Tutti insieme appassionatamente

Nel 1983, commentando gli esiti delle elezioni politiche, Luigi Pintor coniò per il suo giornale un titolo destinato ad un successo duraturo: Non moriremo democristiani. Le cose non andarono esattamente come immaginava Pintor. La balena bianca – come l’aveva definita ironicamente un famoso giornalista (poi sprofondato in un acrimonioso e fazioso revisionismo storico) – non venne sconfitta dalle forze politiche di sinistra (anzi, gli eredi del Pci convolarono a nozze con i suoi balenotteri). Rimase spiaggiata, spinta a riva da correnti generate non dalla politica ma dalla sua crisi profonda.
Se non corriamo più il rischio di morire democristiani, incombe su di noi una minaccia non meno grave: quella di morire sotto la grigia e opprimente cappa dell’indistinzione. Uso volutamente questo vocabolo che i dizionari indicano come antico o raro nella lingua attuale, perché una parola fuori dal tempo rende meglio l’idea di una politica fuori dal tempo, sradicata dai processi sociali e spacciata – però – come l’unica realistica possibilità. Solo un’autodistruttiva pulsione all’indistinzione può infatti spiegare l’accettazione da parte di ciò che rimane della sinistra di sedere in un Governo di cui fanno parte praticamente tutti, compresi i rappresentanti della destra più becera. È passato poco più di un anno da quando le elezioni regionali in Emilia Romagna furono trasformate in una partita decisiva per l’Italia intera e gli elettori sentirono il dovere di esprimere un voto che in una situazione diversa non avrebbero mai concesso (infatti fino alla vigilia tutti i sondaggi erano concordi nel pronosticare la sconfitta del centrosinistra). Dobbiamo fermare a tutti i costi la destra razzista e populista, fu detto. Con quella destra razzista e populista oggi si sta intorno allo stesso tavolo, senza imbarazzo, e fuori dalle stanze del Palazzo i due contendenti di quella competizione feroce ora si scambiano segnali amichevoli.
L’idea di abbracciare l’avversario per tutelare gli interessi del paese non è nuova nella tradizione della sinistra italiana. In un contesto storico e politico completamente diverso rispetto a quello attuale, Enrico Berlinguer pensò al compromesso storico – idea elaborata a partire dal colpo di stato in Cile – come una garanzia per la tenuta del sistema democratico, alla luce dei pesanti condizionamenti internazionali. Sfociata alla fine degli anni Settanta nella sterile formula dell’appoggio esterno ad un governo democristiano e drammatizzata dal sequestro di Aldo Moro nel giorno stesso del voto di fiducia, quella strategia segnò il declino del Pci, e a nulla servì la correzione di rotta impressa dal suo leader ormai indebolito negli ultimi anni della sua segreteria.
In anni più recenti, il governo “tecnico” guidato da Mario Monti tra la fine del 2011 e la metà del 2013 fu possibile grazie a un’ampia coalizione che comprendeva, oltre al Pd, anche il partito di Berlusconi. Il Pd sostenne con convinzione una politica di forte contrazione della spesa pubblica e si spinse fino a modificare la Costituzione per introdurre il pareggio di bilancio. La rinuncia ad una propria politica economica e sociale e l’abdicazione alle ricette neoliberiste erano in qualche modo scritte nell’atto costitutivo del partito, e in quella fase furono declinate in modo particolarmente aggressivo. Il Pd, non ne uscì bene, come sappiamo. Alle elezioni politiche del 2013 perse quasi un terzo dei voti rispetto alla tornata precedente, mentre il Movimento 5 Stelle, alla sua prima prova in campo nazionale, conquistò un quarto dell’intero elettorato.
L’esperienza mostra che l’indistinzione non paga, e non solo in termini elettorali. La società non è omogenea, e pretende che la disomogeneità venga rappresentata. Nella crisi irreversibile dei partiti e dei sindacati, questa rappresentanza ha trovato da tempo altre case in cui alloggiare. Nulla fa pensare che questa volta andrà diversamente. Se il Movimento 5 Stelle, già minato dall’incapacità di un gruppo dirigente che ha rapidamente dissipato tutto ciò che aveva altrettanto rapidamente raccolto, uscirà ulteriormente indebolito dal nuovo capitolo della sua mutevole esperienza di governo, se anche la Lega subirà in qualche modo una “normalizzazione” a causa della sua strumentale giravolta, se tutti – litigando e sgomitando per contendersi il ruolo di primo della classe – finiranno per suonare senza troppe stonature la stessa partitura sotto la guida severa di un abile direttore d’orchestra, il rifiuto dell’indistinzione troverà altre strade. Non bisogna farsi ingannare dall’apparente unanimismo del momento, artificialmente alimentato da un apparato mediatico ormai privo di qualsiasi principio etico e precipitato nell’adulazione e nella cortigianeria. La pandemia sta determinando una crisi economica e sociale che segnerà il paese per lungo tempo e di cui non siamo ancora in grado di vedere pienamente caratteri e dimensioni. Nessuno è in grado di prevedere quali direzioni prenderà la reazione alla crisi, ma c’è da temere che – lasciata senza interlocutori in grado di comprenderne la natura e interpretarne le domande – possa assumere fisionomie ancora più “qualunquiste” rispetto a quelle incarnate dal Movimento 5 Stelle – che aveva fatto dello slogan “né di destra né di sinistra” il suo primo marchio di fabbrica – o ancora più rozze e violente di quelle alimentate da Salvini.
Se andiamo a scomporre gli elementi su cui si basa la coalizione di governo, la possibilità di questi esiti appare ancora più chiara. La prima componente è quella del conformismo. Grattando sotto le manifestazioni soggettive di egotismo – che ormai viaggiano a briglia sciolta anche grazie ad un uso incontrollato dei social media – tutti i protagonisti convergono verso un nucleo centrale di idee intoccabili. Nascosti sotto formule buone per tutte le occasioni e apparentemente neutrali (riforme, transizione ecologica, resilienza…), i principi fondamentali del neoliberismo vengono condivisi in modo trasversale, ed è facile intuire che guideranno le scelte strategiche del Recovery Plan. Il coinvolgimento di una società privata di consulenza statunitense nella stesura del Piano (la famigerata McKinsey) è un segnale inequivocabile.
La seconda componente è la depoliticizzazione. Il Parlamento è da tempo esautorato, l’abuso dei decreti legge ne ha decretato la mutazione in una appendice del potere esecutivo, e la metamorfosi si è compiuta in modo forse definitivo durante la pandemia, quando la principale istituzione democratica del paese ha brillato per la sua totale assenza. La retorica della competenza – complice la disarmante incompetenza di gran parte del ceto politico – ha delegittimato la sfera politica insinuando sempre più in profondità nel corpo sociale il dubbio che un governo di tecnici possa risultare preferibile. Mario Draghi arriva nel momento in cui questo desiderio si fa più forte, spinto dai bisogni e dalle paure che la crisi economica e l’emergenza sanitaria portano con sé. La sua autorevolezza – contrapposta alla scarsa credibilità di molti esponenti della compagine che lo sostiene – ne fa un personaggio potenzialmente adatto a ridurre la sfiducia. Certo, la definizione di “governo tecnico” è imprecisa e fuorviante, perché la fiducia al governo segue il percorso costituzionale, che è un percorso politico, e soprattutto perché sarebbe ingenuo pensare che i “tecnici” non abbiamo una visione politica. Quella di Draghi è chiara, e in passato ne ha mostrato sia il volto più duro (la lettera firmata congiuntamente con il suo predecessore alla Banca centrale europea Jean Claude Trichet nel 2011 – vero e proprio diktat al governo italiano in tema di limitazione della spesa, liberalizzazione dei servizi pubblici, riforma delle pensioni e del mercato del lavoro – e la decisione di chiudere le banche in Grecia nel giugno 2015, passaggio che si rivelò cruciale per spingere il governo ad accettare il memorandum della “Troika”) sia quello più “temperato” (la difesa della moneta europea e il Quantitative easing). In ogni caso, l’aspetto destinato ad incidere maggiormente nell’opinione pubblica è che la politica più efficace può essere solo quella lavata nell’acqua della tecnocrazia. Con la nuova coalizione, la depoliticizzazione della sfera pubblica fa un deciso passo avanti, e con essa avanza il mutamento dei processi decisionali della democrazia.
Il terzo aspetto è la mancanza di cultura politica, di una visione approfondita delle trasformazioni globali, di un quadro coerente di idee in grado di sfidarle. Il Pci si trovò disarmato di fronte ai fatti dell’89 che mandarono in frantumi la sua cultura politica, e i suoi eredi non si preoccuparono di costruirne una in grado di aggregare intorno ai temi dell’uguaglianza e della giustizia sociale – abbandonati come roba vecchia – una moltitudine che andava disperdendosi.
Questi sono gli ingredienti con cui è stata messa insieme la nuova coalizione, e non c’è da stare allegri. Naturalmente qualcuno vorrà trovare consolazione, come al solito, nell’idea che in fondo non c’era alcuna alternativa, qualsiasi altra scelta avrebbe dato esiti peggiori. Ma non si arriva fin qui a causa del destino. Ci si arriva per accumulo di inerzia, complicità, inettitudine. Ci si arriva per l’incapacità di imparare dall’esperienza. Ci si arriva perché nel tempo la linea di demarcazione tra opposte visioni del mondo è stata spostata sempre più in là, fino a smarrirne la vista e a perdersi nell’indistinzione. L’unica via per uscirne è tornare a tracciare quella linea, insieme a tutti quelli che non hanno dimenticato il valore delle differenze.
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