Un quarto paesaggio
Conversazione con lo scrittore Vitaliano Trevisan
I tuoi libri sono stati spesso interpretati come un’indagine sulle trasformazioni profonde che hanno investito il Veneto e il suo paesaggio.
Ritengo riduttivo leggere i libri in senso giornalistico, come fossero reportage. Un modo per vendere libri. Lo stesso motivo per cui dicono che i gialli sono un mezzo di indagine sociale; allora meglio i telefilm. Ci dev’essere anche altro, nella scrittura, perlomeno in senso stilistico. Non mi interessano i reportage.
Hai spesso parlato di “zone di resistenza all’evidente”, riferendoti al compito, in quanto scrittore, di confrontarti e possibilmente demolire i luoghi comuni.
Si scrive sui luoghi comuni. A volte si smontano, a volte si confermano, ma hanno sempre un fondo di verità. Oltre c’è un salto nel vuoto, è come uno steccato. Se uno scrive, deve andare lì: più uno si tiene distante dal luogo comune, meno rischia; meno rischia, meno è interessante.
In Tristissimi giardini, hai definito il Nordest una macchina frammentatrice, paragonandolo a una gigantesca betoniera su ruote. In moto perpetuo sulle nostre intasatissime e rappezzatissime strade, che sono il prodotto del processo digestivo della macchina stessa.
La betoniera ha macinato e rigurgitato un po’ dovunque. Sarà parcheggiata da qualche parte, se vogliamo continuare la metafora. Comunque, si continua a costruire, anche se qui in collina si assiste a un certo spopolamento. A meno che non si viva a ridosso della città, nei Berici, dove invece la densità abitativa è alta. Prima ero nella ex casa di mia madre, una situazione fastidiosa; lo scrittore della porta accanto, che attira la curiosità dei vicini, mentre il Comune ti ignora. Anche Vicenza mi ignora, e anche il Veneto, più o meno.
Stai lavorando a qualcosa di particolare?
Lavoro molto con il teatro, una parte di scrittura che i critici non considerano. Ne va in scena anche tanto, però non qui in Veneto. E quando girano, gli spettacoli spesso qui non arrivano: per esempio, l’adattamento del Giocatore, una coproduzione di Napoli e Catania, è passato in Friuli, ma non in Veneto. Peraltro, hanno appena declassato lo Stabile del Veneto, vorrà pur dire qualcosa. I prossimi lavori, di cui uno in dialetto veneto – Il Cerchio Rosso –, è prodotto a Genova, e l’altro – una riscrittura goldoniana, La bancarotta – a Bolzano. La scrittura teatrale è sempre stata una parte importante del mio lavoro. Sei pièces pubblicate, tutte andate in scena. È sempre scrittura, fa parte della mia opera, dovrebbe essere presa in considerazione per poter dare un giudizio obiettivo.
Da dove ti viene tanta attenzione al teatro?
Con il teatro mi guadagno da vivere. Ho cominciato a scrivere per il teatro da subito, insieme con la narrativa. Certo, mi fa pensare, e mi fa ridere, che a produrre pièces in dialetto veneto sia Genova o Roma, e che poi in Veneto nemmeno arrivino. È strano – specie se penso al mandato dello Stabile del Veneto, ovvero produrre nuova drammaturgia che venga dal territorio, e al fatto che al governo c’è la Lega, che insiste appunto sulla lingua veneta. Ebbene, le produzioni di nuovi testi, oltretutto in dialetto, vanno in scena altrove, mentre qui si riduce tutto all’ennesimo Goldoni o alla cultura da pro-loco.
Da che cosa dipende?
Penso da mancanza di coraggio, o semplice ottusità, da parte di chi è attualmente ai vertici.
A suo tempo, mi pare in Tristissimi giardini, avevi espresso diverse riserve sull’uso del dialetto.
Avevo scritto che il dialetto è cultura orale, e non contempla la teoria. Nelle poesie in dialetto, al massimo ci sono le parole, ma non c’è la lingua, non c’è il corpo, e un dialetto solo sulla carta, senza corpo, si spegne. E più è intellettualizzato, più pretende di essere alto, più è inerte e, per quanto mi riguarda, privo di conseguenze. Infatti, il dialetto va bene a teatro, non per la narrativa. È stato divertente anche scrivere quei pezzi in dialetto in Works, che sembrano appunto brani drammaturgici, e poi tradurli, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno, a volte. Ma a teatro, il dialetto funziona, c’è il corpo.
Torniamo alla tua scrittura: dagli esordi a oggi, ha avuto una notevole evoluzione nello stile.
Spero. Mi sembra di sì. Già in Grotteschi arabeschi si nota un’evoluzione. Prima, i riferimenti erano Thomas Bernhard ma anche Beckett: però, siccome non lo leggono, non se ne accorgono. Bernhard è più semplice da cogliere, basta mettere “pensavo”, “dicevo” eccetera, e siamo già a posto. Mi ha molto aiutato per orientarmi all’inizio, adesso ne ho meno bisogno.
Con Works hai raggiunto una voce più personale.
Adesso è tanto che non scrivo narrativa. Dovrei, ma sto rimandando, come sempre. Il più possibile. Vedo il mio lavoro come un processo, non come un oggetto finito. Chi lo legge lo vede come un oggetto finito, ma non è così, io non lo penso come oggetto finito. Prende una forma facendolo. È inevitabile. Se sarà un nuovo processo, lo vedremo, ma non so che tipo di scrittura sarà. La voce è la stessa.
Si avverte un’urgenza nella tua scrittura.
Per questo rimando il più possibile, probabilmente, a un certo punto diventa insostenibile.
Hai scritto, parlando di Goffredo Parise, che si può scrivere per il cinema, o per i giornali, ma la scrittura vera, assoluta è un’altra cosa.
Per arrivarci, è necessario tornare prima di tutto alla lingua. Parise, per esempio, lo ha fatto, all’inizio inconsciamente, comprando la piccola casa rurale a Salgareda.
Ma come concili l’esigenza di autenticità, che nasce da questa urgenza, e la necessità di farne un mestiere?
Non ho necessità di farne un mestiere. Io vivo di teatro, innanzitutto. Anche di scrittura, è vero, ma più per quello che muove la scrittura che non per i soldi guadagnati con i libri venduti. E, poi, io non presento i miei libri, non l’ho mai fatto. Posso leggere, farmi presentare da qualcuno e poi rispondere alle sue domande. Per fare questo, tra l’altro, ho – come dire – l’ardire di essere pagato. Sono meno visibile di altri. Peraltro, sono convinto che le presentazioni non muovano poi tanto le vendite. Non è un mio problema, non ho tempo per dedicarmici. Non sono un bravo venditore di nulla.
Però hai avuto il coraggio di entrare in questo mondo, di vivere della tua scrittura.
Non sono mica entrato. Se ci fossi entrato, non vivrei qui, scriverei per qualche giornale. Farei una scuola di scrittura. Faccio la scuola di drammaturgia, ma è un’altra cosa, molto più tecnica, e vado dove mi chiamano, ossia dappertutto fuorché qui. A Trieste, a Torino, a Forlì, a Milano. Lavoro un po’ in giro, come vedi. Se faccio un laboratorio qui, non viene nessuno. È divertente. È anche divertente, c’è un lato divertente, almeno…
Hai parlato di Sarah Kane, a suo tempo.
Già, Sarah Kane si è spenta, lei e la sua opera. Ha avuto una fiammata, come la sua vita. Vediamo se rientrerà nei classici, vediamo se la riprenderanno. C’è bisogno di tempo affinché si realizzi un’accumulazione di letture particolarmente intelligenti, condizione necessaria per far sì che un’opera possa definirsi un classico.
Il teatro italiano ha avuto un momento d’oro negli anni Novanta.
Ma non di scrittura. Non ci sono drammaturghi. Un teatrante che scrive è altra cosa. Qui, rispetto alla drammaturgia manca tutto, non è considerata. È così, non è triste né allegro.
Qual è la differenza tra scrivere per il teatro e per la prosa?
A teatro non puoi soffermarti a pensare, perché non vedi quello che pensano i protagonisti, a meno che non usi degli “a parte”, come faceva Goldoni, che anch’io uso, ma è tutt’un’altra cosa. A teatro hai solo quello che i personaggi si dicono, non puoi spiegare nulla. Appena ti fermi a spiegare, sono due palle, da parte sia del pubblico sia dell’attore, e anche da parte mia che scrivo. La tecnica drammaturgica influenza anche la prosa, che si asciuga di più: i personaggi vengono fuori, più che essere descritti, esce la loro voce, il loro carattere e, se a volte uso la descrizione, lo faccio in modo iperrealista. Importante è che la cosa sia sempre in movimento. Prendi Le furie di Guido Piovene: una passeggiata che richiama e si sovrappone a quella dei miei Quindicimila passi, per quanto io l’abbia letta dopo. Bene, avrai notato che quando il protagonista delle Furie divaga, si ferma. È come se la carrellata della macchina da presa si bloccasse e si trasformasse in un’inquadratura fissa, mentre nei Quindicimila passi il protagonista non si ferma mai, pur attraversando la città. È una grossa differenza, in termini di stile, non conscia da parte mia, ma una volta che è scritta sulla pagina è possibile rilevarla. Per cui c’è una differenza di dinamica, pur trattandosi quasi dello stesso percorso. Poi, è chiaro, i ricordi sono diversi, lui era un conte, io non sono nessuno. Sente e vede altre cose, ma non è questo il punto: lui si ferma, io continuo. Questa differenza di natura dinamica può forse spiegare perché lui non ha tanta drammaturgia. Ne avrebbe di più Parise che, però, quando scrive di teatro diventa molto noioso. Infatti non è capace. La moglie a cavallo, una noia…
È pur vero che quando Marco Ferreri la riprende nell’Ape regina diventa un gran film.
Perché Ferreri la riscrive insieme con Azcona e altri. Ne capisce di più. È costretto a drammatizzare. La scrittura drammaturgica ha a che fare con il corpo: quello degli attori, in primis, quindi non c’è solo dialogo. Tutto qua.
Ancora sugli scrittori veneti. Hai dimostrato una predilezione per Piovene.
Mi piace, è freddo, non è sentimentale come Parise, per esempio. Mi piace la parte giornalistica di Parise, mentre trovo i Sillabari abbastanza irritanti. Avrebbe voluto essere un nobile, pensava di esserlo. Lo si vede anche nelle foto, mentre Piovene non ne aveva bisogno.
Ma in Parise hai trovato alcune consonanze quando parla del Veneto “barbaro”.
È sentimentale e decadente, ma questo non vuole dire che non abbia scritto cose interessanti. Piovene, invece, è illuminista, più freddo, distante. E poi odia la letteratura edificante… per quella basta andare al Campiello. In realtà, ho vinto anch’io il Campiello Francia, nel 2007, con la traduzione francese dei Quindicimila passi. Ma di solito i libri che vanno al Campiello, allo Strega, sono per lo più edificanti. Edificanti, cioè cretini. Piovene, già a suo tempo, lamentava il fatto che, in democrazia, vale il principio demagogico di puntare su prodotti intellettuali insipidi, vuoti, cretini o, che è lo stesso, edificanti.
Più di una volta hai espresso riserve su Zanzotto, Meneghello e Rigoni Stern.
Zanzotto, Meneghello e Rigoni Stern, anche senza volerlo, sono scrittori edificanti. Meneghello anche volendolo, secondo me, è e resta un professore. Ha un umorismo facile, è classista, senza accorgersi di esserlo. Per certi versi, anche Rigoni Stern ha parti edificanti, ma era un uomo semplice, tutto sommato. Scrive bene quando scrive di guerra, e basta, il resto, gli alberi, gli animali, la caccia… Sono scrittori oggi inoffensivi, rispondono alle foto del Veneto, promosse dalla Regione o dal consorzio del Prosecco. Zanzotto era diverso, ma aveva ‘sta nostalgia insopportabile, un po’ pasoliniana, non so esattamente per che cosa. Mio padre, di certo, non aveva nostalgia. Vivevano in dodici in tre stanze, non puoi avere nostalgia. Era una sfiga se eri povero, molto semplicemente.
Di qui anche la tua scarsa simpatia per Pasolini?
Pasolini è un altro santino. Anche lui era un nostalgico, soprattutto del fatto che il sottoproletariato offriva una quantità di ragazzetti (etero) con cui era normale avere rapporti, senza che per questo fossero stigmatizzati come omosessuali. Finita quella fase, bisogna andare in cerca fuori d’Italia, per dire. Adesso, tra l’altro, se lo fai, sei un pedofilo e basta. Se sei omosessuale, c’è almeno un vantaggio, perché hai il tormento di essere omosessuale, mentre se sei etero sei soltanto un maiale. Detto questo, poi costruiscono i santini. Parlando di Pasolini – ho avuto modo anche di scriverlo – ci si dimentica sempre di quanto sua madre fosse appollaiata sulle sue spalle. Sono le madri che educano i figli, li riempiono di sensi di colpa, ci rendono quelli che siamo. Non c’è niente da fare. Lui l’ha usata anche per assolversi, scrivendo che l’amore per lei gli impediva di amare qualcun altro, anche se non gli impediva, anzi quasi lo obbligava a scopare con chiunque. Mi diverte che nessuno se ne accorga. In fondo, lui andava a ragazzetti e gli piaceva perché era rischioso. C’è molto di questo anche nei diari di Joe Orton o, per restare nell’ambiente omosessuale, in Derek Jarman e Robert Mapplethorpe. Tutti diventati icone o mezzo martiri, in modo che la società possa assolverli e trarne ciò che vuole. Personalmente, rispetto a Pasolini apprezzo di più Orton perché, se voleva scopare, non ne faceva una questione mistica scrivendo una poesia sulla madre. Sarà perché era anglosassone e quindi più diretto. Questo filone di arte omosessuale, a cui appartiene anche Bacon, è un filone che ho indagato e ancora indago, mi interessa. Da Oscar Wilde a Fassbinder, da Noël Coward fino a Mark Ravenhill. È una buona chiave, più universale, per leggere i rapporti amorosi, ovvero, a prescindere che siano omosessuali, si scopre che le dinamiche sono le stesse, si tratta sempre di rapporti di potere.
Ci servono strumenti per capire la realtà…
La maggior parte dei giornalisti e registi che ho conosciuto sono borghesi: quando cercano la “realtà”, pensano a un “realtà” scritta in corsivo, o con la “r” maiuscola.