Teatro piccino
Ormai da qualche anno molte dinamiche del teatro più “piccolo” seguono, almeno a un primo livello, quelle del teatro più “grande”, in altre parole il cosiddetto teatro ragazzi rispecchia molte cose delle stagioni di prosa. Si può dire che il teatro ragazzi, dalla fine degli anni sessanta a oggi, più che cresciuto, pare sia invecchiato, ma giudizi troppo severi sarebbero fuori luogo ed eccessivi, perché è la scena teatrale nel suo complesso che sta invecchiando rapidamente. Il teatro ragazzi riflette questa crescente senilità, così come accade per il teatro di ricerca, o contemporaneo. Esistono alcune similitudini piuttosto interessanti tra il teatro dei più anziani – il teatro degli abbonati – e il teatro per i bambini. Innanzitutto a differenza della tradizione del nuovo teatro italiano, che ha sempre pensato e cercato di inventarsi un pubblico, mettendo l’accento sull’autorialità e perciò ponendo domande al pubblico, il teatro per i bambini e per gli abbonati sembra oggi fortemente schiacciato sulla domanda del pubblico, o di chi se ne fa interprete.
Sia il teatro per bambini, sia il teatro di prosa sono circuiti quasi del tutto impermeabili. L’elemento corporativo è così forte e radicato che il teatro ragazzi e il teatro di prosa possono scrivere e scriversi le loro storie indipendentemente dalla storia del nuovo teatro. Naturalmente tutto ciò è in gran parte falso, soprattutto per quanto riguarda il teatro ragazzi la cui radice è da rintracciarsi nell’animazione teatrale e perciò nel medesimo spirito di rinnovamento che ha attraversato l’Italia dagli anni sessanta in poi. Eppure ormai da anni questi fili e queste storie paiono essersi come dimenticate e le tre strade del teatro corrono parallele senza incontrarsi quasi mai.
Il meccanismo predominante nelle stagioni di prosa e nelle stagioni per bambini (al di là delle questioni più di sistema legate a scambi, finanziamenti, borderò etc.) è il medesimo: la riconoscibilità. È una vecchia storia su cui molto è stato detto, ma la riconoscibilità continua a essere una questione micidiale con cui fare i conti: riconoscibilità innanzitutto di un testo e di un attore, riconoscibilità di un ambito d’espressione, che vuol dire anche riconoscibilità della forma, della durata, dello spazio, della rassicurazione finale, di un generico impegno culturale, dell’appartenenza a un rito sociale. Là dove non c’è stato un lavoro capillare e profondo, anche le stagioni per il pubblico dei bambini e per le famiglie seguono regole piuttosto semplici: si parte innanzitutto dalla scelta del titolo. Un titolo di richiamo (Biancaneve, Cenerentola, Cappuccetto Rosso…) è già probabile garanzia di buona prevendita. Basta allontanarsi anche di poco dal noto e dallo stra-noto che lo sforzo di persuasione cresce in maniera esponenziale. E questo diventa un gran problema perché salvo alcuni casi più strutturati il teatro per i bambini vive economicamente delle decine e decine di repliche per le scuole, vive dei biglietti venduti. Negli spettacoli per bambini, così come per gli spettacoli di prosa, il teatro deve essere il più possibile pieno, perché le economie per sopperire ai disavanzi sono ormai agli sgoccioli. In questo delicato equilibro il ruolo dell’insegnante è sempre più importante, perché è la figura “ponte”, colui che può essere cosciente del valore di un’operazione e comprendere dove si corrono i rischi culturali, sapendo lasciar “respirare” la visione dello spettacolo, ma anche compiendo un lavoro di elaborazione e traduzione per generare materia di riflessione, di esperienza condivisa. Il teatro per i bambini e per i ragazzi cresce là dove incontra insegnanti curiosi e capaci, che sono in grado di comprendere la diversità tra il momento del teatro e il momento della scuola. Quando invece questo rapporto è superficiale allora il teatro insegue la scuola e gli atteggiamenti più scolarizzati: la scelta di un testo riconoscibile dagli insegnanti per un generico valore pedagogico o perché si inserisce bene nei programmi scolastici o perché ritenuto divertente e godibile. Ma a quel punto le paure degli insegnanti si proiettano sullo spettacolo, per cui ci si raccomanda che nel lavoro non siano presenti elementi di complessità, se non quelli di fatto già noti e compresi, e che la capacità di intrattenimento sia alta.
La buona riuscita dello spettacolo sembra sia per molti la capacità di tenere alta e chiassosa la partecipazione dei bambini, che già di per sé è straordinariamente vitale e manifesta. Per far questo non di rado si utilizzano elementi basici di una comicità che non è quella legata a emozioni primarie, piuttosto si riferisce a qualche lazzo di natura televisiva. Sarebbe interessante capire meglio di cosa si ride negli spettacoli per bambini e per ragazzi, perché la comicità è un territorio molto frequentato. In molti casi la comicità appare saccheggiata dall’immaginario televisivo. La risata (per comicità o per ironia) aiuta senz’altro a crescere, e anche questa può essere educata e raffinata. Un certo tipo di degrado in questo paese lo si capisce anche dal livello di comicità a cui siamo sottoposti e dalle quotidiane battute di spirito, ormai principale elemento della retorica politica in cui siamo sempre più immersi.
Comicità e ironia sono pur sempre manifestazioni di intelligenza e fondamentali nel processo educativo. Abbassarne il livello o cambiarne la natura significa impostare anche le relazioni di gruppo e sociali in maniera differente, perché la risata ha sempre a che fare con l’altro, come singolo o come comunità. In molti campi espressivi, dalla letteratura al fumetto, al teatro, in maniera sempre più netta, la comicità interviene su quello che si considera oggi il vero terreno comune. La riconoscibilità di un passato condiviso in molti casi non consiste più in uno specchiarsi di esperienze, di riti sociali, di iniziazioni di qualche tipo, ma nella messa al centro dei consumi. La gioia di sentirsi appartenente allo stesso gruppo sociale, la gioia di poter ridere con i propri coetanei delle medesime cose è sempre di più provocata dall’evocazione dei prodotti commerciali: possono essere merendine, giocattoli, materiali domestici, o naturalmente programmi televisivi, pubblicità e videogame… Tutto ciò ha acquisito negli ultimi anni un valore aggregante molto maggiore sia del cinema e sia pure della musica. Da qualche anno è diventata una sorta di cifra stilistica, o a volte di strana costruzione di un’identità comune, con esiti interessanti quando tutto questo viene osservato con occhio critico, con la distanza che permette uno specchiarsi interrogativo su noi stessi; con esiti molto compiaciuti e irritanti quando si utilizzano i consumi come scorciatoie e imbrogli per tenere alta l’attenzione. In teatro è stata una questione sollevata soprattutto dall’ultima generazione o comunque dai gruppi emersi in questi ultimi sette-otto anni con modalità e obiettivi molto differenti. In maniera straniante e quasi cinica Teatro Sotterraneo ha riflettuto sull’immaginario medio e in particolare sulle forme di sottile alienazione a cui siamo sottoposti, inventandosi un linguaggio ferocemente ironico, che non rinuncia a un approccio didattico, ma come fossimo di fronte a un manuale di sopravvivenza in questi tempi di pazzia collettiva. Babilonia Teatri, soprattutto nei primi lavori, ha creato una sorta di teatro unidimensionale perché sostanzialmente realizzato da una persistente frontalità e da un susseguirsi di monologhi e di cori costruiti come specchi degli orrori quotidiani, avvalendosi di una lingua che intreccia il dialetto, le musichette pop, le pubblicità, i modi di dire, gli usurati proverbi. È un orrore che viene “vomitato” allo spettatore che mescola divertimento, per la comicità provocata dagli accostamenti bizzarri e irriverenti, e repulsione e fastidio per il martellante incedere di un’umanità ritratta nei suoi aspetti volgari e rozzi.
(Su questo piano vale la pena ricordare il duo ricci/forte che negli ultimi anni ha raccolto un consenso pressoché unanime della critica, salvo per l’ultimo lavoro in cui gli si sono rivoltati contro alcuni entusiasti della prima ora, con una violenza da lasciar un po’ sorpresi. In realtà ricci/forte dal primo all’ultimo spettacolo hanno di fatto raccontato sempre la medesima storia con più o meno la medesima forma. La grande novità segnalata dalla critica – che spesso tira in ballo addirittura Pasolini e una sorta di aggiornamento 2.0 delle teorie sulla mutazione antropologica – starebbe proprio in questo immaginario costruito tramite il mondo della televisione e il meccanismo della celebrity, un infantilismo dei consumi che attraversa con piacere Disney e i cartoni animati, senza contare tutti i riferimenti al web e ai socialnetwork. Il secondo livello risiede invece nella questione del corpo, del nudo, dell’omosessualità, della provocazione, e per ultimo della violenza, che in scena viene utilizzata come elemento di autenticità. Dentro la finzione del mondo ci si crogiola con un’euforia inedita e anche quando si vuole criticare tutto questo, lo si fa con un linguaggio molto simile alla pubblicità, e saccheggiando le ricerche visive degli ultimi anni, con la differenza che al “mistero” e all’invisibile del teatro si sostituisce la retorica delle emozioni: “emozioni” e “violenza” sono ciò che lo spettacolo vorrebbe vendere al pubblico come momenti autentici, quando in realtà appaiono i più drammaticamente finti…)
I due gruppi, Teatro Sotterraneo e Babilonia Teatri, sono stati coinvolti nel bel progetto promosso dal Teatro delle Briciole di Parma: cantiere produttivo “Nuovi sguardi per un pubblico giovane”, in cui si affida a giovani gruppi della ricerca italiana il compito di creare uno spettacolo per bambini. Lo si fa a partire dal sistema del teatro ragazzi, per cui si mettono alla prova le giovani compagnie con tutti i relativi problemi. È un bagno di realtà in cui è difficile districarsi, ma molto importante, e forse unico in Italia. La repubblica dei bambini di Teatro Sotterraneo, di cui si è già detto in questa rivista, nonostante qualche concessione nel finale, resta uno dei lavori più interessanti e contemporanei degli ultimi anni nel suo genere; Baby don’t cry di Babilonia Teatri invece malgrado un grande sforzo emotivo non riesce a raggiungere gli obiettivi prefissati. Il problema proviene forse dal fatto che le stesse modalità utilizzate per gli adulti sono riproposte, senza significative differenze, al pubblico dei bambini. E se agli adulti si chiede di operare in senso critico e di prendere coscienza del ritratto verbale proposto, qui tutto rischia di appiattirsi in un linguaggio chiassoso, che non viene rielaborato, ma solo vissuto come ulteriore frastuono della quotidianità, senza suscitare particolari interrogativi.
Il terzo gruppo coinvolto è stato I Sacchi di Sabbia che hanno realizzato uno spettacolo in linea alle loro ultime ricerche a partire dal libro pop-up. Mettendo al centro la questione della trasformazione e della metamorfosi delle immagini di carta Pop-Up Un fossile di cartone animato guarda all’essenziale: il bambino e una misteriosa sfera attraversano i colori principali, il mondo umano, animale e delle cose, le emozioni basilari, i rumori… La magia e lo spazio di immaginazione che riescono a evocare rendono questo lavoro adatto alla fascia dei più piccoli (dai 3 ai 6 anni), ma godibile anche al pubblico dei più grandi. In questo lavoro, così come in altri, ma non numerosissimi, si dà importanza a due aspetti che il teatro ragazzi ultimamente trascura: il silenzio e la paura. Pare quasi che il momento di silenzio, di riflessione, di pausa sia considerato sempre come calo tensione e di consenso. Allo stesso modo la paura viene gestita come ingrediente un po’ finto, da trattare in maniera solo fumettistica, non riconoscendole la sua natura di emozione primaria, di attrazione meravigliosa per i bambini, di necessario momento di presa di coscienza e crescita. A partire dagli “esercizi del silenzio” di Maria Montessori va ricordata anche l’esperienza dei laboratori per bambini di Fanny & Alexander, in collaborazione con il Teatro delle Briciole, che hanno dato vita poi alla drammaturgia del radiodramma live (e registrato) Giallo. Come accade in Giochi di fanciulli di Giorgio Pressburger l’orecchio del pubblico è come si trovasse intimamente vicino al mondo dei bambini con la possibilità così di poter ascoltare, naturalmente rielaborati e reintrecciati, i loro discorsi, e le loro associazioni, riflessioni, reazioni…
Qualcosa forse si sta muovendo, e negli ultimi anni sono nati appuntamenti specifici, in aggiunta a quelli storici del teatro ragazzi, che sono anche momenti di riflessione più trasversali. Alcuni di questi sono proposti da realtà storiche, che lavorano nel settore o che lo frequentano in maniera marginale da molti anni (ad esempio da Teatro tra le generazioni a Castelfiorentino promosso da Giallo Minimal Teatro a Puerilia a Cesena promosso dalla Socìetas Raffaello Sanzio, ad alcune rassegne-progetti come Piccoli indiani al Teatro Argentina a Roma, Uovo Kids a Milano…) mescolano la dimostrazione dei propri lavori con momenti di approfondimento. Manca quasi totalmente una riflessione critica più ampia (a differenza di alcuni decenni fa in cui gli ambiti avevano più figure in comune) e gli addetti ai lavori che conoscono bene la situazione del teatro ragazzi e la scena contemporanea sono davvero pochi (Giorgio Testa, Mario Bianchi…). Eppure forse inizia a nascere un’attenzione nuova, e anche diversa rispetto a due esperienze storiche e importanti come quella della non-scuola del Teatro delle Albe e quella di Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio. Ma il problema vero è che il dialogo si è fatto sempre più difficile. Le esperienze comunicano poco tra loro e sembra prevalere, nella paura generale, uno sguardo introflesso teso più a confermare le proprie sicurezze che a metterle in discussione. Tutto ciò riguarda il teatro nel suo insieme, che attraversa un momento in cui nel migliore dei casi gli scavi e i carotaggi sono percorsi individuali, ma manca sempre di più la rete che tiene assieme le cose, che mescola e crea confronti e riflessioni, necessari per affrontare le difficoltà dell’oggi.
La situazione sta mutando rapidamente e nuovi interrogativi sono sempre più impellenti, far finta di niente sarebbe non da miopi, ma da ciechi. Ad esempio nelle stagioni per ragazzi e di prosa (e anche a volte in quelle dedicate al contemporaneo) comincia a esser difficile poter assistere a uno spettacolo senza l’accensione di qualche fonte luminosa di cellulare, smartphone, tablet… Mentre si svolge lo spettacolo si fa altro, come fosse la cosa più normale del mondo, convinti che il cervello possa permettere duplice o triplice attenzione simultanea. Con pochi attriti e resistenze si inizia a scivolare nella dimensione dell’intrattenimento, rinunciando al rito e ai suoi elementi residuali. A volte si assiste a scene di vera fantascienza, nuvole luminose che si alzano dalla platea, profili di spettatori che si illuminano come lucciole o fantasmi, mentre sul palco viene messo in ombra il gesticolare di qualche attore, proiettandosi lontano nello spazio della stanca ripetizione. La nevrosi collettiva dei social improvvisamente sembra rendere preistorico il tempo e il buio del teatro. Stiamo a sedere non vedendo l’ora che tutto finisca e sembra che per bucare la distrazione di massa, che tutti ci avvolge, occorra un’energia poderosa.