Tra gli adolescenti
Siamo circondati da esperti, venditori di formazione e metodi. Iniziamo con il dire basta alle ricette e con lo scegliere la strada mentre si compie il cammino: “se hace camino al andar”. Il lavoro dell’operatore sociale con gli adolescenti dovrebbe essere accompagnato da continue domande più che dall’ossessione autocentrata di essere pagati poco e di avere un impiego con le caratteristiche della produzione seriale, perché semplicemente non è vero. Chi decide all’interno del proprio lavoro? Chi decide davvero? Di chi è la titolarità decisionale del progetto che ci vede coinvolti o a cui si è deciso di dare inizio? Se lo spazio di autonomia è scarso allora meglio mettere insieme un po’ di denaro con l’autofinanziamento, con le cene sociali, con le lotterie, con la richiesta di sostegno a persone sensibili ai progetti. I soldi sono sempre un problema ma meglio averne pochi maledetti e subito che non affidarsi alle chimere di finanziamenti esterni sempre più rari e sempre più vincolati. Una risorsa alternativa possono essere i bandi europei purché non ci si metta nelle mani di abili professionisti che garantiscono la sopravvivenza prima di tutto di se stessi; dell’azienda in seconda battuta – e solo se questa è abbastanza grande; operatore sociale e utenti non hanno voce. Meglio attrezzarsi tra operatori sul territorio che conoscano il progetto e si cimentino nella progettazione dei bandi europei in autonomia: con ogni probabilità è l’unico modo per tenere sotto controllo sia gli obiettivi del progetto sia il finanziamento. La possibilità di utilizzare il servizio civile regionale o nazionale non è una cattiva idea (troviamo la legge che stabilisce l’autonomia delle regioni su servizio civile), è certamente più conveniente progettare per quello regionale visto che le strutture necessarie per poter sostenere il servizio civile nazionale sono troppo dispendiose per organizzazioni sociali di medio-piccola dimensione.
Contro l’approssimazione contro la professionalizzazione
Il lavoro sociale con i ragazzi prevede un approccio a tutto tondo. Non bisogna rinchiudersi nel ruolo dell’operatore senza idee: “E ora che facciamo? Quali sono i tuoi interessi?”. La domanda deve esserci ma deve essere implicita per poter poi, anche malamente, la volta successiva aprire uno spiraglio nella direzione del desiderio indicato dal ragazzo. Meglio iniziare facendo cose fatte male, ma che stiano in un dialogo di curiosità reciproca, che propinare attività preconfezionate. Scandagliando il mondo degli adolescenti si possono incontrare passioni con cui non si ha confidenza ma che possono essere un punto d’appoggio notevole per fare leva e innescare auspicabili processi di scoperta. Diciamo soltanto di iniziare facendo le cose male con un po’ di istinto, perché all’appuntamento successivo bisogna aver studiato e capito che tipo di attività impostare. Essere ascoltati sul serio frastorna e determina conoscenza e nuove chiavi di accesso a un proprio interesse; fa sì che quell’inizio di attività maldestro, ma alla pari, generi complicità e determinazione.
Inchiesta territoriale
L’obiettivo, nel luogo dove si lavora con i ragazzi, è mettere in piedi un’attività incisiva che abbia consapevolezza di fattori quali: il numero di abitanti, quali sono le possibilità lavorative sul territorio, dove si studia, che musica si ascolta, dove si esce, dove si beve, dove e come ci si droga, chi sono i potenti e da quanto tempo lo sono, cosa prevede la prossima trasformazione urbanistica, perché certi usi e costumi si sono affermati in un determinato modo. Questa conoscenza va acquisita in gruppo attraverso inchieste. Inchiesta significa intervistare, raccogliere dati ufficiali, perdersi nel quartiere, nel territorio, in un palazzo, ma anche imparare a incrociare i dati autonomamente, senza spendere soldi per le rielaborazioni “comunicative” della ricerca. In poco tempo il miglior conoscitore delle abitudini, della vita degli adolescenti in un determinato luogo sarà chi ci ha perso tempo e energie, ma, contemporaneamente, avrà studiato come un ricercatore tutti gli elementi costitutivi di quel luogo. Se si lavora con gli adolescenti è necessario farlo insieme a loro, raccogliere informazioni indagando questo o quel mondo: la musica, una partita di calcio, una radio, la realizzazione di un blog, la promozione di un’iniziativa o di una festa. Ragione di interesse saranno le origini, le storie, le provenienze di chi suona, di chi balla, di chi aggiusta biciclette o motorini, di chi ruba o rivende, di chi studia eccetera, di chi spacca tutto. L’inchiesta sarà un’esperienza di crescita e di pungolo per chi la realizzerà e anche per il pubblico. L’obiettivo deve essere sempre dichiarato: si lavora meglio se si sa per che cosa, e se i ragazzi capiscono che si sta facendo sul serio, che si vuole capire qualcosa di più sulla questione o sulla vicenda.
Inseguirli o non inseguirli? Elemento dirimente
Un buon lavoro che non sia assistenzialismo mascherato da tutoraggio non può procedere se non si svolge un’analisi sia dei bisogni sia dei desideri. Nel caso dei bisogni senza generare false speranze con l’atteggiamento del risolutore; nel caso dei desideri è importante rapportare la fantasia con la concretezza. Quando l’adolescenza si conclude ci si trova, come in pochissimi altri momenti della vita così intensamente, a dover immaginare come proseguirà la propria esistenza. Sarebbe auspicabile aver incontrato operatori sociali che hanno forzato la mano per aprire la strada alla comprensione di cosa si può chiedere a noi stessi e in che direzione andare. Per essere incisivi è necessario un ascolto che lasci esausti: non è possibile fare altrimenti perché nel livellamento generale del lessico e dell’organizzazione dei discorsi è difficile, quanto imprescindibile, cogliere le sfumature personali, quelle caratterizzanti.
Quale rapporto stabilire tra operatore sociale, adolescente e regole?
Portare
in fondo i progetti e spiegare tutto. Rispondere “non lo so” se
non si sa e anche rilanciare con “scopriamolo insieme”. Non c’è
nessun bisogno di far emergere egomanie dell’operatore, anzi in
alcuni casi tenere un basso profilo e affidare a un costante labor
limae la smussatura di una questione lascia margini all’inaspettato.
Secondo questo approccio i ragazzi e anche gli altri interlocutori,
adulti e istituzioni, rimangono spiazzati vedendo che il non
replicare raccomandazioni stantie, proposte noiose o atteggiamenti da
guardie e ladri porta a una concreta fioritura dei comportamenti
anche nei ragazzi inizialmente più reticenti e sicuramente riottosi
a leadership educative narcisistiche e, in fondo, menefreghiste.
No alla simulazione
L’adolescente vede avvicinarsi a gran velocità il mondo adulto, è una questione istintiva per niente razionale. Nel pensare un’attività con i ragazzi il grado di simulazione deve essere ridotto al minimo. Se si fa un articolo di giornale, facciamolo davvero per il giornale della città o per un sito interessante. Se si fa un lavoro manuale con il legno facciamo tavoli e panche per il quartiere, se si organizza una gita che sia un viaggio per osservare qualcosa che riteniamo significativo. Se si fa un laboratorio teatrale che si abbia la coscienza di quante possibilità di espressione del corpo e della voce esistono oggi – di sicuro si deve dire no alla recita. Conoscere la televisione, i videogame, la musica, il calcio, la moda… Fare un diario da soli e con i ragazzi: anche nelle forme più schizoidi, ma è necessario poter costruire una traccia delle attività e verificarla con il gruppo di lavoro. Gite, laboratori di manualità e di espressione, curiosare in giro per l’Italia, studiare ciò che sembra interessante e poi riprovarci in autonomia. L’obiettivo è concedere il minimo di deroghe e giustificazioni autoassolutorie e cercare di fare “a regola d’arte”.
Controcultura
Il lavoro dell’operatore sociale non può essere esercitato senza la consapevolezza che la terra degli adolescenti è ricca di predisposizione alla disobbedienza. Che rapporto avere con la disobbedienza? Bisogna frequentarla. Sapere che è un buon grimaldello per aprire la strada a ciò che è controcultura. Non la controcultura engagé, che è semplicemente una formula posticcia per tirarsi fuori dai giochi, ma la disobbedienza culturale vera e propria: la ricostruzione artigianale delle cause, il rifiuto della pappa scodellata, la ricerca di una prospettiva collettiva anti-individualista. Praticare con gli adolescenti un orizzonte di questo tipo fa sperare ancora.
Cosa fare davanti alla provocazione, alla rabbia che rifiuta ogni complessità?
Cosa fare davanti a quell’istinto a distinguersi, a quell’urlo per esistere: triste specchio di un immaginario ristretto, di un ventaglio di possibilità ridotto dalla famiglia, dal contesto, di sicuro dagli adulti? Quale approccio? Vogliamo arrivarci con il cuore? Vogliamo arrivarci con le strategie educative? Con i manuali? Chi è l’operatore sociale per voler “salvare” qualcuno? E ammessa e non concessa l’ipotesi del “salvare”, basta questa grande determinazione “missionaria” con qualche strumento parapedagogico dell’università? Inoltre, perché l’operatore sociale dovrebbe essere così ottuso da non capire che quei gesti, quelle reazioni di rabbia, sono del tutto giustificabili? Sulla propria pelle misura che solo una valutazione un poco meno insoddisfatta della realtà rispetto a un adolescente riot fa accettare le dinamiche relazionali della società contemporanea. L’operatore sociale che lavora con gli adolescenti non può che fare una sola scelta: pensarsi come persona che lavora con un adolescente per volta. Il rapporto numerico è una premessa inaggirabile: si può arrivare a un operatore per quattro ragazzi ma non di più. In una situazione difficile, che ti lascia sensazioni costanti di impotenza, è solo un bene che le energie non si disperdano. Deve essere un rapporto fra pochi e con validi collaboratori che condividano l’impresa. Di Marco Lombardo Radice, lo psichiatra, non va tenuta solo la suggestiva immagine del suo saggio “Il raccoglitore nella segale” quando conclusivamente si descrive come sull’orlo di un precipizio in un campo coltivato ad evitare che i suoi giovani malati non precipitino; va colto anche l’aspetto radicalmente anti-seriale della sua azione medica e sociale.
Tanto tempo e deve essere divertente
Con poco tempo, e se non ti diverti, meglio smettere. I soldi vanno presi in considerazione solo in seconda battuta, anche perché se con i ragazzi hai voglia di passarci tanto tempo e succede che ti ci diverti pure – anche in mezzo a veri disastri – allora succede che fanno la corsa a chiamarti per lavorare e darti qualche soldo. E se uno lavora e ci trova anche gusto la conseguenza è che impara il mestiere.
Bisogna essere almeno in tre
Non è richiesta nessuna disponibilità a esaurirsi, e proprio per questo è utile essere almeno in tre, e con compiti interscambiabili, a occuparsi di un progetto: chi si butti a capofitto nella relazione; chi osservi contesto e relazione e sia pronto a dare il cambio; chi, osservando conflitti, passioni e scontri educativi, abbia la capacità di riportare il tutto in una realtà più ampia e che riesca a inserire nel lavoro il concetto di presenza a se stessi e al proprio tempo. Se però si cede alla tentazione del “siamo bravi solo noi: il nostro gruppo, associazione, cooperativa”, allora è il momento di rompere e uscire dalla combriccola autoincensante. La presenza al proprio tempo è forse istintiva; il “domani” invece è quasi sempre una menata: fissare, programmare organizzare sono concetti adulti. L’adolescente è participio presente del verbo crescere. C’è solo il presente e il godimento, spinto un po’ più in là, tra eccessi e noie.
Quanto subire il ricatto della relazione esclusiva operatore-ragazzo?
Saper stare con i ragazzi è un talento, ma fino a che punto? L’altra capacità che deve fare da contrappunto è quella di saper mollare la presa, saper dire “ora affari tuoi”. Concedere intimità, far venire un ragazzo in casa propria per un tè, mostrare grande disponibilità: sono tutti gesti che, nel momento in cui l’operatore sociale vorrà riconquistare la sua autonomia, il suo essere adulto, saranno di ostacolo all’interruzione dell’esercizio della sua funzione. La risposta possibile sta nell’aver pensato prima a queste e altre eventualità e aver condiviso nel progetto educativo un’idea collettiva, che coinvolga lo spazio pubblico, e non un’idea individualistica e morbosa del rapporto con i ragazzi.
Direttivi o non direttivi?
Cosa ce ne facciamo di Makarenko o di Alexander Neill se non si ha un progetto in testa, se non conosciamo il territorio e i ragazzi con cui lavoriamo? Cosa importano le mistificazioni possibili dei tanti pedagogisti che possono esserci strumentalmente d’aiuto se non ci siamo chiariti sullo specifico qui e ora di ciò che siamo a fare? Cosa immaginiamo? Una ragazza libera di pensare. Un giovane che non ha perso la rabbia, la sua, per le cose che lo riguardano e anche per quelle di tutti. Una persona che ha capito che si può anche essere poveri, ma l’importante è non fottersi. Una persona che ha capito che si può anche essere ricchi, ma che è necessario non fottere il prossimo, anzi. Qualcuno, vittima di omologazione o sottoculture, che riesce a non vergognarsi di essere curioso, di vedere un film o altro. Ci immaginiamo di trasformare qualcosa in un gruppo o in un contesto con un’esperienza residenziale: magari partendo per un viaggio con adolescenti poveri e incazzati. Potrebbero distruggere tutto, oppure i nostri pregiudizi: bisogna provare. Vale la pena di scegliersi un luogo, esserne responsabili, dare importanza ai ragazzi e dare senso a ogni azione messa in atto: il vicinato vorrà, costantemente, mandarti via, i ragazzi sono, sempre, un problema, ma la domanda rimane se il progetto dà senso alle azioni messe in atto: allora sarà possibile resistere.
Rischi
La retorica degli “ultimi” ha fatto più danni della grandine. Gli emarginati ci sono, neanche a parlarne, ma se l’operatore sostanzia la propria esistenza “in quanto salvatore degli ultimi” allora sta sbagliando, sta facendo una predica nociva a se stesso e alle persone con cui lavora. Risorse e invenzioni sono in egual modo distribuite tra utenti e operatori: alla luce dei cambiamenti culturali, sociali ed economici degli ultimi anni non è più definibile una separazione tra assistenti e assistiti.
La grande agenzia educativa e didattica, la scuola di Stato, attira su di sé attenzioni e sforzi, ma per il lavoro dell’operatore sociale è il luogo della dissipazione delle energie. La scuola i ragazzi messi male li espelle, quelli con attitudini intelligenti e sovversive non li capisce: quindi meglio starne fuori con occhi e orecchie attenti perché dentro è quasi tutto vano (che poi ci siano ragazzi, scuole, bidelli o professori in gamba – ma per il solo fatto che non vogliono morire – non è rilevante).
È rischioso spingere il rapporto educativo fino a far emergere con evidenza le contraddizioni della ragazza o del ragazzo; spingere fino a rendere chiara e dura la realtà. Può essere pericoloso sbattere in faccia a un ragazzo uno sbaglio, il limite tra fare qualcosa di educativo e rompere il rapporto è labile. Bisogna sempre ponderare e muoversi come in una cristalleria. L’adolescenza è l’età della provocazione e forzare troppo la mano può far fare gesti sconsiderati: cazzotti nel muro, calci a tutto ciò che si ha intorno, morsi a se stessi, collane o magliette strappate, chiusura profonda in sé. D’altra parte è vero che una volta superato il momento della rabbia tutto può passare in un attimo e essere dimenticato.
È necessario fare attenzione al rapporto con la politica, sviluppare una consapevolezza su quali siano i ruoli delle istituzioni, delle banche, delle fondazioni, delle cooperative nei confronti del progetto a cui si sta lavorando e, conseguentemente, condividere compromessi e obiettivi con i ragazzi. E infine domandarsi, ogni giorno, cui prodest?