Visti da… Intervista a Mario Monicelli

Di Nicola Villa e Fabio Piccoli con Mario Monicelli
Riproponiamo questa intervista apparsa sul primo numero de Gli asini, luglio-agosto 2010.
Prima di parlare dei giovani vorremmo chiederle qualcosa sulla sua esperienza scolastica, qualche dato biografico: qual è stata la sua esperienza con l’educazione? È servita la scuola a orientarla verso la strada che ha poi intrapreso o è stata un’esperienza che ha trovato soffocante e reprimente?
Sono andato a scuola negli anni venti e trenta, proprio all’inizio del secolo, e ne ho cambiate molte di scuole. È stata una esperienza senz’altro positiva, benché non ricordi nulla, e sicuramente mi ha aiutato a capire quale fosse la mia strada. La scuola, com’era in quegli anni, era molto efficace. Io però non imparavo nulla, ero refrattario, somaro, non amavo studiare. Nonostante ciò, al termine di quindici anni di istruzione, uscito dalle scuole, anche a me, sebbene fossi uno schifo di scolaro, la maturità classica ha dato una formazione e una cultura molto forte, oggi incredibile, sebbene fosse solo di stampo umanistico e non scientifico. Il fatto che fosse così pregnante e approfondita serviva, infatti, anche a chi aveva una mentalità scientifica. Era la riforma Gentile, il famigerato Gentile ucciso dai partigiani. Quando fu ammazzato io brindai con degli amici in un’osteria, ma ora me ne pento, perché è stato un grande ministro dell’istruzione.
Oggi è impensabile un tipo di istruzione simile a quella, molto dura, che lei ha sperimentato; cosa pensa di quei modelli pedagogici? Come vede ora quella dialettica molto forte tra autoritarismo e autorità, tra austerità e disciplina?
Nella scuola c’era un rispetto verso l’insegnante totale, una completa attenzione. In piedi, rispettosi, noi non si parlava se non si era interpellati, e poi c’erano le punizioni. Da bambino, a Roccasecca, in quarta elementare, ricordo che noi, che eravamo poi una piccola classe, solo sette o otto bambini, quando commettevamo una infrazione offrivamo i palmi delle mani, e l’insegnante, che ricordo era una donna, ci frustava le mani. Se le rigiravi, arrivava una nuova punizione e una nuova frustata. Inoltre tutto quello che l’insegnante aveva da ridire su di noi tentavamo di non farlo arrivare alla famiglia anche con dei trucchi, perché altrimenti si veniva puniti anche a casa. Era una catena.
Se dovesse delineare, a grandi tratti, il periodo della sua giovinezza, confrontandolo con l’oggi, quali mutazioni balzerebbero agli occhi? Si potrebbe affermare che il periodo in cui lei ha vissuto era più difficile ma anche più semplice, per paradosso, per un giovane che volesse crescere formando la sua personalità in modo autonomo e indipendente?
Era sì più semplice, soprattutto da un punto di vista sociale e politico, perché l’Italia era fascista, era un paese rurale, di contadini, una nazione arretrata. Con il fascismo iniziò l’alfabetizzazione dell’Italia: prima il tasso di analfabetismo era del 70 per cento! Allora c’era il rispetto per la cultura, per chi sapeva qualche cosa, anche solo per chi sapeva parlare, e c’era una tale soggezione perfino per il maestro di scuola, considerata una persona irraggiungibile: Mussolini, ma anche Milani, diceva che “chi sa parlare comanda”. Non che quel periodo fosse poi così felice, però. Da lì è nata la classe dirigente che ha fatto la guerra: io sono del 1915, ho fatto la maturità classica nel 1933-34 e dopo tre o quattro anni da studente universitario c’è stata la guerra. Noi eravamo la classe dirigente perché con un diploma di maturità classica, si aveva in mano il mondo. Se lo dichiaravi eri ritenuto una persona da non perdere, trovavi lavoro, avevi rispetto. Se poi ti iscrivevi all’università eri parte della classe destinata a governare l’Italia. Ed eravamo tutti fascisti, io per fortuna no, ma si può dire che eravamo tutti fascisti.
Lei ha ripetuto, in diverse occasioni pubbliche, che la condizione attuale assomiglia a quella del ventennio, si potrebbe dire a un simil-fascismo. Però le differenze esistono. In cosa differisce la condizione dei giovani italiani di oggi dai giovani fascisti di ieri?
La grande differenza, la tache, la macchia dei giovani di oggi è che non credono a niente, solo a fare denaro, a sopraffare gli altri, a ottenere visibilità a qualunque prezzo. Sono privi di responsabilità, sono sbandati, privi di scrupolo, disposti a qualsiasi deviazione. Allora erano fin troppo inquadrati, erano fascisti! Sono andati in guerra pensando di divenire padroni del mondo! Oggi tali follie sono finite, ma nulla si è sostituito a esse, zero, la più assoluta putredine.
È possibile vedere nell’educazione una medicina per questo tempo in apparenza disperante? Ci sono degli esempi di epoche virtuose, anche nel nostro recente passato, da cui attingere e ispirarsi per un cambiamento futuro?
Non so. Nel ’68, i giovani, allevati dai genitori che erano stati educati nella maniera che stavo ricordando, stanchi di vivere una vita di privazioni e sottomissione – con il benessere, i mercati pieni, il denaro che scorreva, il riscaldamento, il refrigeratore, l’acqua calda –hanno detto basta a questi genitori che vivevano in maniera povera e li hanno convinti a cedere, a dare loro libertà, e tutto si è sbracato. Tali genitori, i vostri nonni, hanno ceduto alle prime resistenze e hanno lasciato liberi i vostri padri che sono stati corrotti dal denaro, dalla libertà, dal divertimento. Così, i vostri padri hanno insegnato a voi questa vita facile, fatta di sopraffazione, di seconde case, automobili, motorino, vacanze. Di corruzione in corruzione si è finiti in uno sfacelo, sebbene dopo due generazioni, che non sono poche, sono circa sessant’anni.
Allora però esisteva una critica forte, dei figli contro i padri, sul piano del benessere e dei consumi conformistici. Il dato più preoccupante di oggi è che i figli sono anche più reazionari dei padri, senza soluzione di continuità, anzi con una continuità che spaventa.
È vero, ed erano critiche anche culturali quelle di allora. Con il dopoguerra l’Italia si era riscattata dall’Italia dei secoli precedenti, povera e analfabeta. In un certo senso, il frutto poteva essere questo, con queste parole chiave: “Andiamo in giro, guardiamoci intorno, adesso basta, studiamo tutti, tutti all’università”. Questo è stato positivo, ma ha al contrario reso la vita facile. In effetti il benessere ha reso tutti consapevoli di quello che si era accumulato. Gli italiani, grandi risparmiatori, avevano risparmiato per due generazioni, e ora vi state mangiando tutto. L’ottantasei per cento degli italiani sono proprietari della casa in cui abitano, per esempio. Tutti sono proprietari della casa in cui abitano e alcuni hanno la seconda casa, quindi nessuno finirà mai in mezzo a una strada. Così, ora si va tutti alla rovina dopo due generazioni di dissipazione. Sono drastico, ma d’altra parte è normale, ed è giusto, che non tutti siano d’accordo. Io appartengo a una generazione che non c’è più, in fin dei conti.
Ai giovani insoddisfatti di oggi, a chi non si trova a suo agio nel presente e non vede strade per cambiarlo, lei cosa consiglierebbe di fare? Quali vie potrebbero essere percorribili per cambiare, per reagire?
Radunatevi: mettetevi insieme, per cambiare la natura della società. Abbiate interessi sociali, chiedetevi perché si vive così, e se non siete d’accordo, se vi sentite offesi, unitevi in nuclei di fusione. I toni non devono essere troppo convincenti, talvolta bisogna usare le maniere forti, drastiche, essere convincenti non sempre è opportuno. Si ha paura di dove si sta andando, siamo sull’orlo di un vulcano. Per fare un esempio paradigmatico, mezzo milione di persone abitano in case e villette sul Vesuvio, sul cratere di un vulcano vivo, che si aspetta solo che esploda. Tutto è abbandonato in una maniera miserabile e senza fondo. Nessuno dice nulla. Io sono per l’azione, non conosco, però, i problemi di aggregazione di oggi.Sono comunista e bolscevico, una razza estinta: sarei andato alla morte nel Palazzo d’Inverno, sarei morto pur di garantire un futuro migliore alle generazioni successive.
Con i suoi film lei è stato un grande antropologo ha individuato e fatto ironia di quelli che erano i peggiori caratteri nazionali. Se avesse la possibilità di fare un film sui giovani d’oggi quali caratteri metterebbe in luce?
Naturalmente la voglia di sopraffare gli altri. Ma fare ironia è difficile, l’ironia comporta un certo affetto della situazione di cui tu ridi perché ti è cara. L’ironia è una ninfa gentile, serve a far capire e a correggere ma con gentilezza e intelligenza. Oggi non serve. Come si può fare ironia su Cicchitto, o sul ministro della Giustizia? Si può fare solo sarcasmo e parodia. L’ironia si poteva fare invece in quegli anni in cui la classe dirigente sembrava stesse rinnovando l’Italia dal selvaggio in cui era vissuta per settecento anni, e l’ironia aveva allora un senso, ma oggi su cosa farla?
C’è spazio per pensare che questo sia tra i periodi più bassi che l’Italia abbia visto, dunque?
Ahi, serva Italia!, diceva chi ha inventato l’italiano, chi ha scritto la Commedia, la quale comprende le cose dalle più turpi e oscene a quelle fini, sottili. Serva era l’Italia e tale è rimasta per settecento anni, fino a quando, persa una guerra e scacciata una dittatura, ci siamo trovati a rimettere in piedi questa nostra penisola, che adesso sta tornando selvaggia. Sono così drastico, comunque, perché anche se qui si parla solo dell’Italia, io ritengo che l’Occidente intero sia in queste condizioni: l’Italia è solo l’anello più basso e infame, ma è tutto l’occidente che va in rovina. Sotto l’ondata di altri popoli (direi razze anche se non si può dire) forse migliori, l’Occidente sta scomparendo. Nei secoli ha vissuto a scapito di innumerevoli razze, sfruttandole, ma piano piano non ce la sta più facendo. Perciò la cosa è epocale e più grande della sola situazione italiana. L’Italia, che è sempre l’ultima, sarà la prima ad essere travolta, spero.
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