Vecchie e nuove questioni ambientali in Abruzzo
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Ripubblichiamo un articolo del 2022, ancora utile al dibattito attuale
Incontro con Piergiorgio Barbetta
L’Abruzzo, un tempo definito il “polmone verde d’Europa”, oggi vede il suo patrimonio ambientale e naturalistico minacciato dai progetti di tre grandi opere. Ne parliamo con Augusto De Sanctis, un ambientalista attivo sul territorio abruzzese da molti anni.
Il metanodotto Sulmona-Foligno
Ho cominciato come attivista per il WWF, diventando poi coordinatore delle oasi per dodici anni. Ho lasciato quell’associazione, in dissenso con scelte – statutarie e non solo – che ho ritenuto negative in primo luogo per l’ambiente. Da ornitologo ho contribuito a fondare la Stazione Ornitologica Abruzzese, una piccola associazione molto attiva dagli anni ’90. Dagli anni 2000, quando è nato il Forum italiano dei Movimenti per l’Acqua Bene Comune, sono impegnato nel seguire tutte le problematiche legate questioni ambientali, dal referendum alle varie attività di denuncia. Sono 35 anni che – da un certo punto di vista purtroppo – faccio l’attivista.
Fra cave, piani regolatori, depuratori, centri commerciali, discariche, ci sono miriadi di questioni ambientali aperte, che restano però confinate in ambito locale. In Abruzzo ci sono mille siti potenzialmente contaminati, con delle punte di diamante come Bussi [località alla foce del fiume Pescara dove per anni sono stati sversati rifiuti chimici molto inquinanti, ndr]. Sono però situazioni più o meno locali che non dicono molto al grande pubblico, anche perché sono problemi diffusi anche in altre regioni. Attualmente tre grandi progetti riguardano invece un livello nazionale o sovranazionale. Sono la ferrovia Roma-Pescara, la variante dell’autostrada Roma-Pescara e Roma-L’Aquila e il metanodotto Sulmona-Foligno. Sono opere ritenute strategiche, con una spesa complessiva preventivata di 13 miliardi di euro.
Il metanodotto Sulmona-Foligno è un pezzo di una rete che si estende dalla Puglia fino all’Emilia Romagna, il Metanodotto della Rete Adriatica. Divide et impera: un conto è fare una valutazione di impatto di un’opera di 600km, un altro è farlo con cinque valutazioni diverse di tratti più piccoli. Poi però davanti all’Unione Europea viene presentato come progetto unitario: ma allora perché tutto il procedimento autorizzatorio e le valutazioni di impatto vengono spezzettate come se si trattasse di opere diverse? Questo è un caso di scuola di salami slicing: spezzettare artificiosamente un progetto unitario per evitare di calcolare l’impatto complessivo.
Sul gasdotto vi sono delle banali considerazioni da fare sulla sua stessa utilità, anche al di là delle considerazioni ambientali. I dati delle strutture pubbliche, come il Consorzio delle Authority dell’Energia del Bacino del Mediterraneo, dimostrano che i gasdotti italiani sono sottoutilizzati rispetto a Francia, Spagna e Germania e agli altri grandi paesi europei. In Italia consumiamo circa 10 miliardi di metri cubi in meno rispetto a dieci anni fa. La punta di consumo è stata nel 2005, con 86 miliardi di metri cubi, ora siamo tra i 74 e i 75. Secondo il Piano dell’Energia, dovremmo scendere a 60 nel 2030 per la de-carbonificazione dell’economia. Se nel 2005 abbiamo consumato quegli 86 miliardi di metri cubi, allora le infrastrutture per gestire quel volume di gas esistevano già. Ma allora perché costruire nuovi gasdotti, quando la rete esistente è già sufficiente? Una rete, peraltro, che dal 2005 ad oggi tra si è ampliata di oltre mille km.
La nostra idea è molto semplice: Snam carica i costi sulle bollette. Queste strutture vengono remunerate a tasso fisso dall’Authority per l’energia, che riconosce a Snam un peso in bolletta per aver realizzato il gasdotto. Chi costruisce gasdotti non rischia nulla dal punto di vista dell’investimento. Una volta realizzato ha una remunerazione fissa che entra dalle bollette. Chi non farebbe un simile investimento? È come mettere i soldi in banca e avere il 7/8% di remunerazione del capitale, senza rischiare nulla. Anche se questo gasdotto non dovesse portare neanche un metro cubo di gas nei prossimi cent’anni, verrebbe comunque remunerato. È un’opera inutile dal punto di vista economico e finanziario che ricade sulle tasche dei cittadini: perché dovremmo pagare in bolletta un investimento che non serve? I gasdotti hanno una vita tecnica di 50 anni. Realizzato oggi, il gasdotto Sulmona-Foligno funzionerebbe fino al 2072. Per quella data dovremmo aver abbandonato le fossili da molti decenni: si tratta insomma di un’opera da dismettere nel giro di pochi anni, salvo il fatto che peserà sulle bollette per decenni.
Ovviamente ci sono anche questioni ambientali. Questo gasdotto attraverserebbe tre crateri sismici con faglie attive. I gasdotti resistono ai terremoti, ma non alle frane e i terremoti scatenano anche quelle. L’occupazione del suolo sarebbe ovviamente imponente e bisogna scavare in aeree idro-geologicamente delicate e vulnerabili. Inoltre il progetto prevede la costruzione della centrale di compressione e di spinta a Sulmona, nella conca della valle Peligna, che dovrà bruciare metano per spingere il gas lungo la rete. Questi però sono problemi locali: bisogna porre anche il problema generale di come produrre l’energia.
Il metano è un gas climalterante molto pericoloso: in Italia è passata la vulgata che sia più verde, ma gli scienziati avvertono che non è sempre così. Il metano, è vero, quando viene bruciato emette meno CO2 per unità di energia prodotta rispetto a petrolio e carbone. Il problema è che lungo la filiera del gas (pozzi; gasdotti; stoccaggi; rete di distribuzione) sono frequenti perdite consistenti di metano non bruciato: queste emissioni sono molto più climalteranti della stessa CO2. Se si tiene conto di queste perdite lungo tutta la filiera, l’impatto del metano è pressoché identico a quello di carbone e petrolio, che annullano il vantaggio delle minori emissioni di CO2. Sui vent’anni, il metano è 84 volte più potente della CO2 nel determinare il cambiamento climatico. Questi calcoli sono stati fatti da studi pubblicati da importanti riviste scientifiche, tanto che nella Cop26 di Glasgow è stato firmato un accordo per limitare queste perdite. È molto difficile operare per tappare tutte le falle lungo la filiera del gas dai pozzi fino alla rete di distribuzione. Dal punto di vista del clima, il metano è una scommessa persa. È un gas killer del clima anche peggio del petrolio e del carbone. Scommettere su nuovi gasdotti va nella direzione contraria rispetto agli accordi di Parigi. Inoltre, a parte le perdite, resta comunque una fonte fossile che emette CO2 quando viene bruciato.
Il fotovoltaico e anche l’eolico possono essere modi per decentralizzare la proprietà dei sistemi di produzione di energia. La ricerca ha acclarato che si potrà arrivare a un tasso di conversione in energia della radiazione solare di oltre il 25% (attualmente siamo al 17% e i primi pannelli avevano un tasso intorno al 13%). Alcuni recenti studi dicono che si potrà arrivare anche oltre il 30%. Da qui a dieci anni i pannelli, già oggi molto efficienti, lo saranno sempre più. Per smontare anche la retorica del “non ce la faremo mai con le rinnovabili, bisogna investire sul nucleare”, io invito ad un esercizio molto pratico: andando sul sito delle valutazioni di impatto ambientale del ministero della Transizione Ecologica si possono consultare i progetti presentati dalle aziende. La pagina della VIA è molto istruttiva: sono progetti che arriveranno da qui a qualche anno e ovviamente non sono certo gli ambientalisti che li fanno! La maggior parte riguarda impianti di produzione di energia eolica e fotovoltaica, con relativi accumuli. La direzione – non solo degli ambientalisti – è quella delle energie rinnovabili, per ragioni di costi e tempi.
Perfino gli Stati Uniti, molto favorevoli all’energia nucleare per via della filiera legata all’apparato bellico, non riescono a far ripartire progetti perché i pannelli costano molto meno e possono essere impiantati in pochi mesi. L’ultima centrale atomica costruita in Europa in questi anni è in Finlandia: è costata quattro volte il costo preventivato, si è partiti da tre miliardi e si è arrivati a spenderne dodici, con tempi di realizzazione triplicati fino a quindici anni. In Francia per le centrali che stanno realizzando, si sono quadruplicati i costi e non sono ancora state messe in funzione. Molte centrali francesi esistenti non possono funzionare, perché la temperatura dell’acqua usata per il raffreddamento delle centrali è troppo elevata.
Poi c’è il tema delle scorie: uno dei problemi, che forse farà sorridere ma che in realtà spiega molto bene la totale insostenibilità della fonte energetica, è quello della lingua in cui scrivere i cartelli con i quali indicare il pericolo di radioattività. Quelle scorie sono pericolose anche per 100.000 anni. Quale lingua o pittogrammi usare, per essere sicuri che vengano comprese dai posteri ed evitare che entrino in un sito contaminato dal plutonio? L’energia nucleare non è nata per scopi civili. La più grande parte dei reattori è detenuta dai paesi che hanno le bombe atomiche: Gran Bretagna, Francia, Cina, India, Pakistan, Israele, Russia e Stati Uniti. La Francia ha sovvenzionato i reattori per avere materiale fissile per produrre le bombe, la parte civile è un sottoprodotto. Che l’energia nucleare sia “verde” è ridicolo anche da un punto di vista economico. Anche il sistema nucleare francese sarebbe fallito senza l’intervento dello Stato. Ma se lo Stato deve intervenire, allora che investa sulle rinnovabili.
La fusione nucleare potrebbe avere meno criticità, per quanto il problema della radioattività resta comunque, anche se in misura inferiore. È una tecnologia importante, ma per scopi commerciali non arriverà prima di trenta/quarant’anni. Non è un caso che Eni stia investendo nella ricerca sulla fusione: un reattore consente di mantenere centralizzata in poche mani la produzione energetica, mentre il pannello fotovoltaico permette di essere autonomo rispetto alle reti e alle società produttrici e quindi decentralizzare e rendere più democratica la produzione di energia.
Autostrada e ferrovia: mobilità e appalti
Rispetto al discorso dei trasporti sulla direttrice Pescara-Roma, invece, il primo punto è che sia la ferrovia che l’autostrada sono infrastrutture già esistenti. Gli enti gestori dicono che bisogna ammodernarle ed è una necessità innegabile, ma pare vogliano farlo con costi estremamente alti per flussi di traffico molto bassi. Attualmente il flusso sulla media percorrenza Pescara-Roma è pressoché zero: nessun pescarese prende il treno per andare a Roma e viceversa. Si prende l’autobus e si fa l’autostrada. Nonostante questo, l’autostrada ha tariffe elevatissime, dovute a un traffico comunque scarso.
Il primo problema è questo: l’infrastruttura esiste, ma non ci sono flussi di merci né di persone. È un discorso che non fa nessuno perché è anti-retorico, ma è la realtà. Gli interventi andrebbero tarati con maggiore sobrietà visto che ci sono molti altri diritti da soddisfare oltre a quello della mobilità: penso alle tante emergenze, le scuola, gli ospedali, le infrastrutture idriche. La rete idrica ad esempio è un colabrodo: Chieti e Pescara, nonostante siano nel bacino rispettivamente della Majella e del Gran Sasso, hanno già l’acqua razionata. Non è l’infrastruttura che crea la domanda: se fosse così l’autostrada sarebbe già piena di tir e i treni sarebbero tutti pieni. Ma quanti cittadini vanno da Pescara a Roma ogni giorno? Questa retorica nasconde una strumentalizzazione. L’interesse è concentrare queste risorse in pochi appalti, motivandole con il diritto alla mobilità. Ma l’interesse è la spesa, non l’obiettivo. Sull’autostrada ad oggi non ci sono progetti, è stato nominato un commissario governativo per valutare la fattibilità dell’opera. L’idea è di fare delle varianti, facendo completamente un altro tracciato e nuove gallerie, moltiplicando la spesa. Succederebbe quanto è successo con il tunnel del Gran Sasso, che ha provocato problemi molto gravi sull’acqua potabile nella zona di Teramo e alta Val Pescara. Reiterare questo tipo di problemi con nuove gallerie nei massicci montuosi carbonatici – una sorta di spugna piena d’acqua potabile – come quello del Monte Sirente o dei Monti Simbruini è un’assurdità.
Sulla ferrovia, l’ente gestore ha progettato una serie di interventi in Val Pescara, sul tratto Pescara-Chieti-Manoppello-Scafa. Si tratta dei primi tre lotti, sottoposti a tre valutazioni di impatto diverse (lotto 0, 1 e 2) e con tre procedure autorizzative diverse. E la semplificazione? Perché fare progettazioni separate? Il paradosso è che addirittura le diverse valutazioni vengono pubblicate lo stesso giorno. Ferrovie dello Stato ha spezzettato l’opera in maniera incongrua, contro anche le norme comunitarie.
Il problema dello spezzatino è che non contribuisce a chiarire in maniera trasparente quale è il vero obiettivo che ci si pone: questa ferrovia dovrà essere la Roma-Pescara per garantire un flusso di media percorrenza? Oppure potrebbe avere un obiettivo diverso, fare cioè da metropolitana di superficie da Avezzano a Roma e in Val Pescara da Sulmona a Pescara? Un’analisi dei flussi farebbe propendere per questa seconda ipotesi. In uno studio pubblicato dalle stesse Ferrovie dello Stato, si evidenzia che flussi significativi, anche ipotizzando di realizzare tutte le opere faraoniche prospettate, ci sarebbero solamente da Sulmona a Pescara e da Avezzano a Roma. Infatti anche realizzando tutti gli interventi previsti (e alcuni di questi hanno criticità ambientali fortissime) i flussi rimarrebbero comunque stabili e molto limitati sulla media percorrenza. Con interventi relativamente piccoli, si potrebbe risolvere il problema dei pendolari, collegando le aree interne, soprattutto sulla tratta Sulmona-Pescara e Avezzano-Roma.
Uno dei lotti previsti è il tunnel del monte Morrone, che andrebbe a sfondare per tredici chilometri un Parco Nazionale a monte delle più grandi sorgenti che forniscono acqua potabile a Chieti e Pescara. Questo tunnel interagirebbe in maniera catastrofica con le sorgenti che portano acqua a mezzo milione di persone. Dal punto di vista ingegneristico è un’opera folle. Tra l’altro, e questo la dice lunga sulla superficialità con cui vengono affrontati certi temi, nei primi progetti l’acquifero del Morrone non veniva neanche menzionato. La galleria poi intersecherebbe in perpendicolare anche la faglia sismica del Morrone, una delle più pericolose d’Europa e che potrebbe generare terremoti fino al 6,8 della Richter. Il movimento di questa faglia, oltre allo scuotimento, può dare luogo a dislocazione, cioè a movimento tra i lembi della faglia stessa. In caso di terremoto forte, può formarsi una sorta di gradino tra i due lati della faglia. In quel caso il tunnel diventerebbe inservibile, come accaduto a una galleria nell’Appennino centrale nel 2016. Sul punto della faglia, sul Vettore, in superficie si è creato un gradino di quasi due metri in certi punti.
Delle merci non ne parliamo! Dalla previsione di Ferrovie ci saranno 36 treni-merci all’anno nel 2029. Si parla del nulla dal punto di vista trasportistico. Il flusso merci non esiste tra Roma e Pescara: bisognerebbe quindi pensare a fare una ferrovia efficiente per bisogni reali da soddisfare, non per i bisogni retorici. La questione ambientale viene di conseguenza: se la necessità è una metropolitana di superficie non c’è bisogno di sfondare il Morrone. Non riusciamo a gestire l’autostrada per i suoi costi immensi (viadotti, manutenzione, flussi ecc.), pensiamo di gestire anche una ferrovia? Inoltre, per costruire queste infrastrutture ci vorranno decenni, mentre le auto elettriche sono già disponibili a costi relativamente accessibili. Nel 2033 gli autobus e le auto saranno perlopiù elettriche e quindi andrebbe rimessa in prospettiva anche la “demonizzazione” del flusso stradale. Ovviamente preferisco la ferrovia, ma se l’autostrada c’è già e va ristrutturata, a quel punto bisogna fare un bilancio costi-benefici.
Al momento hanno espresso contrarietà al progetto di ferrovia i cittadini contrari agli espropri e alcune comunità come quelle di Manoppello, che vedono un notevole impatto anche sulla viabilità di contorno. I comuni di Chieti e Manoppello hanno presentato progetti alternativi che a mio avviso non hanno gambe per camminare. Le opzioni di allontanare il tracciato ferroviario dai centri abitati non vanno perseguite perché non ci sono le condizioni ambientali, urbanistiche, idrogeologiche ecc. È sbagliato pensare che la ferrovia debba passare per le campagne. Questo dibattito è figlio anche delle giuste rivendicazioni di chi perde casa. Gli stessi cittadini sono traviati dall’idea che la linea debba essere Roma-Pescara: è difficile far accettare gli espropri, anche perché anche per prendere il treno ad alta velocità che porta a Roma, bisogna comunque andare prima a Pescara, magari in auto! Con una metropolitana di superficie lo stesso centro abitato potrebbe trarre vantaggio dalla crescita del valore di mercato legata ad una maggiore prossimità ai servizi. Vivere in prossimità della metropolitana permetterebbe di muoversi velocemente, in maniera ecologica e a costi ridotti (ad es. il tragitto Manoppello-Pescara in auto dura trenta minuti circa, in treno una decina). Se l’idea è di ferrovia a media percorrenza il grado di accettazione è minore.
Alcuni comuni, come Chieti, Manoppello e San Giovanni Teatino hanno espresso contrarietà non alla nuova linea Pescara-Roma nel complesso ma ai singoli lotti, perché giudicati molto impattanti. Ragionando nell’ottica di metropolitana di superficie, molti nodi si scioglierebbero da sé, ma Ferrovie avrebbe un progetto da 2 miliardi al posto di uno da 6 e mezzo sul quale dirottare risorse. Purtroppo la metropolitana di superficie, sia a livello istituzionale che di “popolo”, non incontra nessun tipo di appoggio. Manca la capacità di affrontare questi problemi in termini complessi, senza ricorrere a soluzioni semplicistiche e retoriche. Questo avviene per due motivi: da una parte la scarsa capacità di elaborazione intellettuale delle classi dirigenti e della società in genere, dall’altra l’interesse a fare grandi appalti, a spendere e a strumentalizzare i bisogni e i diritti dei cittadini, che dovrebbero svegliarsi, ma non si svegliano, se non per problemi, pur comprensibili, che li riguardano come singoli e non come collettività.