UN’ALTRA FINE DEL MONDO E’ POSSIBILE (parte seconda)
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Presentiamo qui la seconda parte del dossier Un’altra fine del mondo è possibile, un doppio approfondimento necessario perché necessaria è la crescita di attenzione che dobbiamo rivolgere alla questione ambientale e climatica, che si profila in questo frangente di ancora più stringente attualità. Da qui ad un anno, infatti, si prospettano tre eventi di significativa rilevanza per la transizione ecologica globale: la COP28 (novembre 2023), le elezioni europee (giugno 2024) e le presidenziali negli Stati Uniti (novembre 2024). Appuntamenti che avranno conseguenze tangibili e per i quali saranno necessarie buona vigilanza e rivendicazioni chiare.
Partiamo allora da quello che Ferdinando Cotugno ci consegna come un bollettino di guerra: la temperatura media nel mondo ha già raggiunto +1.15° rispetto all’era preindustriale; l’estate del 2022 è stata la più calda nella storia del continente; l’anno 2023 ha avuto il giorno, la settimana, il mese più caldi, la temperatura media più alta e il maggior numero di singoli giorni sopra +1.5°C. I dati sono sbalorditivamente preoccupanti. Non bastavano le inondazioni in Emilia-Romagna, gli incendi in Sicilia, i nubifragi in Lombardia?
Nonostante questo disastro sia sotto gli occhi di tutti, le istituzioni stentano a reagire in maniera proporzionata. Come ci ricordano Emanuele Leonardi e Paola Imperatore, la COP28 si terrà negli Emirati Arabi Uniti, sotto la presidenza del sultano Ahmed Al Jaber, al tempo stesso Ministro dell’Industria e delle Tecnologie Avanzate e amministratore delegato dell’azienda statale di idrocarburi del suo paese. A capo del più importante summit per il clima ci sarà, insomma, un uomo che ha a cuore gli interessi dell’industria fossile e che nella lotta al cambiamento climatico punta perlopiù su una svolta tecnologica. Come lui, i governi del mondo “sviluppato” appaiono da qualche anno meno attenti alla “riduzione delle emissioni” e più inclini a ricercare la “neutralità climatica”, facendo appello ad un ingiustificato ottimismo tecno-scientifico (proprio del capitalismo più pericoloso).
È un grosso rischio, ci spiega Luigi Conte, perché le soluzioni geo-ingegneristiche e tecnologiche sono tutte da sviluppare e in ogni caso non ridiscutono il principio di una crescita infinita su un pianeta con risorse finite. C’è qualcosa che non torna. I colossi del capitalismo difendono con le unghie e con i denti quel processo di accumulazione di beni e capitale che è andato storicamente a loro beneficio, a beneficio di quello che è stato definito l’1%, mentre esternalità, ovvero rischi ed impatti, sono stati socializzati e collettivizzati ricadendo sul restante 99% della popolazione.
È chiaro allora che non siamo tutti sulla stessa barca e che i costi della crisi climatica sono diseguali. Così, continuano Leonardi e Imperatore, la transizione ecologica deve essere un’occasione per rendere la società più giusta di quanto non sia ora. Lo hanno capito i lavoratori e le lavoratrici che stanno avviando «scioperi climatici» che segnano la via per una convergenza tra lavoro ed ecologia.
E tra le rivendicazioni c’è quella di un sistema di produzione, distribuzione e protezione diverso, come suggerisce Luca Cigna che ci invita a distinguere il welfare dalla crescita: non più un welfare per la crescita a tutti i costi, a sostegno del capitalismo produttivo, ma un welfare in grado di mettere al centro i bisogni reali delle persone.
Ma è questo un discorso solo occidentale? Con Amalia Rossi constatiamo come, mentre in tutto il mondo si moltiplicano gli ambientalismi, crescono inevitabilmente anche quelli di matrice religiosa, tantopiù che alcune forme mistico-religiose, in particolare asiatiche, vantano un primato storico nell’offerta di soluzioni ai problemi derivati dagli approcci utilitaristici e antropocentrici alla natura. Così, ci racconta, molti leader buddhisti hanno dato espressione all’urgenza di escogitare alternative esemplari ai modelli di sviluppo industriale e post-industriale in Asia e oltre.
Il tempo stringe: la sfida è epocale, ma irrinunciabile. Continueremo a scriverne e ad agire.