nella Convenzione di Dublino, di “individuare gli stranieri che hanno già presentato una domanda di asilo in un altro stato membro”. Con questo obiettivo, gli stati membri identificano i richiedenti asilo raccogliendone i dati. Mediante un confronto con il materiale presente in Eurodac, è possibile verificare se un richiedente asilo o un cittadino straniero abbia già presentato una domanda in un altro stato o se sia entrato del tutto irregolarmente in territorio europeo.
In questo modo, i migranti restano ancorati alla tentacolare macchina che monitora i loro movimenti e ne ricostruisce le traiettorie. Chi attende la regolarizzazione viene chiamato a raccontare la propria storia. Ma il sistema che impietosamente trattiene dati e impronte memorizza profili, non storie, e l’esigenza di controllo alla base di questa tecnologia, nel profilare le persone, ne strozza la componente viva, e le motivazioni per cui si muovono.
Su consiglio di suo fratello, una volta arrivato in Germania Nasir aveva chiesto asilo e ottenuto un permesso di soggiorno temporaneo con cui restare nel paese fino al momento dell’esito della sua richiesta. Sei mesi dopo, la notifica: doveva tornare in Italia.
È il regolamento di Dublino III, una disposizione normativa attuata nel 2013 “per regolare i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale”. Il regolamento impone che, fatte salve alcune categorie, un richiedente asilo rimanga nel primo paese in cui ha presentato la domanda fino all’ottenimento di un esito della stessa: esprimendo la sua richiesta di asilo in Italia, durante quel primo colloquio alla frontiera triestina, Nasir avrebbe dovuto attendere il completamento della pratica in territorio italiano. Ma nessuno lo aveva informato al riguardo. E anche se ciò fosse accaduto, l’obbligo di restare a Trieste avrebbe significato mesi e mesi di attesa, se non anni. In Italia la macchina giudiziaria impone i lunghi tempi delle questure e per ottenere la convocazione con la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale talvolta sono necessari più di mille giorni, ai quali si aggiunge il tempo necessario a ottenere una risposta. Imbrigliati in questa rete, i migranti giunti in Italia vivono sospesi nel tempo estenuante dell’attesa, che congela desideri e prospettive.
Frontiere giuridiche e identità respinte
I dati rivelano e al contempo negano. Una volta dublinato, Nasir è stato rimandato a Trieste, pur avendo un fratello regolarmente registrato e residente in Germania.
“In realtà, il regolamento Dublino avrebbe dei criteri gerarchici in presenza dei quali l’attribuzione della valutazione della domanda al paese di primo ingresso decade”, spiega l’avvocata Caterina Bove, esperta in diritto dell’immigrazione e di asilo. “Il problema è che questi altri criteri sono estremamente specifici”. Il ricongiungimento familiare, ad esempio, giustificherebbe un trasferimento della pratica in un altro stato membro, ma diventa preminente rispetto al criterio del paese di primo accesso soltanto quando riguarda il coniuge e i figli. “Già il ricongiungimento con un fratello diventa molto difficile”, continua Bove. “Di solito lo si ottiene se vi è un comprovato bisogno di assistenza da parte di uno dei due”.
Un punto chiave della vicenda di Nasir è il modo in cui i dati relativi alla sua identità, provenienza e richiesta di protezione sono stati raccolti. Esiste quasi una doppia rotta migratoria, quella della persona che parte e cerca di raggiungere un certo luogo in Europa e quella, più nascosta e subdola, dei suoi dati personali, il cui rilascio avviene in momenti precisi ma senza che la persona ne abbia chiari i significati, gli usi, le finalità e i rischi.
“Il regolamento di Dublino prevede che si svolga un’informativa legale, cioè che si spieghi alla persona migrante cosa ne sarà dei dati che rilascia, se questi dati verranno condivisi con altri paesi. Ma se l’informativa non viene svolta, non è previsto oggi alcun risarcimento”. Nasir è stato dunque espropriato di quelle informazioni senza la dovuta trasparenza né sulle ragioni di tale cessione né sulla destinazione dei suoi dati, né sulle implicazioni per la sua richiesta di asilo.
Una volta raccolti, i dati di Nasir non sono rimasti nel faldone di un distretto di polizia, ma sono stati salvati all’interno del sistema che categorizza e organizza le informazioni sui cittadini di paesi terzi che giungono in Europa. Le sue impronte digitali sono state registrate in Eurodac, il gigantesco database delle impronte di chi intende presentare richiesta di asilo. La vera potenza di Eurodac è l’interoperabilità da parte di tutti gli organi di polizia europei – la capacità, cioè, di condividere dati in simultanea.
“Quando chiedi asilo in uno stato membro e lo formalizzi, i tuoi dati vengono inseriti nella categoria 2 di Eurodac: questo consente a tutti gli altri stati membri di vedere gli stessi dati e di capire se eri già stato identificato”, continua Caterina Bove. “Se invece un migrante si registra in uno stato membro senza fare richiesta di asilo, i suoi dati non saranno visibili agli altri paesi UE. Ma questa è un’arma a doppio taglio: in tal caso, si resta irregolari e si rischia l’espulsione dall’Unione”.
I dati raccontano, svelano, mentono. Una procedura disattesa, una prassi saltata possono rovesciare la forza dei dati identificativi nello strumento della tua condanna. Un migrante giunge alle coste di Lampedusa; gli mettono foglio e penna tra le mani senza altro aggiungere. “Lo chiamano «foglio notizie»”, spiega Bove. Si tratta di un foglio da compilare con nome, cognome, nazionalità e il motivo dell’arrivo in Europa. Le possibili alternative da barrare sono lavoro, famiglia, asilo, altro. “Ma nessuno ti spiega cosa stai compilando”. Il ragazzo scrive quello che riesce, è stanco e spaesato, barra la voce “lavoro” perché, certo, dopo la fatica fatta per arrivare intende trovare un lavoro in Europa, e impegnarsi. Con le informazioni rilasciate, verrà riconosciuto come migrante economico e avviato automaticamente verso una procedura di espulsione. “E magari aveva il diritto di fare richiesta d’asilo, ma non conosceva il linguaggio per esprimerlo”, continua Caterina Bove. “Un foglio a crocette segna il tuo destino”.
Nell’infrastruttura tecnologica delle migrazioni
L’interoperabilità non si limita a Eurodac. Con un regolamento del 20 maggio 2019, la Commissione Europea ha aumentato il controllo alle frontiere rendendo interoperabili tutti i sistemi di informazione dell’UE. Il braccio operativo è Eu-Lisa, un’agenzia con sede a Tallinn. In pochi anni, Eu-Lisa, in alleanza con Frontex, si è assunta lo sviluppo e la gestione di tutti i sistemi informatici su larga scala relativi alle frontiere e alle migrazioni, “24 ore su 24, 7 giorni su 7”.
La rete della sorveglianza si estende e si infittisce; nell’aprile del 2020, Eu-Lisa ha assegnato un appalto da 302,55 milioni di euro per sviluppare la parte di biometria di Entry/Exit System (EES), il programma di registrazione automatica dei cittadini di paesi terzi che attraversano i confini europei; ed è in fase di sviluppo lo Shared biometric matching system (SBMS), un sistema condiviso di biometria. Secondo i dati riportati nel piano triennale licenziato dal consiglio di Eu-Lisa, il sistema è costato 25,6 milioni nel 2021 e 71,7 nel 2022, e ne costerà 19,45 nel 2023. Stando ai piani, sBMS si sostituirà ai singoli database e svolgerà tutte le funzioni in una, dalla raccolta di impronte digitali a quella dei visti e dei profili dei richiedenti asilo. Questo archivio non conterrà più i dati originali, accessibili all’umano, ma stringhe di codice riferite univocamente all’identità delle persone registrate, e comprensibili agli algoritmi di riconoscimento biometrico che sostituiranno l’umano nelle procedure di identificazione. Philippe Barreau, vicepresidente di Idemia (l’agenzia che si è aggiudicata l’appalto insieme a Sopra Steria), lo ha definito “uno dei più grandi sistemi biometrici al mondo”; sBMS integrerà dati, impronte digitali e volti di oltre 400 milioni di cittadini di Paesi terzi. Così, l’Unione Europea si sta dotando di un portale di ricerca che consentirà alle autorità competenti di ogni stato membro di effettuare ricerche simultanee su più banche dati, un vero e proprio sistema paneuropeo di riconoscimento e identificazione.
Questa infrastruttura suscita perplessità da più parti. Luca Zorloni, web editor di Wired ed esperto di privacy, spiega: “Nel momento in cui l’Europa fa dialogare tutti questi archivi ottiene un nuovo database. Ma l’effetto di questo incrocio, di questo combinare dati presenti in più banche, non possiamo conoscerlo a priori. Questa operazione può penalizzare persone che risultano in uno dei database originari, e che a seguito dell’uso combinato di questi dati potrebbero essere profilate come criminali pur non avendo commesso alcun crimine”.
I migranti, oltretutto, rappresentano una categoria fisiologicamente fragile: nella zona grigia dell’identificazione, il loro status giuridico è ancora tutto da formulare. Dice la sociologa Laura Carrer: “Per ottenere accoglienza in Europa, queste persone si trovano a dover rilasciare informazioni protette dal regolamento sul trattamento dei dati personali, informazioni che qualsiasi cittadino europeo ha il diritto di NON rilasciare. Si tratta di un vero e proprio baratto dei dati personali con l’accoglienza”.
L’infrastruttura tecnologica non fa che amplificare e automatizzare sia le asimmetrie di potere tra i migranti arrivati in Europa e noi cittadini dei paesi ospitanti sia il rischio di criminalizzazione già insito nei gangli delle politiche migratorie dell’Unione.
Salti di specie
Se l’obiettivo dell’interoperabilità dei sistemi è un utilizzo sempre più tempestivo e simultaneo delle informazioni digitalizzate, nella stessa direzione vanno gli sforzi per implementare algoritmi e tecnologie di intelligenza artificiale per automatizzare l’identificazione biometrica. Per sollevare l’umano dalla lunga procedura di confronto tra volti o di raccolta di cartellini segnaletici, tramite le metodologie di machine learning siamo ora in grado di costruire macchine capaci di apprendere e di migliorare automaticamente dall’esperienza. Per l’addestramento, la macchina riceve dei “dati di training”, campioni di dati tramite cui imparerà a rintracciare pattern ricorrenti, a individuare somiglianze, fino a identificare una certa persona dal confronto tra più immagini di volti. Quanto più questi set di dati sono massicci, tanto più la sua abilità di riconoscimento si affina.
Tuttavia, “gli algoritmi di machine learning sono ancora una scatola nera, e di fronte al volto di una persona potrebbero fare scelte imprevedibili o inspiegabili”, racconta Zorloni. I dati di training potrebbero essere insufficienti ad addestrare la macchina, o non sufficientemente rappresentativi della popolazione che l’algoritmo sarà chiamato ad analizzare; se ad esempio il dataset di addestramento è costituito prevalentemente da volti caucasici, rischierà di commettere degli errori nel riconoscere altre categorie di persone perché poco allenato a identificarne i tratti – niente di più facile se parliamo di volti stranieri, con la pelle scura o tratti fisiognomici diversi dal tipico “maschio bianco europeo”.
Il dramma di questi errori della macchina è che sono di difficile diagnosi. “Il rischio principale è legato a possibili bias a bordo di questi sistemi di controllo”, continua Zorloni. “Stiamo impiegando della tecnologia potente e rischiosa per intervenire su aspetti molto sensibili della vita delle persone, senza un controllo delle conseguenze: sappiamo solo che vogliamo arrivare al punto B a partire da A; ma è l’algoritmo a compiere questa transizione, e lo fa tramite percorsi che ci sfuggono.”
Fabio Chiusi, analista specializzato in etica e politiche digitali e autore per Bertelsmann Stiftung e AlgorithmWatch, commenta: “Queste tecnologie sono già implementate sui confini senza una vera regolamentazione. Nonostante si tratti ancora soltanto di trial, è preoccupante il fatto stesso di testare tali tecnologie ancora prima di concordare un impianto normativo.”
Chi custodirà i custodi?
Nel momento in cui i migranti richiedono asilo e si sottopongono al fotosegnalamento obbligatorio, possono rimanere invischiati in database di rei o criminali per il solo fatto di essere “irregolari”. L’archivio di riferimento lo gestisce la polizia criminale ed è il Sistema Automatizzato di Identificazione delle Impronte (AFIS); contiene le impronte digitali e i volti di criminali o sospetti. Un recente studio del Centro Hermes per la Trasparenza e i Diritti Umani digitali, a cura di Laura Carrer e Riccardo Coluccini, dimostra che AFIS ospita anche i dati biometrici dei migranti fotosegnalati. Equiparati a chi ha commesso reati penali, i migranti identificati vengono così criminalizzati di default dal sistema tecnologico italiano.
Non è la prima volta che giornalisti e attivisti cercano di fare luce sulla composizione di questi archivi e sui criteri con cui vengono aggiornati: già nel 2019 un’inchiesta di Wired aveva dimostrato che quasi 8 schedati su 10 in AFIS sono stranieri – una cifra sproporzionata se consideriamo che AFIS raccoglie rei intercettati sul territorio italiano. Stando agli autori dell’inchiesta, “una tale sproporzione potrebbe far temere per un pregiudizio del sistema stesso”.
Il problema dunque ha una natura duplice: tecnologica e giuridica. Se non sappiamo come le macchine sono state addestrate e con quali dati, il rischio di sbagliare è molto alto. D’altra parte, i meccanismi giuridici faticano a tenere il passo dei cambiamenti dell’ultimo ventennio nella gestione dei dati personali. È possibile ammansire questa grande, inedita bestia?
Dati ciechi
Nasir adesso vive stabilmente a Trieste. Costretto a tornare in Italia, ha atteso l’esito della sua domanda di asilo, che dopo vari mesi si è conclusa con parere favorevole. Il giorno dell’audizione il commissario lo aveva chiamato. “Nasir Ali, Afghanistan”. Quel nome: Nasir Ali. Aveva continuato a rimbalzare da Trieste ad Amburgo a Roma, e poi di nuovo a Trieste, ogni volta rimpolpato di un pezzetto della sua storia.
Durante la nostra intervista, Nasir ha accennato alla famiglia lasciata nel Badakhshan. In quella parte del mondo, quando il vecchio Rashad lo chiamava per le preghiere, nel pronunciare il suo nome interpellava la sua identità per intero, senza zone d’ombra e senza strappi, la sua identità si radicava per metri nella terra arida. La traversata dei Balcani aveva messo in discussione quell’identità, distrutta come la carta del suo passaporto tra i boschi della Croazia.Nonostante l’esito positivo, tra la vicenda ricostruita davanti alla Commissione e l’esperienza di Nasir è rimasta una distanza irriducibile – quella che passa fra Trieste e le montagne di casa, o fra Trieste e Amburgo.
“In un sistema ideale”, afferma Caterina Bove “si dovrebbero considerare la volontà e le ragioni individuali delle persone. L’attuale sistema di asilo non considera affatto questi elementi”. Ma non solo i regolamenti negano e stravolgono le ragioni profonde che spingono le persone a spostarsi; le tecnologie per limitarne i movimenti aprono scenari inquietanti sui quali un dibattito pubblico non è neppure cominciato, a conferma della percezione diffusa che coloro che arrivano in Europa siano esseri umani con meno diritti.