Un grande libro di Giuseppe Montesano
Per intere generazioni di lettori, le enciclopedie o le storie universali della letteratura sono state il succedaneo glorioso di un’esperienza mistica. Finalmente, qui, niente più ordini di appartenenza nazionale, né labili, imprecisi distretti cronologici. Tenere in mano uno di quei volumi universali permetteva l’ebbrezza di accarezzare con gli occhi una totalità esatta e indiscriminata, democratica: sunti dettagliati di opere dimenticate, brevi ma esaurienti biografie di Vati, minuscole fotografie in bianco e nero, con date e luoghi di decessi (a volte enunciati col brivido dell’incertezza); e infine, quegli straordinari, amabili Minori, che popolano a bizzeffe le enciclopedie universali e che ci attraggono sempre per la loro ostinata resistenza a iscriversi nel corpaccione liscio e continuo della Storia. Che dire poi se quell’universale era anche tascabile? La nostra epoca di frammentazione e scomposizione (o decomposizione) digitale, sembra aver perduto questa ebbrezza; le enciclopedie che frequentiamo quotidianamente su internet conoscono maggiori approfondimenti e collegamenti, senz’altro, ma non ambiscono più a quel sogno di totalità chiusa e compatta, rilegata, che ci appare oggi non solo lontano, ma impossibile. Il vortice inclusivo, costantemente aggiornato delle enciclopedie di internet è nemico dell’immagine della totalità, che – come insegnano gli orientali – si basa su un numero finito di elementi, cristallizzati entro un ordine significativo.
Il libro di Giuseppe Montesano, Lettori selvaggi, può dare, a chi lo sfogli, un simile piacere conoscitivo, ma di natura meno ingenua e adolescenziale di quello dato a chi ancora palpeggi le enciclopedie universali. Quello di Montesano, infatti, non è un’enciclopedia né una vera e propria storia della letteratura, ma piuttosto l’archivio privato segreto di un lettore selvaggio. Il carattere personale, che sembrerebbe a tutta prima rappresentare il limite di questo libro, è invece il più prezioso antidoto di Montesano a una forma di lettura che, si teme, vada ora per la maggiore: la lettura autoreferenziale. Montesano legge – e scrive – per non essere più se stesso (secondo un principio che Flaubert applicava alla propria scrittura). Egli ha fatto propria la lezione di Alberto Savinio, che compilava negli anni quaranta del secolo scorso uno dei suoi capolavori, pubblicato solo dopo la sua morte, la Nuova Enciclopedia, partendo proprio dalla costatazione dell’impossibilità di un sapere totale e chiuso, definitivo. Sembra un paradosso? No, proprio questa impossibilità spingeva Savinio – e Montesano, ora, insieme a lui – a ritracciare, come un agrimensore, nuove e inesplorate possibilità letterarie, partendo dalle proprie sterminate letture. Il carattere arbitrario e capriccioso delle scelte (verrebbe sempre da domandare all’autore: “e perché questo scrittore no?”), non è in nessun caso il pretesto per la compilazione di un canone personale, come quelli che sono soliti fare certi professori americani in pensione: è un ritratto della letteratura in tutte le sue estreme possibilità (anche quelle non scritte), quello che Montesano vuole dipingere, non un autoritratto camuffato.
Che cos’è, innanzitutto, un lettore selvaggio? È il contrario, vorremmo dire, del lettore istruito. Il lettore istruito legge i libri che già conosce, che sa situare nella mappa ordinata della propria biblioteca, che trova recensiti nelle riviste giuste, che lo rassicurano. È proprio se stesso, come lo invitano tutti a essere, e si guarda bene dal riconoscere a ciò che legge un valore oggettivo nel mondo (è il dramma di una generazione incapace di dire, con meraviglia, “è bello!”, ma solo “mi piace”).
Il contrario di questo placido lettore, è il lettore selvaggio: egli legge di tutto e in qualsiasi direzione, con la furia di un etnologo che compie i suoi viaggi, per se dépayser. È il suo fiuto, la sua immaginazione a guidarlo; o meglio, è un’urgenza sotterranea più simile a quella del rabdomante, o del mantico che legge le foglie e il volo degli uccelli, che a quella del professore di storia della letteratura. E questo libro ha, in effetti, una vocazione mantica: come il mantico divinava ciò che leggeva a partire da una domanda, formulata nel momento del pericolo, così le numerose schede sugli autori nel volume sono altrettante domande poste dal lettore selvaggio in un momento di pericolo. Poste a chi? La risposta di Montesano è inequivocabile: alla vita. Se la vera vita è altrove – questo uno dei ritornelli che scandiscono il libro – allora quell’altrove deve essere qui e ora, e i libri che leggiamo non sono che gli strumenti con cui cerchiamo di evocare questa vita e di lavorare impazientemente per la trasformazione di essa.
È questa, infatti, una cultura viva perché ferocemente interessata; lucida, perché non schiacciata sull’attualità. A che cosa ci serve leggere Gogol’, i Vangeli Gnostici, Abhinavagupta, Hegel e Jonathan Swift? E Marina Cvetaeva, Guénon, Torquato Tasso, Spinoza, Fourier e Anna Maria Ortese? E Karl Polanyi? E lo Zohar? E Glenn Gould? – sì, se è possibile leggere il volo degli uccelli, è possibile leggere anche un pianista, e sono molte le opere non letterarie che subiscono, in queste pagine, la trasformazione in letteratura. Non importa qui citare La biblioteca di Babele di Borges o il Passagenwerk di Benjamin: i riferimenti potrebbero moltiplicarsi, e capiamo presto che la domanda è posta male. Non si tratta di sommare le letture o i frammenti più impensabili, ma di aprire il più possibile il compasso della mente.
Che cosa succede se non lo facciamo? Questo è il pericolo cui si accennava prima. Montesano sembra dire che se non poniamo queste domande alla vita, attraverso i libri, noi semplicemente diventiamo più fragili e arrendevoli, ci facciamo più facilmente schiacciare da qualcosa di sordo, che resta innominato nel corso del libro, ma rappresenta l’opposto, concretissimo, della vera vita (quindi, forse, l’opposto dell’altrove). La soluzione di Montesano è un lieto invito alla sovversione degli schermi, alla diserzione di pubblicità e mode culturali attraverso la lettura disordinata, folle, dei libri più disparati (anche, magari, quelli pubblicizzati dal mercato). Solo così sortirà qualcosa di diverso dai nostri gusti personali e dai gusti imposti. Di contro alla selezione, così povera e arida, operata per noi dai distributori, la risposta non è leggere solamente certi libri, puri e al riparo dalle classifiche; ma leggere tutto, far guadagnare spazio e aria alla nostra intelligenza, da nutrire adeguatamente solo attraverso rissose coabitazioni, che ci mettano in discussione, a campo aperto. La stessa forma di questo libro (che sembra pronunciato con un fiato solo, attraverso la continua ripresa di una voce sospesa), tenta proprio di intrecciare in un discorso solo le più diverse e lontane figure, quasi per il gusto di vedere che cosa si può produrre attraverso l’urto e la frizione dei nomi. Qualcosa, infatti, lo speriamo, si produrrà.
Questo non è affatto un libro specialistico, e tradisce anzi la natura assolutamente dilettantesca, nel senso nobile, del lettore selvaggio, che rappresenta una terza possibilità tra il lettore specialista e il lettore informato. Di contro alla vuota e inerte smania di letture del lettore informato, e alla frammentazione cieca del lettore specialistico, il modello di lettura che questo libro ci propone è un altro, l’unico possibile. Bobi Bazlen ha scritto: “Un tempo si nasceva vivi e a poco a poco si moriva. Ora si nasce morti – alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi”. Un metodo per diventare vivi ci sembra senza dubbio seguire l’esempio indicato da questo libro e diventare anche noi, il più possibile, lettori selvaggi.