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Una pretesa totalitaria

10 Giugno 2013
Valeria Pinto

“Il compito principale dell’Anvur è ambizioso e difficile: creare una cultura del merito” (Agi, 29.10.2007). Così il Ministro dell’Università del secondo governo Prodi, Fabio Mussi, illustrava la creazione dell’Agenzia Nazionale di Valutazione. La ragione politica per cui “è necessario istituire un’attività di valutazione capillare ed efficiente, che consenta di premiare merito e qualità”, spiegava l’anno prima, è appunto quella “di coniugare qualità e meritocrazia. L’Università di qualità che premia il merito facilita il processo di equità sociale: il merito non è il privilegio dei ricchi, ma la carta che hanno i poveri per riscattarsi” (Roma, 5.12.2006). Al di là della diversa copertura retorica quando il ministro Gelmini avvia i lavori dell’agenzia incaricata di spargere dall’alto i semi della competizione per “entrare nella società della conoscenza”, di fatto rilancia un disegno che (come l’intera riforma Gelmini del resto) ha davvero pochi meriti da attribuirsi quanto a – è il caso di dire – originalità e innovazione. Lo stesso Mussi non manca di rilevarlo dalle pagine del Corriere della Sera (23.07.2010): l’agenzia di nomina ministeriale, rivendica, è una sua creatura. L’ex sottosegretario Modica è ancora più esplicito: “Siamo riusciti noi della sinistra, noi della sinistra, a credere a questo meccanismo. Finirà che penseremo che l’Agenzia Nazionale di Valutazione l’ha fatta il ministro Gelmini!” (Amelia, 17.04.2011). L’abortito decreto “Io merito” del ministro Profumo appare, sotto questa luce, nulla più che un’epigonale goffaggine.

Stupisce solo fino a un certo punto che a tanto adoperarsi per affermare uno strumento, la valutazione, ben riconosciuto in letteratura come un cavallo di Troia per far penetrare i capisaldi del neoliberalismo ad ogni livello della vita pubblica (p.e. Neave, 2012) sia stato un ministro della sinistra. In Italia, infatti, la svolta nelle politiche della conoscenza sotto il segno della valutazione e del merito ha luogo durante i governi Prodi e D’Alema. E’ Luigi Berlinguer, nel 1999, ad accogliere a Bologna i ministri dell’istruzione europei e sottoscrivere insieme quel processo di riforma che, come ha scritto recentemente Žižek, “equivale a un attacco concertato a ciò che Kant chiamava l’uso pubblico della ragione”. “L’idea di fondo di questa riforma – la spinta a subordinare l’istruzione universitaria ai bisogni della società, a renderla utile, in relazione ai problemi che dobbiamo affrontare – mira a produrre pareri competenti che devono risolvere i problemi posti dagli agenti sociali. Ciò che qui scompare è il vero compito del pensiero: non solo offrire soluzione ai problemi offerti dalla società (lo Stato, il capitale) ma riflettere sulla forma stessa che questi ‘problemi’ assumono, riformularli, riconoscere un problema nel modo stesso in cui noi vediamo tali problemi. La riduzione del compito della istruzione […] alla produzione di un sapere competente e utile è la forma paradigmatica dell’uso privato della ragione nel capitalismo globale contemporaneo” (Žižek, 2011; 2012). Forse, se si pensa con Vico che la natura delle cose sia nel loro nascimento, si potrebbe anche ricordare che, nelle politiche della conoscenza, la valutazione ha il suo prototipo nella scientometria sovietica (il primo a parlare di naukometriya è Vassily Nalimov nel 1969), che dà forma statistica a un modello burocratico di controllo del sapere e della ricerca scientifica assai affine ai modelli di pianificazione economica in cui per la prima volta – con l’impresa dell’Eroe del Lavoro Aleksej Stachanov – prende corpo la “meritocrazia di stato” (Bascetta, 2009). Ma anche al di là del monito genealogico contro ogni richiamo ad un’origine o essenza immutabile delle cose, è forse più giusto osservare che, alla fine, la natura tanto della valutazione quanto del merito è, in certo senso, quella di non avere una natura propria.

Con “merito” – lo osservava già Georg Simmel alla fine dell’800 – “non è intesa una proprietà dell’azione che, per così dire, resti in se stessa o la caratterizzi senza relazione ad altro, senza uscire fuori di sé […]; l’azione meritevole e la sua ricompensa non sono concetti tra loro indipendenti e da porre solo in connessione sintetica; al contrario, si è dato il nome di meritevoli a quelle azioni cui generalmente si è reagito con una ricompensa” (Simmel, 1892; 1998). La stessa etimologia rimanda a questo carattere relazionale: merito (merere, avere parte, guadagnare, dal greco meris, pezzo, porzione, da cui l’italiano merenda) è direttamente la parte di ricompensa cui si ha diritto. Il tedesco Verdienst designa ugualmente sia il guadagno economico esterno sia quello interiore di natura morale. Anche il valore, per parte sua, chiama in causa una categoria di equivalenza o scambio. “Valutare – si legge nel Tommaseo (1830, ma non vi è nulla di più aderente al significato attuale della neo- o tecno-valutazione) – non ha senso traslato, se non per uso corrotto o barbaro: nel proprio, indica la determinazione d’un valore da potersi o doversi pagare in moneta. Si valuta per pagare, per vendere, per computare, per raffrontar insomma il valore della cosa a una somma di danaro”. Così, perché un’azione possa dirsi meritevole, il suo valore deve essere apprezzato da un terzo e da tale apprezzamento chi l’ha compiuta deve trarre – come si dice – il suo ritorno (Brigati, 2012). Insomma, non vi è merito senza feedback, anzi il merito altro non è che descrizione di un feedback. Suo presupposto è un solido quadro di riferimento comune tra chi compie l’azione e chi valuta.

Nulla è più lontano allora dal concetto del merito e del valore riconosciuto dalla valutazione dell’idea di qualcosa che si affermi nel proprio valore, che abbia cioè valore in forza della sua incomparabilità e inconfondibilità, ossia di qualità esclusive determinanti una “distinzione” al di là di una mera distanza quantitativa. In quest’ultima i diversi elementi restano sempre collegati tra loro in virtù della loro sottomissione a un comune denominatore, a una medesima misura esterna, mentre in una differenza assolutamente qualitativa non è più così. Il rifiuto della “distinzione” da parte della cultura del merito – la sua retorica anti-aristocratica – si deve non alla riprovazione per un eccesso di diseguaglianza (per essa disuguaglianze e privilegi smisurati non sono minimamente un problema), ma appunto al fatto che la “distinzione” respinge la misura comune (“il far causa comune con gli altri […], il rapporto tipico delle cose nell’economia monetaria, in quanto sono collegate l’una all’altra dalla […] scambiabilità che si esprime nel denaro”: Simmel, 1900; 1984), denuncia la non assolutezza della norma, la rende problematica. Che è poi esattamente la stessa operazione di sviamento dal “there is no alternative” che per altri versi compie il sapere critico, ugualmente ripugnante alla cultura del merito, allorché invece di offrire immediata soluzione ai problemi imposti dall’alto riflette sulla forma di questi problemi, semina il dubbio sull’ordine dato.

All’opposto, il sistema del merito emana, rafforzandole, dalla giustizia e dall’evidenza dell’ordine che riconosce. Esso rappresenta una rifondazione (riconoscimento e consolidamento) dell’organizzazione gerarchica della società e dei suoi organismi. Rendendo le diseguaglianze accettabili su basi asseritamente razionali e eticamente legittime (il problema del merito infatti non è mai la disuguaglianza ma la sua legittimità: Hadjar, 2008)), la meritocrazia, come dice lo stesso inventore del termine, rafforza gerarchie ed élite esistenti assicurando la giustezza dei loro privilegi mentre toglie forza a chi si oppone ad essi (Young, 1958). In questo quadro l’istruzione è l’arma per la perfetta razionalizzazione dell’esclusione (“smart fraction theory” ecc.). Ai più capaci delle classi disagiate è offerto accesso alla cerchia di coloro che contano. Chi resta fuori, sapendo di avere avuto tutte le opportunità per affermarsi (e tutte le informazioni per poter decidere razionalmente di sé), avrà poco o niente da rivendicare e molto da vergognarsi. Non a caso una tecnica fondamentale della valutazione meritocratica è “quella di identificare la incapacità e di fare pressione sul peccatore disseminando pubblicamente tale informazione, una tecnica cui ci si riferisce talvolta come naming and shaming” (Neave, 2012). Opponendo potenti e giusti (obiettivamente tali) e impotenti e colpevoli (obiettivamente tali), la meritocrazia consente così di rimettere interamente al singolo i rischi sociali e economici, inducendolo “ad interiorizzare sotto forma di colpa personale la

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condizione di esclusione o di scacco” (Martuccelli, 2010). Una società meritocratica è una società di oligarchie che si vogliono democraticamente ed eticamente legittimate: in essa i conflitti di classe non esistono, esistono solo i singoli portatori di interessi e i conflitti di interessi; è una società dove la società non esiste ma esistono solo gli individui.

L’individualismo del sistema meritocratico – in tutto e per tutto un sistema individualistico – è allora propriamente un “individualismo numerico”, allo stesso tempo omologante e parcellizzante, dove individui del tutto sostituibili, diversi solo per la funzione parziale che sono chiamati a svolgere, concorrono e però anche si integrano in una sorta di divisione del lavoro, secondo la consueta immagine dell’organismo le cui membra distinte per ordine forma e funzione reagiscono reciprocamente in tutto da cui traggono ciascuna la propria giustificazione. Si tratta di un modello armonico (in verità già taylorista: l’organizzazione scientifica del lavoro, diceva Taylor, è vera democrazia, essa “realizza in terra la giustizia organizzativa, con il suo correlato di pace e concordia”: Nicoli, 2010) caratteristico anche dei più recenti paradigmi sistemici olistico-relicolari proclamanti la “coopetizione”, il sapiente dosaggio di cooperazione e messa in competizione, come chiave di volta della nuova impresa sociale orientata al “miglioramento continuo della qualità” e quindi sotto continuo benchmarking (Bruno, 2008).

In modo solo apparentemente contraddittorio, è proprio questa continua competizione e comparazione a garantire equilibrio e stabilità, il fatto cioè che mobilità sociale e innovazione (invero celebrate più che reali) non entrino in conflitto con gli assetti consolidati. Al cuore di tutte queste nozioni difatti – il merito della meritocrazia, il valore della neo-valutazione, la qualità totale del Total Quality Management – sta una costitutiva funzione stabilizzatrice. Così, la qualità promossa dai manager del merito e della valutazione non è la qualità distintiva di qualcosa o qualcuno e il suo valore, ma la conformità, un concetto statisticamente costruito sull’apprezzamento del prodotto: essa coincide con il marchio di qualità, per esempio il riconoscimento della Organizzazione Internazionale per la Normazione (ISO) di cui si dotano oggi anche servizi pubblici e istituzioni culturali. L’apprezzamento del prodotto qui non è però quello che segue, eventualmente, alla produzione della cosa, ma la sua predeterminazione nel processo di produzione passo dopo passo (just in time), anzi la sua anticipazione matematica attraverso “buone pratiche”: un’attività di formalizzazione e normalizzazione dei processi di produzione attuata, prima ancora che attraverso il controllo del prodotto e della produzione, attraverso l’autocontrollo dei produttori. Qualità è così una tecnica organizzativa, mirata a rendere più lineari e definite le funzionalità di sistema mediante il dispiegamento di una serie di dispositivi in grado di retroagire sui singoli ( “360 gradi feedback”) affinché incorporino le finalità del sistema di produzione come proprie finalità: un principio d’ordine totale, per il quale non vi è parte o processo che possa pensarsi fuori dai fini del sistema stesso.

Appunto a questa pretesa totalitaria si deve il fatto che il contrassegno del regime di qualità sia la dissoluzione della qualità come proprietà o distinzione e la riconduzione di tutto alla metrica comune di una commisurazione, che “trasforma le qualità in quantità, la differenza in ordine di grandezza […], riduce e semplifica l’informazione più disparata in numeri facilmente comparabili” (Espeland – Stevens, 1998), utilizzabili come strumenti di coordinamento dell’azione e di automazione dei processi decisionali. In questa valutazione del merito – frutto di enormi apparati organizzativi e disciplinari divenuti ai più invisibili – governance capitalistica (governo a distanza, governo per risultati, governo per numeri) e razionalismo etico celebrano le loro nozze. Postulato pratico di questa cultura è il superamento dell’incongruenza tra destino e merito, successo e sforzo, ricompensa e fatica. Come scrive il teorico della broken window (quindi della disciplina dell’emulazione e della tolleranza zero), “è nel poter anticipare le conseguenze dei propri sforzi che chi agisce può diventare un attore meritevole” (Wilson, 1995). La fede logica nella reciprocità, nella (com)misurabilità “monetaria” di ogni cosa, è al tempo stesso impegno assoluto a promuoverla e a sanzionare ogni infrazione ad essa. Convergere indistintamente sulle unità di misura, fare i conti, farla pagare… tutto assolutamente razionale: chi mai potrebbe dirsi contrario al merito?

Opere citate

M. Bascetta, Un merito senza talento, “Il Manifesto”, 02/12/2009.

R. Brigati, Sul concetto di merito, “Ragion pratica”, 2012, 38, pp. 183-203.

I. Bruno, La recherche scientifique au crible du benchmarking. Petite histoire d’une technologie de gouvernement, “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, 55-4bis, 2008, 5, pp. 28-45.

D. Martuccelli, Critique de la philosophie de l’évaluation, “Cahiers internationaux de sociologie”, 2010, 1-2, pp. 27-52.

W. N. Espeland – M. L. Stevens, Commensuration as a Social Process, “Annual Review of Sociology”, 1998, 24, pp. 313-343.

A. Hadjar, Meritokratie als Legitimationsprinzip. Die Entwicklung der Akzeptanz sozialer Ungleichheit im Zuge der Bildungsexpansion, VS, Wiesbaden, 2008.

M. Young, The Rise of the Meritocracy, 1870-2033: An Essay on Education and Equality, Thames & Hudson, London, 1958.

G. Neave, The Evaluative State. Institutional Autonomy and Re-engineering Higher Education in Western Europe, Palgrave Macmillan, London, 2012.

M. Nicoli, Sorvegliare e produrre. Potere, filosofia e soggetto nelle organizzazioni aziendali, Tesi di Dottorato, Università di Trieste, 2010.

G. Simmel, Einleitung in die Moralwissenschaft. Eine Kritik der ethischen Grundbegriffe (1892), Suhrkamp, Frankfurt/M., 1998.

G. Simmel, La filosofia del denaro (1900), tr. it., UTET, Torino, 1984.

J. Q. Wilson, Political Organizations, Princeton University Press, Princeton, 1995.

S. Žižek, Benvenuti in tempi interessanti (2011), tr. it., Salani, Milano, 2012.

N. Tommaseo, Nuovo dizionario de’ sinonimi della lingua italiana, Pezzati, Firenze, 1830

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