Una ideologia che ha complici e vittime
incontro con Mauro Boarelli
Bénédicte Vidaillet è una psicanalista e docente di Psicologia dell’organizzazione all’Università Paris XII. Da molti anni si occupa di organizzazione del lavoro, tema a cui ha dedicato due libri (entrambi tradotti in italiano): uno sul ruolo dell’invidia (L’invidia al lavoro. Un’emozione devastante, Ananke 2011) e il secondo sulla valutazione (Valutatemi! Il fascino discreto della meritocrazia, Novalogos 2018). A partire da quest’ultimo studio, denso di stimoli e chiavi di lettura, abbiamo intrecciato un dialogo sul rapporto tra i sistemi di valutazione standardizzati e quantitativi, l’adesione consapevole e inconsapevole da parte dei lavoratori, la delegittimazione della cultura del mestiere, l’individualismo e la disgregazione dei legami comunitari, la sostituzione della conflittualità con la competizione.
Lei sostiene che costruire un punto di vista critico sulla valutazione significa spostare lo sguardo: non dobbiamo limitarci ad analizzare le conseguenze negative dei processi di valutazione, ma interrogarci sul fatto che la maggior parte delle persone non si oppongono a essi, anzi desiderano essere valutate, desiderano che i meccanismi di valutazione vengano addirittura intensificati. In sostanza, siamo contemporaneamente vittime e complici della valutazione. Quali sono, a suo avviso, le ragioni principali di questa adesione attiva, di questa complicità?
In effetti la valutazione si è sviluppata in modo incessante, con la nostra complicità, perché facciamo fatica a resisterle, come di fronte alle sirene di Ulisse. La questione principale è quindi comprendere a quale domanda inconscia corrisponda il desiderio di essere valutati.
Un aspetto della risposta è che la valutazione ci viene continuamente “venduta” con una promessa narcisistica. Con la valutazione, ci viene proposto di trovare prima di tutto le pratiche migliori, quelle che “funzionano”, quelle che conviene utilizzare, e di formarci su di esse. Ci vengono proposti anche dei modelli nei quali possiamo identificarci. Ecco allora che viene indicato cosa vuol dire essere un “buon ricercatore” (pubblicare un certo numero di articoli in un determinato periodo in alcune riviste anziché in altre), un “buon venditore” (realizzare un certo fatturato in un dato periodo), un “buon medico” nei servizi di urgenza (non superare una determinata durata della visita per ciascun paziente). Non è seducente proiettarsi in queste figure di successo, sapere esattamente ciò che verrà valorizzato e che permetterà di essere riconosciuto come “bravo” o “molto bravo” nel proprio campo?
In generale, non ci si limita a “vendere” questi modelli di successo, veniamo anche aiutati ad avvicinarci a essi. Così la valutazione si accompagna sempre alla promessa di poter “migliorare”, “crescere”, “andare più lontano”, “superare se stessi”. Grazie alla valutazione, al processo che mette in moto, al guadagno che propone, si spera di diventare migliori, o addirittura “eccellenti”. Il processo di valutazione è spesso presentato anche come un processo di selezione. Ciascuno è spinto a portarsi in cima, ma nel passaggio – naturalmente – vengono dimenticati gli altri, la maggioranza, quelli che non rientreranno nel 10% o 20%.
Nella valutazione, la sollecitazione al nostro narcisismo avviene anche nel momento di “scegliere gli indicatori”. Molto spesso siamo sollecitati a definirli. Partecipare a questo processo vuol dire di per sé essere identificato come idoneo. Si viene adulati: “tu che sei un esperto, vuoi partecipare alla commissione che stabilirà i criteri di valutazione del vostro lavoro”? E spesso, prima che il sistema venga esteso a tutti, viene testato su alcuni volontari, ben contenti di partecipare alla fase preliminare. Chi rifiuterebbe il ruolo di pioniere?
L’ossessione della valutazione attribuisce agli incentivi esterni un ruolo centrale nei processi lavorativi. Si suppone che essi offrano ai lavoratori maggiori motivazioni rispetto alle motivazioni intrinseche, quelle che ciascuno trova in se stesso, nell’interesse e nella passione per il proprio lavoro. Questo aspetto è centrale nella sua analisi. In che modo agisce questa forma di delegittimazione, e quali conseguenze comporta?
Una caratteristica delle pratiche di valutazione contemporanee è di suddividere il tempo in scadenze e di organizzare all’interno di questi intervalli delle competizioni nelle quali tutto è sempre rimesso in gioco. Ed è questo che ha la capacità di sedurre, perché colloca l’individuo che lavora in una tensione permanente che gli permette di dimenticare la natura per definizione instabile e misteriosa del suo desiderio. Là dove la sua motivazione intrinseca al lavoro potrebbe oscillare, o in parte sfuggirgli, eccolo collocato all’interno di un processo che, in maniera artificiale, lo mette in tensione, gli fornisce nuovi impulsi a ogni sequenza temporale. Ogni volta l’individuo può immaginare che tutto è temporaneo, reversibile, che tutto può essere costantemente rimesso in gioco.
Ma la conseguenza – si tende a dimenticarlo – è che se una persona viene dichiarata “brava” oggi, questo non vuol dire nulla, perché ciò che un persona è riuscita a realizzare nel periodo precedente non sarà preso in considerazione nel momento della valutazione. Il prezzo da pagare è che il lavoratore non è più collocato in una storia professionale, condivisa con altri colleghi, con delle competenze acquisite nel rapporto con loro, competenze sulle quali il lavoratore può contare per fare fronte al lavoro reale, con le sue sorprese e le sue difficoltà. Tutto questo non rientra nel campo della prescrizione. Questa mette le persone che lavorano in una situazione di grande fragilità, perché sono in balia di una cattiva valutazione e non hanno più a disposizione rappresentazioni di se stessi come professionisti dotati di padronanza del proprio mestiere e della legittimazione che ne consegue. E così si ritrovano a cercare in permanenza dei segni che possano oggettivare il loro valore.
Inoltre, numerose ricerche in campo economico e psicologico dimostrano chiaramente che la motivazione intrinseca, legata alla soddisfazione procurata dal lavoro in se stesso, e la motivazione estrinseca, legata a ricompense elargite in cambio dello sforzo o dei risultati ottenuti, non sono complementari ma si escludono a vicenda. In altre parole, le due tipologie di motivazione non si sommano, e – al tempo stesso – puntare costantemente sulla motivazione estrinseca può alla fine uccidere la motivazione intrinseca, perché elargire una ricompensa può essere interpretato come il segnale che il compito assegnato non ha alcun interesse in se stesso. Inoltre, introdurre un incentivo costituisce generalmente una perdita di autonomia per chi lavora e non è più in grado di determinare da solo se il suo lavoro è ben fatto. Questi sistemi di valutazione portano dunque a distruggere la motivazione intrinseca, quella che lega profondamente le persone al loro lavoro. In questo modo finiamo per avere un rapporto puramente strumentale con il nostro lavoro e questo alla lunga influisce sulla nostra salute.
Una delle principali conseguenze dei sistemi di valutazione è l’introduzione nei processi lavorativi di una cultura individualista che genera rivalità e invidia e – di conseguenza – indebolisce i legami sociali nei luoghi di lavoro. Da questo punto di vista, la valutazione rappresenta lo strumento più efficace messo in campo per demolire le culture del lavoro costruite nel corso del Novecento. Perché, a suo parere, la valutazione è in grado di agire in modo così esteso e radicale?
Una caratteristica importante della valutazione praticata attualmente è che va di pari passo con quella forma di comparazione che viene venduta sotto il nome di “trasparenza”. I “risultati” di tutti sono visibili e pubblicizzati. Ma in questo modo il rapporto con l’altro è realmente perverso. La valutazione non ha interesse se rimane segreta. Essa è un mezzo per sorvegliare l’altro in un rapporto di voyeurismo e di controllo. Si è disponibili a essere valutati solo se anche l’altro viene valutato.
Il desiderio di valutazione ha a che vedere con quello che i tedeschi chiamano Schadenfreude, una delle forme dell’invidia nelle quali ci si rallegra segretamente delle disgrazie degli altri, compresi quelli più vicini. Si è disposti a perdere qualcosa se l’altro perde ancora di più. Con la valutazione, si è pronti a vedere ridotto il proprio margine di azione se anche l’altro lo perde, l’altro che è in grado di piacere più di noi, che sfugge al lavoro, che ci prende in giro. Non è l’azionista o il datore di lavoro che approfitta di noi, ma l’altro che ci è vicino, il collega, che diventa interamente responsabile della nostra demotivazione.
Ciò che è molto pericoloso è che gli strumenti di valutazione penetrano in una falla ben identificata dei sistemi sociali: il nostro rapporto con l’altro, un rapporto difficile e potenzialmente fondato sull’invidia. Mentre tutti i grandi sistemi culturali o religiosi ci mettono in guardia contro l’invidia, perché questa agisce come veleno nel corpo sociale, la valutazione contemporanea – al contrario – abbatte le barriere che potrebbero contenerla.
Questo aspetto è legato anche a un altro tema cruciale: la conflittualità. La conflittualità presuppone sempre un rapporto con gli altri che si esprime necessariamente anche attraverso disaccordi e divergenze. La competizione implicita nei meccanismi di valutazione sostituisce il conflitto, e quindi fa a meno degli altri, non ha bisogno di rapportarsi con uomini e donne in carne e ossa ma solo con la loro immagine mediata da numeri, grafici, tabelle. Che conseguenze comporta questa delegittimazione del conflitto nei luoghi di lavoro? E perché i sindacati sono rimasti passivi di fronte alla diffusione della valutazione?
I sistemi contemporanei di valutazione ci seducono perché sembrano in grado di regolare due tipi di conflitti che sono generalmente inevitabili nei luoghi di lavoro. Il primo tipo di conflitto appartiene alla natura stessa del lavoro. È ciò che possiamo chiamare “disputa professionale”, che è necessaria perché permette di definire in modo collettivo le “regole del mestiere” che servono come punti di riferimento per chi lavora, dei punti di appoggio per un gruppo di lavoro. Queste regole vengono costruite ed evolvono attraverso la discussione, a volte conflittuale, in funzione di situazioni reali incontrate durante l’attività stessa. Con i sistemi di valutazione individualizzata della performance si crede, a torto, che si può evitare questo conflitto perché il sistema di valutazione definisce in modo normativo e unilaterale i criteri da tenere in considerazione. Sono questi criteri che devono prevalere. Il problema è che sono spesso troppo semplici, staccati dall’attività reale con la sua complessità e le sue difficoltà, e inducono le persone a barare per mostrare che hanno raggiunto gli obiettivi assegnati.
Il secondo conflitto che si crede di evitare è quello legato alla distribuzione del plusvalore. Il discorso che accompagna queste pratiche è che le persone ricevono retribuzioni (degli incentivi, ad esempio) che sono commisurate al loro contributo, il quale è misurato “oggettivamente” dal sistema. Si pretende di conoscere il contributo al valore creato e di ricompensarlo di conseguenza. Gli aspetti organizzativi non sono presi in considerazione. Conta esclusivamente il risultato verso il quale spinge la valutazione, e ciascuno deve sentirsene personalmente responsabile. In questo modo vengono mascherate le tensioni tra i differenti attori: salariati e azionisti, funzionari, Stato e cittadini, dirigenti, eccetera. Una volta mascherate, queste tensioni non appaiono più come sfide di mobilitazione collettiva, ad esempio per chiedere più mezzi, o per negoziare collettivamente aumenti di salario. Tutto il conflitto classico intorno alla distribuzione del plusvalore viene fatta scomparire dietro la messa in competizione di tutti contro tutti. Questo meccanismo funziona perché incontra il desiderio che ciascuno ha di non avere nulla a che fare con l’altro, l’altro in carne e ossa con il quale dovrebbe mettersi d’accordo sulle rivendicazioni comuni, costruire un’azione collettiva necessariamente incerta, che richiede di creare legami e di impegnarsi con gli altri.
Peggio ancora, il sistema di valutazione mette in pace la coscienza sul fatto di non preoccuparsi degli altri. La sua perversione sta nel lasciar credere che ciascuno partecipi a un grande progetto e che la somma dei contributi rigorosamente individuali produca il bene collettivo. In questo modo l’individualismo diventa moralmente desiderabile.
Si può constatare che, in effetti, i sindacati non si sono opposti tenacemente all’ideologia della valutazione. Nel peggiore dei casi, alcuni sindacati riformisti hanno aderito con il pretesto che “le persone vogliono essere valutate, hanno bisogno di riconoscimento”. Dimenticando che questi sistemi non forniscono alcun riconoscimento reale, perché – come ho detto prima – la valutazione è sempre provvisoria, non incide nel tempo e impedisce la costruzione di una vera identità professionale. Nel migliore dei casi, quando i sindacati contestano la valutazione, non la contestano in quanto tale, non mettono in discussione la sua centralità nella politica delle risorse umane, le conseguenze nefaste che può comportare. Piuttosto sono mossi dal timore che la valutazione non sia abbastanza obiettiva e che manchi di imparzialità, specie quando riguarda i comportamenti. In un certo senso, questi argomenti la rinforzano: “Garantite una valutazione oggettiva, migliorate i criteri, quantificate in modo ancora maggiore, e non avremo più ragioni di preoccuparci!”.
Lei sostiene che alla base dell’accettazione della valutazione da parte dei lavoratori ci sia anche una strategia per non ammalarsi. La valutazione è al tempo stesso il veleno e l’antidoto. Può spiegare meglio questa tesi?
In alcune organizzazioni, la storia dei mestieri e delle pratiche è stata cancellata, il collettivo non funziona più, non ci sono le condizioni per “lavorare bene” e sembra vanificarsi la speranza di migliorarle. E allora la valutazione fornisce nuovi punti di riferimento, chiarisce l’obiettivo sul quale concentrare l’azione. L’ideologia della valutazione si installa all’interno di spazi professionali spesso degradati dove trova giustificazione nella critica al vecchio sistema: ad esempio, la valutazione dei ricercatori basata sul numero di articoli pubblicati è presentata come un mezzo per “riavviare” la ricerca francese denigrata da molti anni, presentata come meno “produttiva” rispetto a quella di altri paesi, e arriva dopo discorsi politici che mettono in discussione l’onore del mestiere, gli aspetti identitari che avevano sostenuto fino ad allora – anche se male e con difficoltà – l’attività dei ricercatori. La valutazione appare come rimedio per migliorare il sistema, poi – una volta introdotta – conduce gli attori a focalizzarsi sugli indicatori fondamentali e ogni dibattito diventa inutile perché alla fine saranno gli indicatori a prevalere. La disgregazione del collettivo, a questo punto, viene accelerata.
Una delle strane caratteristiche della valutazione è dunque quella di essere allo stesso tempo il veleno e l’antidoto. Da un lato, partecipa alla disgregazione del collettivo e alla difficoltà crescente di fare un lavoro di qualità. Dall’altro, finisce per apparire come un salvagente per chi non è più in grado di lavorare bene e non nutre più speranza nella possibilità di migliorare le proprie condizioni di lavoro.
“Uscire dall’ideologia della valutazione significa far uscire se stessi dall’ideologia della valutazione”. Questa sua affermazione contiene due aspetti: da un lato sostiene la necessità di un approccio radicale (non si può “riformare” questo sistema di valutazione, ma occorre rifiutarlo in blocco), dall’altro sottolinea l’urgenza di riconoscere e superare il nostro ruolo di “complici”. Quali sono le strade che lei immagina per questo percorso di “liberazione”? Quali azioni possono essere intraprese da chi vive con disagio i meccanismi di valutazione nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università?
L’importanza di individuare i meccanismi psichici attivati dalla valutazione risiede nella possibilità di resistere meglio ai suoi richiami. In questo modo eviteremo di attribuirle benefici che non ha e potremo rimanere lucidi nel comprendere che la valutazione non costituisce una soluzione miracolosa alla demotivazione sul lavoro, alla difficoltà delle relazioni con i nostri colleghi o alla nostra richiesta insaziabile di riconoscimento.
Resistere al richiamo della valutazione implica di assumere la parte inevitabilmente misteriosa e angosciante del proprio desiderio smettendo di aspettarsi che le risposte alle variazioni delle proprie motivazioni al lavoro possano provenire da un sistema di valutazione semplicistica ed esterna a se stessi.
Resistere richiede di restituire all’altro la propria soggettività. Nel quadro del lavoro, ciò conduce a valorizzare la singolarità piuttosto che la comparazione, a costruire luoghi di elaborazione e articolazione – che comprendono anche il conflitto – piuttosto che occasioni di competizione e sradicamento, a mettersi dalla parte dell’altro che sfugge al nostro controllo, a immaginare di non poter avere una presa definitiva sulla motivazione dell’altro. Questi sono gli aspetti che ci allontanano dalla figura immaginata dell’altro sulla quale si fonda la valutazione.