Un cimitero in tunisia
di Taddeo Mecozzi
A Zarzis, in Tunisia, a pochi chilometri dalla Libia, c’è un cimitero. Se così lo si può chiamare. È un cimitero di cui, se solo si trovassero tutti i possibili candidati ad abitarlo, si parlerebbe moltissimo. Se ne discuterebbe ovunque perché non ci sarebbe già più spazio per tenere i corpi di tutti quelli che gli sono destinati. Se ne parlerebbe con angoscia perché sarebbe senz’altro uno dei cimiteri cresciuti di più negli ultimi venti anni. Se ne parlerebbe con orrore perché i corpi che vi vengono sepolti non sono quasi mai interi, a volte non hanno i vestiti, sono mutilati e già decomposti. E invece in pochi sanno che esiste e che ogni giorno, seppur non come dovrebbe, perché si recuperano con fatica i suoi ospiti, cresce, cresce e cresce, fino a non bastare più il poco spazio che ha. Tra qui e l’Italia il numero di questi cimiteri aumenta di anno in anno.
A Zarzis c’è una lunghissima spiaggia. La sabbia è molto fine e si fa fatica, pur camminando verso il mare, a immergersi completamente nell’acqua. Il sole è forte e la sua luce è brillante e chiara. Gli occhi e la fronte sono sempre corrugati e si proteggono dal sole.
Lungo la spiaggia sono diversi i ristoranti e i caffè. Anche d’inverno i tavoli di plastica e le sedie colorate sono gettate sulla spiaggia. La gente del posto mangia e beve sotto gli ombrelloni di paglia e un cameriere in ciabatte porta cibo e bevande. Tutt’intorno immondizia, case abbandonate, case in costruzione, palazzi mai completati e montagne di detriti completano lo scenario.
Si sa che il mare, prima o poi, restituisce tutto quello che gli uomini vi gettano. In particolare, quando finiscono le mareggiate, lungo il bagnasciuga si forma un’ondeggiante striscia di detriti che, quando il mare si ritira, rimane lì a far da confine tra l’ultimo punto in cui battono le onde e il primo in cui la sabbia rimane asciutta.
Dopo la mareggiata, le onde lasciano in terra rami, alghe, barattoli di alluminio, bottiglie di plastica, sacchetti, vestiti, borse, scatole di polistirolo, conchiglie e, alle volte, da una decina di anni a questa parte, corpi umani, o almeno quel che ne resta.
Sono i corpi di chi ha scelto di morire, sono i corpi di persone che non amano la vita, che sono partite così, senza conoscere il mare, sostiene Akim passeggiando tra tumuli di sabbia. Sono i corpi, o i brandelli, di chi ha cercato di attraversare il mare nel punto più stretto che separa l’Europa dall’Africa, il giardino incantato dall’immondezzaio della terra.
E così, mentre la maggior parte di noi ha continuato e continua a mangiare, qualcuno ha cominciato a raccogliere i brandelli dei suoi simili dalla spiaggia per dargli un posto dove risposare, per sedare la propria e la nostra vergogna di fronte al delitto che ogni giorno si consuma sotto i nostri occhi informati, indignati, impotenti e alle volte complici.
Così, Chamseddine Marzoug, volontario della Croce Rossa, ex pescatore ed ex tassista, ha cominciato a raccogliere i corpi mutilati e a seppellirli, a dargli un posto dove risposare. Ha percorso una strada di fango e sterpaglie i cui argini sono fatti d’immondizia e il cui contorno sono campi disseminati di sacchetti di plastica e altra immondizia. È arrivato alla vecchia discarica di Zarzis. Ne ha pulito un angolo, e vi ha aggiunto gli scarti dell’umanità che nessuno vuol raccogliere. A discarica hanno aggiunto discarica.
Qui, nella sabbia, nel fango, negli acquitrini e nella spazzatura, un pescatore in pensione ha trovato l’unico posto che volesse accogliere i respinti da ogni parte del mondo e ha inaugurato un cimitero. Un branco di cani randagi veglia sui defunti; lui s’impegna per rendere dignitoso il trapasso di decine di persone senza nome.
In mezzo a una distesa di spazzatura si apre un angolo di sabbia dove sono allineati decine di cumuli di altrettanta sabbia e sotto cui riposano i corpi di altrettante persone morte in mare nel tentativo di raggiungere la Sicilia.
Di loro non si sa nulla. Delle decine di persone sepolte a Zarzis di nessuno si conosce il nome. I fiori e i pali posati sopra ogni fossa non hanno nome. Un tumulo solamente porta il nome di una giovanissima ragazza nigeriana che molti in città conoscevano. Aveva vent’anni. Aveva provato ben tre volte ad attraversare il mare ma era dovuta sempre ritornare, viva. L’ultima volta è tornata sulle coste di Zarzis senza vita.
Attorno ai cumuli di sabbia senza nome Chamseddine si è occupato di piantare degli alberi che col tempo circonderanno i defunti e forse li proteggeranno dal caos e dall’abbandono che li circonda. A fare da ingresso al cimitero una scritta in decine di diverse lingue annuncia che questo è il Cimitero dei migranti. Ai piedi dell’insegna Chamseddine Marzoug ha raccolto in un cerchio bottiglie di plastica piene o semi piene assieme a salvagenti. Tutti oggetti restituiti dal mare.
Le ragioni che spingono a questa disperata traversata sembrano ormai le stesse che accompagnano le giovani generazioni di italiani a lasciare il proprio paese per il nord del mondo, ossia la ricerca di un lavoro stabile e dignitoso.
È questo quello che descrive il rapporto Fuir l’enfer en Lybie, presentato dal Forum Tunisien des droits économiques et sociaux in occasione della giornata mondiale dei migranti svoltasi a Tunisi il 18 dicembre 1917. Su 74 persone intervistate, il 78% ha dichiarato di voler lasciare il proprio paese per ragioni eminentemente economiche. Si tratta di soggetti intervistati nel 2017 da Reem Bouarrouj a bordo della nave Acquarius, che svolge operazioni di salvataggio nel Mediterraneo per conto della ong Sos Méditerranée.
Akim, dopo aver a lungo viaggiato, non è più dello stesso parere. Akim ha vissuto in Italia dieci anni, è nato in Libia, di cui ha la cittadinanza, assieme a quella tunisina. Gli piaceva tornare spesso in Libia, ma oggi c’è la guerra, c’è una gran confusione e bisogna stare attenti a uscire, credimi, non puoi girare in strada con la tua donna, rischi di vedertela portare via da uomini armati e di essere malmenato. In Libia l’unico posto tranquillo oggi è il cimitero!
È stato in Germania ma non gli è piaciuta: le persone erano antipatiche, o forse io non capivo la lingua, insomma sono rimasto un mese e sono scappato.
In Italia ha vissuto a Vercelli, lavorando nelle risaie per diversi anni. È stato persino a Parigi ma: se devo proprio dirlo, il posto migliore che io abbia visto è Zarzis. Li vedo i ragazzi, vogliono tutti partire, vogliono tutti vedere l’Europa di cui sentono tanto parlare ma io lo so, ci sono stato. Il posto più tranquillo e sicuro è Zarzis, qui c’è lavoro. Abbiamo il mare, qui vicino c’è la campagna, c’è il turismo, insomma, non ci manca niente.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 48 de “Gli asini”: acquista il numero e abbonati per sostenere la rivista.