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Tra Camus e Monod, Telmo Pievani e il tempo della fine

Illustrazione di Anke Feuchtenberger
29 Marzo 2021
Nicola De Cilia

Se Telmo Pievani fosse un animale sarebbe, credo, un ornitorinco, l’unico mammifero che deponga le uova, curiosa sintesi dell’evoluzione. Intanto perché Pievani insegna Filosofia delle scienze biologiche a Padova, una cattedra che è già un incrocio di discipline alquanto diverse; è un attivo divulgatore del pensiero darwiniano e scientifico, autore, finora, di importanti saggi, tra i quali Imperfezione. Una storia naturale (Raffaello Cortina 2019), Homo sapiens e altre catastrofi (Meltemi 2018) e La terra dopo di noi (Contrasto 2019, con foto di Frans Lanting). Ma, a conferma della sua natura ibrida, ora aggiunge un “romanzo filosofico su fragilità e libertà” dal titolo Finitudine (Raffaello Cortina editore, pp. 280, 16 euro). Anche questo libro è, a sua volta, una sorta di ircocervo che mescola il romanzo con il saggio. Protagonisti sono Jacques Monod e Albert Camus, due premi Nobel ribelli: il primo, un grande biologo, vinse il Nobel nel 1965 per la Medicina insieme ai due colleghi dell’Istituto Pasteur di Parigi, André Lwoff e François Jacob, per le loro scoperte fondamentali sulla regolazione genica. Fu autore, nel 1970, de Il caso e la necessità, uno dei saggi più coerentemente laici e antitotalitari del secolo scorso. Albert Camus vinse il Nobel per la letteratura nel 1957; scrittore e drammaturgo, regista e filosofo esistenzialista, autore de Lo straniero, Il mito di Sisifo, L’uomo in rivolta e La peste (per citare i titoli più importanti) era molto amico di Monod. Entrambi nella Resistenza durante la guerra, si erano incontrati nel 1948 quando Camus, direttore della rivista “Combat”, aveva chiesto a Monod di stroncare Trofim Lysenko, il “sicario” della genetica russa (e del grande botanico Nikolaj I. Vavilov, morto in Siberia perché le sue ricerche contraddicevano il materialismo dialettico marxista). Un’amicizia, quella di Monod e di Camus, cementata dall’insofferenza a ogni forma di oppressione e di ingiustizia, sostenuta da un’inesausta curiosità di conoscere e arricchita da un culto appassionato della libertà.

Partendo da queste premesse, Pievani immagina che Jacques Monod vada a trovare Albert Camus nell’ospedale di Fontainebleau per discutere di un libro che stanno scrivendo a quattro mani. Camus è a letto, cosciente ma immobilizzato in seguito a un incidente stradale (lo stesso in cui, nella realtà, aveva trovato la morte, il 4 gennaio del 1960). Alle bozze dei diversi capitoli si alternano i dialoghi tra i due, tramite i quali veniamo a conoscenza del loro progetto e di alcuni fatti importanti delle loro vite.

Il libro che stanno scrivendo è una sorta di inno alla finitudine di ogni cosa: tutto è destinato a perire, dagli organismi infinitesimali al sole, alle galassie, al cosmo intero. A sorreggere i loro ragionamenti, in cui si saldano i temi dell’esistenzialismo di Camus con l’illuminismo scientifico di Monod, troviamo il rifiuto radicale di ogni forma di antropocentrismo: la vita sulla Terra, infatti, non è che il risultato “di una gigantesca tombola genetica in cui vengono tirati a sorte dei numeri, tra i quali una cieca selezione designa i rari vincenti”, perciò anche la presenza dell’uomo è frutto di un caso fortuito. Il caso puro, quindi, è alla radice del prodigioso edificio dell’evoluzione sulla Terra che, a differenza degli organismi, non obbedisce a un programma già scritto. L’evoluzione, infatti, ha radice proprio nell’imperfezione del meccanismo di conservazione molecolare, nell’imperfezione della replicazione. Pievani, sostanzialmente, opera un montaggio molto attento dei testi sopra citati di Camus e de Il caso e la necessità, offrendo la possibilità di conoscere meglio le teorie di entrambi. Non c’è spazio, in queste pagine, per facili consolazioni o per la dottrina del disegno intelligente che la teologia ha elaborato negli anni per cercare di rispondere alle problematiche suscitate dalle scoperte scientifiche. La scienza, come la intendono i nostri due personaggi, inevitabilmente, sgretola tutte le nostre illusioni, spazza via ogni mito edificante, senza offrire spiegazione ulteriore, senza alleviare l’angoscia ma, semmai, esasperando l’assurdo della nostra condizione: la morte resta uno scandalo, non c’è un senso nella nostra esistenza e anche la conoscenza scientifica non può diventare una nuova religione mentre la natura, indifferente alle nostre sorti, non riveste in alcun modo un’autorità morale. L’unico discutibile privilegio sta nella consapevolezza della nostra finitudine: siamo zingari nel cosmo, dice Monod, e l’unico conforto è in quella solidarietà che può nascere tra emarginati. Non una resa al nichilismo e al pessimismo, dunque, ma, al contrario, “un’occasione per apprezzare la nostra libertà, e la nostra conseguente responsabilità morale, in un mondo che non aveva alcun bisogno di noi, e dunque non ci impone come pensare e come agire.” Sta a noi scegliere tra un regno di giustizia, ragione, felicità e le tenebre della diseguaglianza, della tirannia, dell’ignoranza, perché tutto ciò che attenta alla libertà e alla dignità della vita umana è il vero male da combattere.

La scienza stessa, più che relativa è provvisoria, parziale, perennemente integrabile, procede grazie al dubbio sistematico e costruttivo e la spiegazione scientifica è probabilistica, statistica, soggetta a incertezza ed errore.

Uno dei punti più delicati e controversi di Finitudine è il ruolo che, nei capitoli finali del libro immaginario, viene attribuito alla scienza. La scienza è lo strumento più potente che abbiamo per combattere la menzogna, per smantellare riposanti certezze. Qui, il romanzo acquista i toni visionari della migliore letteratura utopica: lo scienziato assume una dimensione titanica, è lui l’uomo in rivolta di cui scrive Camus, un sovversivo a tutto tondo che si rivolta contro le conoscenze acquisite, contro il sapere della propria epoca, contro ogni conservazione. Coloro che, come gli scienziati, trovano “nella ragione la maggiore e la più terribile delle passioni”, sono “i distruttori di civiltà e imperi in declino, disintegratori, deicidi, cultori del dubbio”. La scienza stessa, più che relativa è provvisoria, parziale, perennemente integrabile, procede grazie al dubbio sistematico e costruttivo e la spiegazione scientifica è probabilistica, statistica, soggetta a incertezza ed errore. In poche parole, non è tanto un corpo di conoscenze ma un modo di pensare.

Al di là del fatto che possa essere condivisa in modo unanime da tutti gli scienziati, è un’immagine affascinante, per molti versi, ma, va detto, anche inquietante: una scienza fine a se stessa che libera l’uomo da ogni servitù, sempre pronta a sfidare l’ignoto, sempre desiderosa di andare oltre, è un sogno faustiano pronto a trasformarsi nel suo contrario. (E i lettori degli “Asini” conoscono le obiezioni che muovevano alla scienza e alla tecnologia Jacques Ellul e Ivan Illich, di cui si è dato conto in queste pagine recentemente).

La scommessa su cui si chiude il romanzo è che la coscienza della finitudine ci possa donare non solo il senso della nostra appartenenza alla natura e della nostra fragilità ma anche la compassione per tutti gli altri che, come noi, sono mortali in cerca di un senso. L’approdo è verso un’etica della conoscenza basata su valori di un umanesimo scientifico, realista, ma anche socialista, non ideologico, liberato da ogni profezia sulla Storia come di ogni metafisica, che faccia leva sulle più elevate qualità umane – il coraggio, l’altruismo, la generosità, l’ambizione creatrice. Un finale che dietro l’entusiasmo rivela una certa amarezza: il sogno di Camus e di Monod risale a sessant’anni fa ma le loro parole continuano a suonare “inattuali”. Giacomo Leopardi, il principe degli “inattuali”, molti anni prima, nel Dialogo di Tristano e un amico, metteva in guardia dal divulgare le acquisizioni del pensiero filosofico frutto dell’illuminismo più radicale, “perché, in sostanza, il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più conveniente a sé. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiaggini, non crederà mai né di non saper nulla, né di esser nulla, né di non aver speranze. Nessun filosofo che insegnasse una di queste tre cose avrebbe fortuna o seguaci, specie tra il popolo: perché, non solo tutte e tre convengono poco a chi vuol vivere, dacché le due prime offendono la superbia degli uomini, ma tutte e tre per essere credute richiedono coraggio e forza d’animo.”


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