Tecnologie conviviali: come cooperare con gli esseri tecnici?
Il nuovo libro di Carlo Milani, Tecnologie conviviali, edito da Elèuthera restituisce alla materialità l’apparente immaterialità di Internet: racconta dei cavi sottomarini che permettono i collegamenti (con l’indotto di manutenzione che comporta), delle vie e dei percorsi che seguiamo quando ci colleghiamo ad un sito web, delle infrastrutture che utilizziamo online, che sono molto concrete e molto concretamente servono a scopi di dominio, potere e sorveglianza. Ma non è un testo “tecnico”, anzi. Non ci sono soluzioni tecniche per scampare alla sorveglianza: tanto più vengono sviluppati software in grado di aggirare la censura e la sorveglianza, quante più risorse verranno investite dai governi autoritari (e non!) per sviluppare sistemi ancora più sofisticati e repressivi, in un circolo vizioso potenzialmente infinito.
È un libro che impegna il lettore in difficoltà inaspettate: da un testo che parla di tecnologia, ci si aspetterebbero difficoltà tecniche, legate ai linguaggi specifici delle macchine, ai rituali o alle magie degli oggetti tecnologici. Invece il testo di Milani interroga ad un livello più profondo e presenta difficoltà di concetto. Concetto in un senso assai concreto, di forma universale che struttura la realtà: inscritti nei concetti ci sono i modi in cui interpretiamo a percepiamo la realtà, la rete di poteri che si tessono al suo interno. Il ripensamento che propone il testo è radicale e riguarda il rapporto con gli esseri tecnologici, più che con la tecnologia in astratto: la proposta è ripensare le prassi concrete attraverso le quali ci rapportiamo alle macchine che pervadono e mediano sempre di più il nostro rapporto con la realtà. Analizzare e capire, per provare a limitare la sempre più diffusa alienazione tecnologica, «il baratro che nel corso dell’evoluzione è stato scavato con gli esseri tecnici» (p.19). Alienazione che in qualche misura appare necessaria dall’interno della gabbia d’acciaio tecnoburocratica e autoritaria. Anche questa necessità peròè generata da quell’alienazione: non posso, non riesco a fare altrimenti, quindi non si può, è impossibile fare altrimenti, conclude il sillogismo del potere, che si perpetra anche attraverso l’atrofia dell’immaginazione.
Quali sono, nel concreto, gli atteggiamenti e le prassi che mediano la nostra relazione nei confronti degli esseri tecnologici? Dalle lavatrici agli smartphone, abbiamo sviluppato una relazione di co-dipendenza con questi esseri: ne siamo i padroni, decidiamo dell’accensione e dello spegnimento, dei programmi, dell’alimentazione. Ma allo stesso tempo dipendiamo dai servizi che ci offrono, siano essi panni puliti o comunicazioni rapide con amici e colleghi. Capita, che per qualche ragione la fornitura di questi servizi venga interrotta: ci accorgiamo allora, spesso con reazioni emotive scomposte, di avere una «dipendenza strutturale» (p. 43) da questi esseri e che «maggiore è la loro complessità, maggiore è la tendenza a mostrarne gli aspetti incomprensibili, misteriosi, quasi magici». Dove c’è magia, Thomas Mann lo aveva notato con acutezza, c’è autorità: ed ecco comparire gli esperti, moderni sciamani capaci di ripristinare l’ordine, di riportare alla disciplina (il corretto funzionamento) il fornitore di servizi – servo, server, elettrodomestico –.
Il potere degli esperti e delle piattaforme, in breve il dominio tecnico «non sorge per caso». Esso sta infatti «nei minimi, singolari accantonamenti di potere che generano un accumulo di potere stratificato e strutturato in maniera gerarchica, capace di farsi passare per ovvietà, logica espressione del buon senso comune, naturale stato delle cose» (p. 99). Sono molte le ragioni per cui tendiamo a delegare agli esperti e al loro bagaglio di saperi la comprensione dei meccanismi che regolano gli esseri tecnologici e che, nondimeno, pervadono le nostre vite senza che ce ne rendiamo conto. Una di queste è la tendenza a minimizzare la fatica: ridurre, fin quasi ad azzerare, gli sforzi per apprendere, per mettersi in relazione, o semplicemente per ripristinare la corretta relazione con l’essere tecnico di turno (quella – naturale – precedente al guasto). Ma perché si evita questa fatica? La giustificazione più comune tira in ballo la conoscenza e la specializzazione, che necessariamente si distribuiscono in maniera diseguale in base a capacità, interessi, propensioni ecc. Questo argomento è vero ed è falso: è e sarà sempre più assurdo pretendere che un singolo umano sia in grado di padroneggiare con expertise tutto quanto viene ascritto all’ambito dell’informatica. L’esperto di reti non sarà esperto di programmazione, quello di crittografia non conoscerà i software per la domotica e via dicendo. E quindi l’argomento è vero come è vera qualsiasi ovvietà: ma è falsa la sua conclusione, che in ragione di queste difficoltà tecniche, dovremmo affidarci ciecamente ai singoli esperti per ogni singola questione.
Dovremmo invece iniziare a ribaltare la prospettiva, sforzarci di imparare attraverso la pedagogia hacker: l’attitudine a smontare le cose, a capirne i funzionamenti interni, non per romperle, ma per svelarle e modificarle. La comprensione dei meccanismi che regolano i funzionamenti degli esseri tecnologici è fondamentale per imparare a riconoscere quelle macchine che conviviali non possono essere: «le macchine corporative, le macchine serve, gli esseri tecnici schiavi che trascorrono la loro esistenza a rendere altri esseri altrettanto servi e schiavi» (p. 178). Il libro di Milani aiuta a porre le domande giuste per poter rifiutare quelle macchine, per imparare a «disertare i sistemi tecnoindustriali di potere», a riconoscere gli «esattamenti tossici» (gli adattamenti che procedono dall’organo alla funzione) che quelli producono e a capire con quali esseri tecnici ci relazioniamo e attraverso quali mediazioni.
Quali logiche si nascondono dietro a software apparentemente semplici? Un esempio sono i meccanismi di gamificazione, l’incorporazione di schemi di gioco, più o meno competitivi, in sistemi che non sono esplicitamente ludici, e che inducono gli utilizzatori ad un utilizzo costante attraverso segnali che li gratificano. Le notifiche e i like sono input mirati a massimizzare il tempo speso sulle piattaforme. Per poter costruire una relazione conviviale con gli esseri tecnologici è necessario riconoscerne le logiche e capire quale margine di libertà e di azione lasciano a chi le utilizza. Laddove le logiche siano evidentemente legate al potere, al controllo e in generale alla limitazione della libertà in nome della comodità, bisogna semplicemente abbandonare quelle tecnologie e cercare altre soluzioni. Non ha senso infatti continuare a proporre di
«di usare bene tecnologie del genere. Al massimo possiamo individuare quali sono i caratteri selezionati dal sistema e quindi cercare di smorzare, attenuare, controbilanciare gli effetti che riteniamo sgradevoli e indesiderabili. Ma questo sforzo comporterà un sostanziale disallineamento fra l’uso previsto dal sistema e l’uso deviante che cerchiamo di farne strutturando l’interazione in maniera differente, per adattarla ai nostri fini. L’energia necessaria […] sarà maggiore, l’efficienza e l’efficacia saranno inferiori, la gratificazione complessiva risulterà minore» (p. 122).
Un esempio classico di gamificazione in didattica è il software Kahoot, le cui lodi sono tessute in ogni corso accademico di pedagogia speciale e formazione scolastica. In breve, permette di inserire una serie di domande a risposta chiusa e di far partecipare la classe tramite gli smartphone ad un quiz, di cui alla fine vengono pubblicate risposte e classifiche. L’argomento con cui vengono giustificate questa e altre simili prassi è sostanzialmente à là Woody Allen: basta che funzioni! Non è un problema utilizzare mezzi gamificati per attirare l’attenzione, se poi attraverso quell’attenzione si riescono a veicolare i contenuti. Ma, ammesso che si possa o si debba convincere allo studio tramite un quiz, resta il dilemma etico sul senso dello stesso. Ha senso uno studio indotto a livello comportamentale, come fosse una sorta di salivazione generata dalla spinta a competere in classifica con un compagno di classe? Questo studio genera apprendimenti significativi? O sono solo il surrogato in versione scolastica dei quiz, solo senza nani e ballerine? «Non era meglio un po’ d’attrito? Un po’ di fatica?» (p.177, corsivo mio).
Procedure gamificate non interessano solo la pedagogia o l’informatica:
«la gamificazione viene presentata come la panacea per istituzioni che vogliono attirare i cittadini e coinvolgerli in attività di partecipazione, […] e per chiunque desideri aumentare, intensificare e rendere più rapide le interazioni con il proprio pubblico» (p.127).
Le teorie di economia comportamentale suggeriscono alle istituzioni di non interessarsi di cultura e morale: che un cittadino sia moralmente persuaso sul tema dei rifiuti e dell’ambiente è indifferente. Serve che faccia la raccolta differenziata e butti le cicche nei posaceneri. Ed ecco delle orme, che gentilmente conducono al posacenere e che, una volta al traguardo, ringraziano il fumatore per aver salvato l’ambiente. Il quale ha così un feedback positivo rispetto al suo comportamento: una gratificazione che produce secrezioni chimiche endogene da cui egli ricava piacere. Si suppone quindi, che il soggetto ripeta quel comportamento virtuoso in ragione dell’appagamento sperimentato, anche in assenza della gratificazione esteriore (“Grazie, buttando la sigaretta qui hai salvato l’ambiente!”). Poco importa se dopo aver salvato l’ambiente gettando la cicca, salga sul Suv per percorrere i tre chilometri che lo separano da casa.
Questo tipo di condizionamenti si chiama nudging, la spintarella o spinta gentile, e mira a «manipolare la volontà senza tirare in ballo questioni etiche ed estetiche, e senza dover ricorrere a sistemi coercitivi e repressivi» (p. 147). Si tratta della tendenza a proporre una serie di soluzioni comportamentali semplici a problemi sociali complessi. Anche da questa tendenza deriva la credenza che le tecnologie siano la ricetta giusta, la soluzione inevitabile: in effetti tramite meccanismi tecnologici e social si possono condizionare le persone a fare cose, comprare merci, votare persone. Quello di cui abbiamo bisogno è semplicemente di istituzioni buone, che utilizzino questi mezzi neutri nel modo giusto. Facile, no?
Nel caso dei sistemi elettronici ed informatici le gratificazioni sono costanti: notifiche, like, suggerimenti diventano sempre più pervasivi. I nuovi applicativi di benessere digitale sono software ossimori, che dimostrano semplicemente come l’abuso di social e messaggistica sia un problema molto diffuso. Input costanti, mirati a massimizzare le scariche dopaminergiche e attraverso queste a massimizzare il tempo speso sulle piattaforme. È inutile «dare degli stupidi a degli umani che se la godono, impegnati ad auto-somministrarsi scariche di neurotrasmettitori» (p. 135). Come inutile e dannoso è il mantra primitivista del «si stava meglio prima»: le forze produttive rimangono in una certa misura indipendenti dalle volontà dei singoli, sono i rapporti di produzione ad essere in parte funzione di tali volontà e soggettività. Ignorare semplicemente l’esistenza e la pervasività degli esseri tecnici in nome di una perduta età dell’oro analogica (che rimane comunque un’età di esseri tecnici, come la ruota o l’aratro) significa auto-isolarsi, ridursi all’impotenza, sognare castelli abitando baracche.
Una soluzione non esiste, ma possono essere individuati ingredienti, spinte, direzioni per ricreare una relazione conviviale con gli esseri tecnici. Relazionarsi con loro conferisce potere, come la relazione con qualsiasi strumento (fuoco, ruota, aratro, ecc.). È fondamentale costruire relazioni in grado di distribuire il potere conferito da questo sapere, che estingua gli esperti e materializzi la tecnologia attraverso un’attitudine, pedagogica e non, fondamentalmente hacker. Un‘attitudine curiosa, che accoglie la fatica della ricerca, della condivisione e della traduzione, aumentando la biodiversità di sistemi e inter-facce (le superfici di faglia, di separazione e insieme comunicazione tra sistemi diversi) per resistere all’uniformazione coatta di ambienti, sistemi e procedure, siano essi informatici o quotidiani. Le soluzioni possibili sono da indagare nello sviluppo di forme di relazione diverse, sia con gli esperti che con gli esseri tecnologici. Al posto della delega in bianco all’esperto di turno, lo sforzo di domandare, a costo di sembrare stupidi e porre domande che suscitano riso. Lo sforzo di studiare, di capire cosa si cela dietro meccanismi apparentemente semplici. Lo sforzo di sperimentare, di sporcarsi le mani, scoprendo che sono possibili persino sperimentazioni artistiche, autoproduzioni di ogni sorta e che, incredibile!, anche l’elettronica e l’informatica possono essere attività artigianali, diventare strumenti conviviali, che distribuiscono potere invece di centralizzarlo e rafforzano reti sociali orizzontali e libertarie. Costa fatica, ma è uno sforzo necessario.
Materiali di approfondimento del libro sono consultabili al link:
Per approfondire le attività del Centro internazionale di ricerca per le convivialità elettriche:
https://circex.org