Una mail dall’estero
Il 2012 fu un anno di grandi traversate. Ogni italico giovane era attratto come Ulisse dall’ignoto, dal viaggio, dal famoso estero.
Si diceva che il mondo fosse colmo di appartamenti pieni di giovani che facevano i lavori più pazzi e rincasavano alle ore più assurde, facevano foto con le loro macchine digitali a costo ridotto, suonavano musica sperimentale elettroacustica, e consumavano droghe chimiche e alcol contenente solfiti con la giusta perizia.
Tutto ciò che si era letto nei libriccini, negli opuscoli, nelle pagine facebook degli amici già andati si concretizzava in larga misura in una città, Berlino, e in misura artistica, strettamente proporzionale ai chilometri, nelle altre città tedesche. Questo ci fa presagire che a Stoccarda non esistano musei, ci si accoppi fra consanguinei, e le tribù di cacciatori raccoglitori prevalgano sui pochi stanziali.
L’estero non era visto come riparo, come era capitato a tutti i tossici degli anni ottanta, o come fuga da una condanna, come era capitato a tutti i brigatisti negli anni settanta, e nemmeno come obbligo lavorativo, come era capitato all’inizio a Ugo Foscolo quando aveva Napoleone come datore di lavoro.
No, nel 2012 era un’esperienza. Proprio come lo era per Vittorio Alfieri e per centinaia di altri nobili dell’Ottocento: una lunga traversata in carrozza a imparare nuovi idiomi e costumi, e a rendersi conto di come la gente fosse sfruttata in modi non ancora concepiti qui in Italia.
Quindi i nuovi Alfieri del 2012 non avevano più carrozze, ma vagavano di volo low cost in prenotazione alla sublime ricerca di quell’appartamento diverso, di quel ristorante cucina tipica italiana gestito da vietnamiti dove farsi sfruttare un poco, di quegli incontri fugaci anglicani o protestanti che con il dovuto anticoncezionale possono davvero usufruire dell’amore libero, dimenticandosi del Vaticano e del senso di colpa domenicale.
L’altro simbolo di questa generazione dell’opportunità era un frutto. Una mela luminosa posta sul retro di un computer. Questo simbolo li rendeva tutti santi, un po’ hacker e un po’ poeti, di giorno camerieri e di notte Stockhausen, Marilyn, Dylan, Batman: insomma, super eroi.
E la famiglia? La famiglia un po’ si preoccupava, un po’ si indignava, un po’ diceva che se questi giovani hanno studiato così tanto, e qui non c’è opportunità, manca l’opportunità di avere le opportunità. “È anche giusto dargli un aiutino”… Così che due volte l’anno possano tornare a casa a dire: “come la pasta di mia mamma non ce n’è altre”.
C’erano i viaggiatori che facevano durare il tutto un mesetto, ed erano i vacanzieri; c’erano gli Erasmus da tre mesi in Francia per i secchioni che vogliono solo tradire il partner; si andava poi sulle esperienze dai sei o otto mesi perché dopo i sei mesi si chiama già esperienza, fino a giungere ai veri viaggiatori: uomini e donne che passavano ben un anno o un anno e mezzo all’estero. E poi tornavano. Tornavano diversi perchè il viaggio ti cambia, ti fa maturare, ti apre delle possibilità.
Per prima cosa tornavano (ricomparivano o altro sinonimo) tutti con una lingua, non con una reliquia, ma con un alfabeto e delle frasi che non erano le loro, un linguaggio che tutte le persone giuste dell’Europa parlano. Mica parli l’italiano se sei un vero artista: l’italiano è da garzoni, qui si tratta di parlare l’inglese, il tedesco, e qualche parola di sumero antico da usare solo da sbronzi.
Poi ci sono i vestiti: più trendy, con tessuti migliori, con forme e motivi anni luce avanti ai nostri; robe futuristiche, tipo il giallo o il nero, cose inconcepibili anche per me che scrivo. E non possiamo non toccare la questioni capelli. Quando sei là (i viaggiatori dicono l’estero, lo chiamano così) i capelli mutano, diventano sconsiderati: all’estero i capelli osano di più. E poi si può costruire una casa all’estero, si può piangere per amore davvero all’estero, ti scopano veramente all’estero, hai pochi soldi all’estero, ci sono le strade, i grattaceli, e gatti bianchi e neri… All’estero puoi dipingere, in Italia no, non puoi dipingere. Lo stato reazionario anti welfare-fascista-criptocomunista non ti lascia esprimere. In Italia non ci sono gli spazi, ci sono solo terrazzi, all’estero invece non ci sono terrazzi, se beccano uno a Berlino che si costruisce un terrazzo, o che sta bagnando i gerani sul terrazzo, gli strappano tutte le tessere dei musei d’arte moderna e lo costringono a guardare mentre succede. E in più a Berlino manco crescono i terrazzi, scusate, i gerani, perché a Berlino c’è il mare, il mare, il mare.
E poi, se ne vogliamo davvero parlare, all’estero sei più bella. E quando guardo le foto di Facebook un po’ mi fai innamorare. I filtri dell’iphone sembrano filtri d’amore e colpiscono proprio me, che sto qua, che non mi muovo mai: pensa che sono andato all’estero tre volte nella mia vita (in una avevo meno di dieci anni e c’erano pure i miei genitori) e sempre per meno di una settimana, praticamente non sono mai uscito dal (g)uscio. Anzi non ho mai staccato il cordone ombelicale. Anzi non sono mai nato, e se non sono nato non posso essermi innamorato. In più non posso reggere il confronto con i poeti e con i filosofi-musici figli della tenebra: pensa che ieri sera ascoltavo pure Battisti (e il disco è di mia madre, best of con triplo cd del 2004). Ti prego non mi giudicare. Un giorno anch’io avrò un obiettivo e un qualcuno da abbandonare e una voglia di rivalsa che non può essere placata se non dai chilometri, e la frivolezza, e la pacatezza, e smetterò di giudicare e avrò bisogno per far ridere i polli di espatriare.
Scusa i toni concitati ma oggi era proprio una brutta giornata, ma tu non puoi saperlo: qui a Ceva, all’estero, succedono cose che non posso spiegarti. Scrivi quando vuoi, ricordati di vivere la vita. Con affetto… Ste.