Un paese fermo

(disegno di Armin Greder tratto da Noi e loro, Else edizioni 2019)
I cambiamenti sociali, economici e culturali della nostra società stanno mettendo a dura prova la legittimazione e forse la tenuta stessa delle istituzioni democratiche. L’aumento delle disuguaglianze, i perduranti effetti negativi della crisi del 2008 sulla finanza pubblica (vincoli di bilancio, contrazione della spesa pubblica e del welfare), la trasformazione del lavoro e dei sistemi di comunicazione di massa, la frammentazione del tessuto sociale, l’invadenza e la colonizzazione del mercato rispetto alle sfere della riproduzione sociale generano diffusi sentimenti di frustrazione, risentimento e sfiducia popolare che si traducono a livello politico in una sempre più marcata astensione e volatilizzazione del voto, nella polarizzazione del dibattito pubblico e istituzionale, fino a un vero e proprio sdoganamento di posizioni xenofobe e razziste. In un quadro come questo di impoverimento e precarietà di larghe fasce della popolazione, di instabilità politica, di imbarbarimento delle relazioni sociali e culturali – un quadro allarmante, che potremmo definire di “crisi sistemica” – come può rigenerarsi la democrazia? Da dove ripartire, con quali strumenti e stelle polari?
Il punto di partenza non può che esser quello della partecipazione delle collettività alla determinazione delle loro sorti, seguito da un ruolo più attivo delle classi dirigenti. Le collettività sembrano oggi esser divenute apatiche. Le classi dirigenti prigioniere della politica dei ruoli e degli schieramenti, invece che della politica dei programmi. Il punto di partenza dovrebbe essere la riscoperta di nuove consonanze tra classi dirigenti e popolazione, che richiede un impegno reciproco. E richiede anche l’abbandono di una mitologia anti-elitista che, partendo dalla polemica contro la “casta”, ha preso piede in Italia. Le élite sono indispensabili: ciò che importa è che siano aperte. Solo grazie alle élite aperte si può avere vera eguaglianza, nel senso di pari opportunità.
Negli ultimi decenni si stanno affermando molte esperienze di democrazia diretta, partecipativa e deliberativa che riprendono vecchie pratiche o ne mettono in campo di nuove – dal sorteggio, ai referendum, all’utilizzo delle piattaforme informatiche –, ma che sono tutte accomunate dal superamento dei partiti, della delega e della tradizionali formule della rappresentanza politico-elettorale come strumenti privilegiati di aggregazione, mediazione, sintesi e trasmissione degli interessi e delle domande sociali. Come giudica queste esperienze? Quali sono i loro pregi e i loro limiti?
Giudico positivamente le esperienze di democrazia deliberativa o partecipativa (di cui stranamente non si parla in Italia), negativamente quelle di democrazia referendaria (perché si prestano a manipolazioni e sfruttamento in senso plebiscitario). La democrazia partecipativa richiede un centro che prende le grandi decisioni (il Parlamento). Le periferie informano, consultano, ascoltano le comunità locali. La democrazia referendaria ha in sé due elementi negativi. Tende a escludere il dialogo, la riflessione, la discussione. Si presta a un uso plebiscitario (si pensi soltanto al referendum del 2016 e all’uso che se ne è fatto).
Nel 1995 Christopher Lasch scrisse: “La difficoltà di porre dei limiti al potere della ricchezza fa capire che è la ricchezza stessa che deve essere limitata. Quando il denaro parla, tutti sono costretti ad ascoltare. Per questo una società democratica non può permettere un’accumulazione illimitata”. Alla luce del forte e costante aumento delle disparità economiche e sociali a cui stiamo assistendo da anni in Italia e in molti altri paesi, quanta diseguaglianza può sopportare la democrazia?
Penso che vadano innanzitutto valutate accuratamente le diseguaglianze. La maggior parte dei calcoli tiene conto solo dei redditi. Bisogna valutare l’effetto del sistema fiscale (della progressività). E calcolare l’effetto delle government largess, cioè dei trasferimenti diretti a ridurre le diseguaglianze, in attuazione del principio di eguaglianza in senso sostanziale. Bisogna mettere questi elementi nel conto delle diseguaglianze, altrimenti – per un paradosso – non si mettono nel conto delle diseguaglianze proprio gli effetti delle istituzioni che in un secolo sono state introdotte – sotto la pressione delle forze popolari, per assicurare l’eguaglianza sostanziale. Una volta valutate attentamente le diseguaglianze, ne vanno studiate le cause, che non risalgono alla globalizzazione, ma vanno cercate nei cambiamenti tecnologici in corso, che stanno modificando il lavoro e i lavori. Fatto questo, occorre rafforzare lo Stato del benessere: abbiamo bisogno di un nuovo Beveridge.
Quanto crede che possa durare un’Europa che come si diceva dell’Italia è stata fatta ma non sono stati fatti gli europei? Un’Europa che si tiene in piedi ma non cammina in avanti? che non è uno Stato e ancora meno un Divenire? che fa solo trattative e non ha un processo o un disegno comune se non difensivo e necessitato dagli ordini di grandezza di altri Stati e Sviluppi?
Non condivido il giudizio negativo sullo sviluppo dell’Europa, implicito nella domanda. L’Unione europea è un grande successo: ha evitato le ecatombi della prima parte del secolo scorso. È un potere pubblico che si è affermato in mezzo secolo, mentre gli Stati si sono affermati in un arco di tempo oscillante tra tre e cinque secoli. Infine, interi settori legislativi, come quello ambientale, in Italia, sono tributari dell’Unione europea. Tutti circoliamo liberamente nell’Unione. Gli studenti universitari fanno esperienza all’estero, abbiamo a Firenze un Istituto universitario europeo. Guido Calabresi ha osservato qualche anno fa che gli Stati dell’Unione europea sono più uniti di quelli degli Stati Uniti d’America (in questi ultimi gli Stati sono divisi sulla pena di morte, cosa che non accade nell’Unione europea).
Come crede possa rinascere e poi formarsi una classe dirigente degna di questi due nomi, una classe che non sia acqua, e un dirigere che abbia una direzione di senso e delle competenze reali?
Solo con un massiccio investimento nell’istruzione, un diritto trascurato finora. L’istruzione produce un “people’s empowerment”, libera i cittadini da una strettoia da cui dipendono benessere, sviluppo, progresso, civiltà. Uno studio recente compiuto da uno studioso italiano negli Usa ha mostrato che è dal livello di istruzione e non da quello di reddito che dipendono benessere, assenza di criminalità, condizioni di vita, relazioni con gli altri.
La politica c’entra fino a un certo punto, il Parlamento è diventato uno stadio di tattiche trasformiste e un giardino di infanzia grillino, ma la cultura non quella dello spettacolo ma quella politica dov’è finita?
C’è, ma è rinchiusa nelle accademie. È spesso debole per aver per troppo tempo ignorato lo studio della realtà. È debole per eccessiva chiusura nei saperi disciplinari. Ma anche i mezzi di comunicazione sono responsabili di questo “tradimento dei chierici”, perché non li chiamano a sufficienza a esprimersi.
Nel 2016, lei ha curato una raccolta di Lezioni sul Meridionalismo (Il Mulino), con interventi su Salvemini, Dorso, Rossi-Doria e gli altri grandi meridionalisti, notando che le istituzioni e le norme formali vanno necessariamente calate nelle differenti realtà sociali ed economiche. Con questa consapevolezza, come è possibile intervenire nella realtà sociale e nelle istituzioni del Mezzogiorno, per colmare il persistente divario Nord-Sud?
Sarebbe necessaria una nuova Cassa per il Mezzogiorno, cioè una concentrazione straordinaria di risorse umane e finanziarie su obiettivi chiari, con tempi definiti. L’attuale frammentazione delle energie su tre livelli (Europa, Stato, regioni) si sta rivelando poco funzionale.
Il populismo ha già vinto? Il taglio dei parlamentari (senza alcuna motivazione razionale e fuori da qualsiasi contesto di riforma elettorale), la riduzione indiscriminata dei vitalizi/pensioni, il ridimensionamento drastico del ruolo del Parlamento, il referendum propositivo senza quorum, l’esasperazione personalistica delle leadership, il discredito nei confronti della politica: si tratta di altrettante forme di demagogia con tendenze plebiscitarie e autoritarie che hanno fatto del populismo l’ideologia dominante. Ciò a prescindere da mutamenti istituzionali e riforme di sistema. Il taglio del numero dei parlamentari, posto come condizione da M5stelle per la realizzazione del programma di governo segnala che, in ogni caso, il populismo ha già vinto?
La riduzione dei parlamentari è un chiaro attacco alla democrazia rappresentativa, ma può anche avere una giustificazione razionale: da mezzo secolo abbiamo venti ulteriori legislatori, i consigli regionali, che fanno lo stesso mestiere del Parlamento, ed è quindi ragionevole ridurre i membri di quest’ultimo. Restano i problemi successivi: leggi da modificare di conseguenza e formula elettorale.
Per iniziativa di Ugo Mattei e Alberto Lucarelli il disegno di legge su “beni comuni, sociali e sovrani” elaborato dalla cosiddetta commissione Rodotà è stato riproposto quale progetto di legge di iniziativa popolare. Qual è la sua opinione in merito a tale iniziativa e, più in generale, qual è la sua posizione sul tema dei beni comuni?
La corrente favorevole a una normativa sui beni comuni ha scoperto in ritardo, sotto l’influenza di studiosi stranieri, istituti che esistevano in Italia da secoli, le proprietà collettive, gli usi civici. Preferirei rafforzare gli istituti che abbiamo, piuttosto che inseguire mode straniere. Aggiungo che le condizioni del nostro Paese in molti casi impongono l’esercizio privato di servizi, perché quello pubblico finisce con il degrado, che incentiva il ricorso parallelo a succedanei offerti dal settore privato.
Negli ultimi decenni si stanno affermando molte esperienze di democrazia diretta, partecipativa e deliberativa che riprendono vecchie pratiche o ne mettono in campo di nuove – dal sorteggio, ai referendum, all’utilizzo delle piattaforme informatiche –, ma che sono tutte accomunate dal superamento dei partiti, della delega e della tradizionali formule della rappresentanza politico-elettorale come strumenti privilegiati di aggregazione, mediazione, sintesi e trasmissione degli interessi e delle domande sociali. Come giudica queste esperienze? Quali sono i loro pregi e i loro limiti?
Giudico positivamente le esperienze di democrazia deliberativa o partecipativa (di cui stranamente non si parla in Italia), negativamente quelle di democrazia referendaria (perché si prestano a manipolazioni e sfruttamento in senso plebiscitario). La democrazia partecipativa richiede un centro che prende le grandi decisioni (il Parlamento). Le periferie informano, consultano, ascoltano le comunità locali. La democrazia referendaria ha in sé due elementi negativi. Tende a escludere il dialogo, la riflessione, la discussione. Si presta a un uso plebiscitario (si pensi soltanto al referendum del 2016 e all’uso che se ne è fatto).
Nel 1995 Christopher Lasch scrisse: “La difficoltà di porre dei limiti al potere della ricchezza fa capire che è la ricchezza stessa che deve essere limitata. Quando il denaro parla, tutti sono costretti ad ascoltare. Per questo una società democratica non può permettere un’accumulazione illimitata”. Alla luce del forte e costante aumento delle disparità economiche e sociali a cui stiamo assistendo da anni in Italia e in molti altri paesi, quanta diseguaglianza può sopportare la democrazia?
Penso che vadano innanzitutto valutate accuratamente le diseguaglianze. La maggior parte dei calcoli tiene conto solo dei redditi. Bisogna valutare l’effetto del sistema fiscale (della progressività). E calcolare l’effetto delle government largess, cioè dei trasferimenti diretti a ridurre le diseguaglianze, in attuazione del principio di eguaglianza in senso sostanziale. Bisogna mettere questi elementi nel conto delle diseguaglianze, altrimenti – per un paradosso – non si mettono nel conto delle diseguaglianze proprio gli effetti delle istituzioni che in un secolo sono state introdotte – sotto la pressione delle forze popolari, per assicurare l’eguaglianza sostanziale. Una volta valutate attentamente le diseguaglianze, ne vanno studiate le cause, che non risalgono alla globalizzazione, ma vanno cercate nei cambiamenti tecnologici in corso, che stanno modificando il lavoro e i lavori. Fatto questo, occorre rafforzare lo Stato del benessere: abbiamo bisogno di un nuovo Beveridge.
Quanto crede che possa durare un’Europa che come si diceva dell’Italia è stata fatta ma non sono stati fatti gli europei? Un’Europa che si tiene in piedi ma non cammina in avanti? che non è uno Stato e ancora meno un Divenire? che fa solo trattative e non ha un processo o un disegno comune se non difensivo e necessitato dagli ordini di grandezza di altri Stati e Sviluppi?
Non condivido il giudizio negativo sullo sviluppo dell’Europa, implicito nella domanda. L’Unione europea è un grande successo: ha evitato le ecatombi della prima parte del secolo scorso. È un potere pubblico che si è affermato in mezzo secolo, mentre gli Stati si sono affermati in un arco di tempo oscillante tra tre e cinque secoli. Infine, interi settori legislativi, come quello ambientale, in Italia, sono tributari dell’Unione europea. Tutti circoliamo liberamente nell’Unione. Gli studenti universitari fanno esperienza all’estero, abbiamo a Firenze un Istituto universitario europeo. Guido Calabresi ha osservato qualche anno fa che gli Stati dell’Unione europea sono più uniti di quelli degli Stati Uniti d’America (in questi ultimi gli Stati sono divisi sulla pena di morte, cosa che non accade nell’Unione europea).
Come crede possa rinascere e poi formarsi una classe dirigente degna di questi due nomi, una classe che non sia acqua, e un dirigere che abbia una direzione di senso e delle competenze reali?
Solo con un massiccio investimento nell’istruzione, un diritto trascurato finora. L’istruzione produce un “people’s empowerment”, libera i cittadini da una strettoia da cui dipendono benessere, sviluppo, progresso, civiltà. Uno studio recente compiuto da uno studioso italiano negli Usa ha mostrato che è dal livello di istruzione e non da quello di reddito che dipendono benessere, assenza di criminalità, condizioni di vita, relazioni con gli altri.
La politica c’entra fino a un certo punto, il Parlamento è diventato uno stadio di tattiche trasformiste e un giardino di infanzia grillino, ma la cultura non quella dello spettacolo ma quella politica dov’è finita?
C’è, ma è rinchiusa nelle accademie. È spesso debole per aver per troppo tempo ignorato lo studio della realtà. È debole per eccessiva chiusura nei saperi disciplinari. Ma anche i mezzi di comunicazione sono responsabili di questo “tradimento dei chierici”, perché non li chiamano a sufficienza a esprimersi.
Nel 2016, lei ha curato una raccolta di Lezioni sul Meridionalismo (Il Mulino), con interventi su Salvemini, Dorso, Rossi-Doria e gli altri grandi meridionalisti, notando che le istituzioni e le norme formali vanno necessariamente calate nelle differenti realtà sociali ed economiche. Con questa consapevolezza, come è possibile intervenire nella realtà sociale e nelle istituzioni del Mezzogiorno, per colmare il persistente divario Nord-Sud?
Sarebbe necessaria una nuova Cassa per il Mezzogiorno, cioè una concentrazione straordinaria di risorse umane e finanziarie su obiettivi chiari, con tempi definiti. L’attuale frammentazione delle energie su tre livelli (Europa, Stato, regioni) si sta rivelando poco funzionale.
Il populismo ha già vinto? Il taglio dei parlamentari (senza alcuna motivazione razionale e fuori da qualsiasi contesto di riforma elettorale), la riduzione indiscriminata dei vitalizi/pensioni, il ridimensionamento drastico del ruolo del Parlamento, il referendum propositivo senza quorum, l’esasperazione personalistica delle leadership, il discredito nei confronti della politica: si tratta di altrettante forme di demagogia con tendenze plebiscitarie e autoritarie che hanno fatto del populismo l’ideologia dominante. Ciò a prescindere da mutamenti istituzionali e riforme di sistema. Il taglio del numero dei parlamentari, posto come condizione da M5stelle per la realizzazione del programma di governo segnala che, in ogni caso, il populismo ha già vinto?
La riduzione dei parlamentari è un chiaro attacco alla democrazia rappresentativa, ma può anche avere una giustificazione razionale: da mezzo secolo abbiamo venti ulteriori legislatori, i consigli regionali, che fanno lo stesso mestiere del Parlamento, ed è quindi ragionevole ridurre i membri di quest’ultimo. Restano i problemi successivi: leggi da modificare di conseguenza e formula elettorale.
Per iniziativa di Ugo Mattei e Alberto Lucarelli il disegno di legge su “beni comuni, sociali e sovrani” elaborato dalla cosiddetta commissione Rodotà è stato riproposto quale progetto di legge di iniziativa popolare. Qual è la sua opinione in merito a tale iniziativa e, più in generale, qual è la sua posizione sul tema dei beni comuni?
La corrente favorevole a una normativa sui beni comuni ha scoperto in ritardo, sotto l’influenza di studiosi stranieri, istituti che esistevano in Italia da secoli, le proprietà collettive, gli usi civici. Preferirei rafforzare gli istituti che abbiamo, piuttosto che inseguire mode straniere. Aggiungo che le condizioni del nostro Paese in molti casi impongono l’esercizio privato di servizi, perché quello pubblico finisce con il degrado, che incentiva il ricorso parallelo a succedanei offerti dal settore privato.