Una rivoluzione incompiuta
La lotta anti-istituzionale che negli anni ‘60 e ’70 ha attraversato il paese, fino a giungere all’approvazione della legge 180 nel 1978, è diventata un punto di riferimento stabile a livello internazionale.
La lotta anti-istituzionale che negli anni ‘60 e ’70 ha attraversato il paese, fino a giungere all’approvazione della legge 180 nel 1978, è diventata un punto di riferimento stabile a livello internazionale. La letteratura, specialistica e divulgativa, che ha raccontato, da diverse prospettive, quella stagione è ampissima. Solo per citare le ultime e più interessanti pubblicazioni, nel 2014 sono uscite la biografia di Oreste Pivetta, Franco Basaglia, Il dottore dei matti (Baldini e Castoldi) e la ricostruzione storica di John Foot, La repubblica dei matti (Feltrinelli).
Certamente l’esempio italiano ha rappresentato per molti paesi un modello, o piuttosto un fenomeno da studiare e da cui trarre ispirazione, ed è stato così radicale e peculiare grazie alla spinta e lo spirito anti-istituzionale che lo aveva animato. Lo smantellamento delle vecchie istituzioni asilari è avvenuto nello stesso arco di tempo in altri paesi, anche se con modalità e tempi diversi, come è il caso delle esperienze anglosassoni. Possiamo dire che la psichiatria, in buona parte del mondo occidentale, è ormai una psichiatria post-manicomiale. La peculiarità dell’Italia rispetto ad altri paesi, è oggi piuttosto nella carenza di risorse. Abbiamo una quota della spesa sanitaria per la salute mentale molto più bassa rispetto ad altri paesi europei “post-manicomiali”.
Nel 1979, un anno dopo l’approvazione della 180 e un anno prima della sua morte prematura, Basaglia scrive che “il bisogno di una nuova ‘scienza’ e di una nuova ‘teoria’ si inserisce in quello che impropriamente viene definito vuoto ideologico e che, in realtà, è il momento felice in cui si potrebbe incominciare ad affrontare i problemi in modo diverso”.
Forse c’è stato un periodo, quel momento felice, subito dopo l’entrata in vigore della 180, in cui è sembrato che, per dirla in due parole, l’eliminazione del manicomio avrebbe di per sé comportato l’eliminazione della cronicità e della disabilità psichiatrica. Ma questa aspettativa si è avverata in realtà solo in parte. La cronicità è rimasta, si è parlato, già nel decennio successivo, di “nuova cronicità” (con una fisionomia differente, “territoriale”, anziché manicomiale), si è cercato di riempire quel “vuoto ideologico” con nuove ideologie (o ideologie “di ricambio”, come le chiamava appunto Basaglia), e si è cercato un “modo diverso” di affrontare i problemi. Franco Rotelli, che prese il posto di Basaglia a Trieste, diceva, a vent’anni dalla riforma, che non ci sarebbe mai stata una fine al processo di applicazione della legge 180, perché dal momento in cui si elimina la soluzione, cioè l’ospedale psichiatrico, il problema diventa insolubile. Era un’affermazione certamente provocatoria, ma oggi, a distanza di altri vent’anni, la questione resta attuale. I problemi, insomma, sono stati necessariamente affrontati con modalità diverse, sono state cercate soluzioni diverse, ma molti di essi sono rimasti irrisolti.
La politica poi in tutto questo, se per politica intendiamo la capacità di interpretare le situazioni e pianificare risposte coerenti e sostenibili, è una delle grandi assenti. Ci sono stati ritardi, incoerenze, approssimazioni, e un’ampia eterogeneità nell’organizzazione dei servizi e nell’erogazione delle risorse.
È pur vero che vi sono certamente molte situazioni in cui, pur nei limiti di quella “insolubilità” intrinseca di cui parlava Rotelli, si riesce a fare il meglio possibile, se non delle vere eccellenze, e non solo a Trieste, dove Basaglia conclude la sua esperienza professionale come direttore del manicomio e pone fine all’esperienza del manicomio stesso aprendo nuovi ed efficienti servizi psichiatrici. Serve allora fare in modo che questi livelli qualitativi divengano omogenei in tutto il paese. A mio avviso sbaglia chi crede che per far questo sia necessario cambiare la legge.
Spazi che si richiudono
La nuova realtà che si andava delineando dopo la promulgazione della 180 era fatta di persone che avevano avuto l’esordio della malattia proprio negli anni ’80: si trattava di coloro che non avevano fatto esperienza del manicomio, la generazione della community care, ovvero la nuova generazione nata con la psichiatria di comunità. Una quota consistente di questi nuovi casi ha cominciato a manifestare una persistenza dei sintomi e della disabilità, che si prolungava, in maniera preoccupante, nel corso del tempo. Verso la fine degli anni ’80 è emerso che questo tipo di persone non guarivano clinicamente e continuavano ad avere bisogno di assistenza, e le famiglie ne hanno assorbito in gran parte il carico. Per rispondere a questo bisogno si pensava che mancasse un anello nella complessiva organizzazione dei Servizi. Questo anello erano le cosiddette strutture intermedie: strutture non caratterizzate, come l’ospedale psichiatrico, dall’internamento, dalla segregazione, da uno stile custodialistico, ma inserite in pieno nel tessuto sociale. Ecco così nascere i Centri diurni e le strutture residenziali. Queste strutture nascono con l’obiettivo di occuparsi delle persone con disagio per un certo periodo di tempo per “restituirle”, dopo un percorso riabilitativo, alla società.
Negli anni ’90 quindi, superato pressappoco il primo decennio dall’entrata in vigore della 180, si assiste a un ripensamento teorico e pratico nell’ambito dei servizi di Salute Mentale, un ripensamento che si è tradotto in una crescita esponenziale di queste strutture intermedie. I dati al riguardo sono molto chiari: nel corso degli anni ‘90, partendo pressoché da zero, si arriva a una situazione in cui circa 12.000 pazienti frequentano un Centro diurno e oltre 17.000 sono inseriti in una struttura residenziale riabilitativa. Da allora ad oggi questi dati sono cresciuti, ovviamente, ma non di molto.
Questo nuovo modello ha costituito una risposta a un problema che altrimenti sarebbe divenuto una vera emergenza socio-sanitaria. Non ha però mantenuto adeguatamente la promessa della “restituzione sociale” della malattia mentale. Si è assistito piuttosto e più spesso a quello che è stato definito una sorta di “insabbiamento”: le strutture residenziali e semiresidenziali hanno mostrato un turn-over molto basso, indice di una altrettanto bassa restituzione sociale, tradendo così il loro mandato originario: tant’è che si è cominciato a parlare di nuova istituzionalizzazione.
Bisogna puntualizzare che con la fine della grande istituzione totale è venuta meno una modalità di approccio al disagio psichico, è stato superato l’approccio custodialistico. Ma è pur vero che la ricerca di situazioni nuove ha prodotto il costituirsi di una sorta di nuovo “internamento”: migliaia di persone vivono in luoghi di fatto ben separati dal resto della comunità. Ovviamente è arduo stabilire quanto questi livelli di istituzionalizzazione rappresentino effettivamente la corretta risposta ai bisogni a lungo termine dei pazienti,o siano piuttosto indice di una sorta di inerzia del sistema di salute mentale, che non riesce a promuovere processi di inclusione sociale più efficaci. C’è da considerare, inoltre, che in Italia questo fenomeno è stato relativamente contenuto; in Inghilterra o in Germania, ad esempio, il numero dei posti letto nelle strutture residenziali è cresciuto molto di più che nel nostro paese. Certo ci sono degli indizi, ma anche qualche evidenza concreta, che cambiando la percezione della disabilità psichiatrica, cambiando i paradigmi di riferimento(quello biomedico, ma anche quello della riabilitazione psichiatrica), le cose possano andare diversamente.
Nuove lotte
Circa 20 anni fa, mentre in Italia e altrove si andava completando la trasformazione dell’assistenza psichiatrica con lo spostamento dell’intervento dall’ospedale al territorio, con esiti, come dicevamo, eterogenei, cresce una nuova spinta trasformativa, questa volta di marca anglosassone, destinata a produrre un nuovo paradigma che per la portata che sta assumendo viene considerata una sorta di “seconda rivoluzione”, dopo quella anti-istituzionale.
È il cosiddetto recovery movement, che è il prodotto della concomitanza di tre fattori.Il primo è rappresentato dalle evidenze emerse dalla ricerca epidemiologica,che a partire dagli anni ’70 avevano rivelato che la prognosi delle malattie mentali gravi fosse molto meno infausta di quanto invece classicamente venisse ritenuto. Mi riferisco alla tradizione, dominante nel corso del ‘900, che si risolveva in una sorta di tautologia: “se è schizofrenico è inguaribile, se è inguaribile è schizofrenico”. In altri termini, la diagnosi veniva fatta sulla base del decorso della malattia, un decorso che si auto-confermava e ciò legittimava l’aspettativa di una sostanziale inguaribilità. È stato dimostrato, invece, che fino a quasi il 70% delle persone originariamente diagnosticate al primo ricovero come schizofreniche, nel corso delle successive valutazioni, fatte dopo dieci, venti anni, o più, erano o guarite o significativamente migliorate, soprattutto in termini di inclusione o “guarigione sociale”. Questo è stato un primo fattore che ha notevolmente mosso le acque, perché era certamente inaspettato. Una diagnosi di psicosi, in altri termini, non significa una compromissione definitiva della propria esistenza, ci può essere una speranza, un’aspettativa di guarigione o di significativo miglioramento, a prescindere dall’intervento specialistico.
Il secondo fattore è legato al movimento degli utenti psichiatrici e alla rivendicazione da parte degli stessi utenti di essere titolari di diritti, di poter scegliere, di poter avere il controllo sulle cure e sulla propria vita, cioè i temi dell’empowerment. Questa nuova consapevolezza in alcuni paesi si è coagulata attorno ad alcuni movimenti organizzati che hanno portato avanti una vera e propria azione politica. Si è trattato di battaglie molto concrete che hanno ottenuto riposte, se è vero che molti degli indirizzi in tema di politiche sanitarie messe in campo dai governi di diversi paesi, ma anche quelli emanati dalla Commissione Europea, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, dalle Nazioni Unite, hanno tenuto in seria considerazione le richieste avanzate dagli utenti. Inoltre, alcuni esponenti di questi movimenti,o comunque persone con malattia mentale grave, hanno cominciato a mettere per iscritto e diffondere le loro esperienze. Nella narrazione in prima persona (first-person account) la malattia risultava essere qualcosa di completamente differente se confrontata con la “narrazione” biomedica del disturbo. Cioè la dimensione soggettiva diceva delle cose che non risultavano né dalla diagnosi né dalla prognosi, insomma dall’impostazione clinica classica. In particolare emergeva che i problemi vissuti come realmente più gravi, più importanti, e significativi per la persona, non erano tanto quelli legati alla sintomatologia, o al deficit, ma erano la perdita di significato e di senso della propria vita, la perdita di ruolo sociale, di potere e di opportunità. In ciò risuona peraltro il pensiero precursore e seminale di Franco Basaglia, che parlava proprio di questo “doppio” della malattia, prodotto dell’interazione fra il malato, il suo ambiente sociale e l’istituzione.
Il terzo fattore è rappresentato dal fatto che una componente significativa del mondo accademico e professionale della psichiatria abbia cominciato a prestare attenzione a questi temi. Si è registrato un crescente interesse verso questa nuova idea in cui il focus si andava muovendo dall’oggettività della clinica all’esperienza soggettiva della persona.
In Italia i contenuti impliciti, le istanze di base di questo movimento si sono sviluppati in maniera autonoma e parallela, non direttamente ispirati da quelli stranieri. Non è avvenuta una vera e propria concettualizzazione, anche per un problema linguistico. In inglese infatti recovery, più che “guarire”, significa riprendersi da una malattia, il che non vuol dire necessariamente che la malattia sia definitivamente debellata. Può voler dire che, a prescindere dal disturbo, dalle sue fasi, dal suo decorso, le persone possono “ricostruirsi una vita”. Come avviene per molte altre malattie croniche o situazioni di disabilità.
Nuove resistenze
Attualmente predomina ancora, non solo nella formazione universitaria degli psichiatri, ma anche nelle pratiche dei servizi, un’impostazione biomedica focalizzata sui sintomi e sui deficit, sulla diagnosi e sulla psicofarmacologia. Se pure l’obiettivo è restituire alla normalità le persone con malattia mentale grave, l’impostazione biomedica in qualche modo esige che esse debbano prima liberarsi dai problemi che hanno: si devono cioè curare, riabilitare, per essere poi restituite alla società. Questo paradigma, alla luce dei principi della recovery, appare assolutamente inadeguato, perché non si può pensare che una persona con disagio debba prima fare tutto un lungo percorso per liberarsi delle sue difficoltà, e poi, eventualmente, possa accedere ad una vita normale. C’è il rischio che questo percorso, cioè, possa diventare infinito, poiché viene continuamente differito l’obiettivo, dal momento che molto spesso l’aspetto sintomatologico non si risolve interamente e definitivamente: cioè i sintomi della malattia possono persistere e per ora nessuna terapia sembra in grado di debellarli. La persona i cui sintomi non sono stati debellati, è di fatto ritenuta incapace di poter vivere da sola, lavorare, avere una vita sociale. Il Servizio di Salute Mentale sente tutto il peso del mandato di tutelare, proteggere, “sostituirsi” a questa persona, attraverso magari le strutture residenziali di cui si parlava in precedenza. E, così, questa persona avrà una vita “presidiata”, perché si ritiene che non abbia le capacità di badare a se stessa.
L’approccio orientato alla recovery ribalta questo paradigma perché implica che la persona riattivi le sue potenzialità evolutive solo se è messo in una situazione reale. Occorre cioè ridurre il divario di competenze fra “clienti” ed “esperti”, riconoscendo ai primi un sapere, e dunque anche una responsabilità.
Con questo non sostengo che l’idea della riabilitazione sia in sé sbagliata, perché l’obiettivo finale – l’inclusione delle persone con disagio psichico all’interno del mondo delle relazioni e delle opportunità sociali – è sicuramente della massima importanza. Il problema però è che la riabilitazione psichiatrica è stata fondata inavvertitamente sullo stesso paradigma della riabilitazione fisica. Questo modello non è adeguato alla malattia mentale, il cui decorso non è affatto graduale e lineare, bensì episodico. Pianificando la riabilitazione secondo un modello medico, per transizioni a fasi successive, si finisce per procrastinare continuamente l’obiettivo della reintegrazione sociale. Nell’approccio orientato alla recovery, quando la persona esprime un bisogno, un desiderio, un obiettivo, deve trovare un ambiente facilitante, abilitante, un ascolto attento: solo così si può sperare che possa ricostruire una identità positiva, che diventa il reale motore del miglioramento. E se la persona appare riluttante, sembra non esprimere immediatamente queste istanze, non si dovrebbe mai smettere di ascoltarla, di starle a fianco, puntando sulla speranza che le istanze di ripresa esistano virtualmente e vadano esplicitate. Se invece, sulla base di un’errata idea di tutela, trascuriamo quegli spunti di iniziativa, magari fragili e contraddittori (perché, ad esempio, pensiamo che ciò possa costituire un rischio per la persona) allora inevitabilmente teniamo quella persona in una situazione di passività. Il difetto cronico di potere alla fine toglie, annulla, definitivamente il potere di decidere, di agire, di vivere secondo la propria volontà, di assumersi delle responsabilità.
Autodeterminazione nella malattia
È necessario un radicale cambiamento di atteggiamento dei servizi, un ribaltamento di prospettiva. Va riconsiderata e ri-concettualizzata l’idea stessa di disabilità psichiatrica. I fattori di cronicizzazione e di perdita di speranza, più che nelle manifestazioni cliniche, vanno individuati nelle conseguenze catastrofiche che producono nella vita della persona: la perdita di ruolo sociale, di identità personale (soppiantata da quella di paziente psichiatrico), di dignità, di valore, di potere, di progettualità. Ovvero, in una parola, di autodeterminazione, intesa come elemento essenziale di ogni impresa umana, della vita di ognuno di noi: dalle scelte ordinarie su cui si costruisce nel corso della vita l’unicità della nostra storia personale, alle imprese straordinarie necessarie a superare i traumi, le perdite, le gravi malattie. Sono questi i veri deficit da riparare. Ciò implica, come dicevo, un diverso ruolo degli esperti, la rinuncia a sapere prioritariamente “che cosa è meglio” per la persona con malattia mentale. Gli operatori della salute mentale dovrebbero tener presente che solo se riemerge questa volontà di ricostruzione di una vita, di un’identità positiva, pur nei limiti imposti dalla malattia, la cosiddetta riabilitazione può realizzarsi. Ciò non significa la rinuncia ai trattamenti, agli interventi basati sulle evidenze. Significa piuttosto “stare accanto”, senza pretendere di “guidare” il processo; significa riuscire ad accompagnare con tatto e rispetto percorsi spesso tortuosi, tollerare le battute d’arresto, le ricadute, ascoltare i bisogni per come vengono espressi, “prendere sul serio” le istanze, anche quando appaiono imbrigliate nella dimensione patologica.