Sulle vie del chat
«Benvenuto nella capitale mondiale del chat!». Occhi acquosi e sorriso sdentato, labbra patinate di schiuma verdastra, Amaddin si dice orgoglioso: «solo qui puoi trovare le qualità migliori». Siamo ad Awaday, nell’Etiopia orientale, a metà strada tra Addis Abeba, 500 chilometri di tornanti a ovest, e la costa somala affacciata sul Golfo di Aden, centinaia di chilometri e di buche più a est. Una cittadina sperduta lungo un percorso battuto per secoli dalle carovane che trasportavano sale, zanne di elefanti, avorio, oro, armi e schiavi. Oggi la merce più preziosa è un’altra. Una pianta dalle foglie verdi che contiene catina e catinone, principi stimolanti con effetti simili all’anfetamina: il chat, qat o khat. Per i governi di molti Stati si tratta di una sostanza pericolosa, illecita. Per i circa venti milioni di consumatori del Corno d’Africa e dell’ampia diaspora è invece una pianta benefica, «naturale come l’acqua», come sostiene Amaddin.
Sui lati della strada principale che taglia in due Awaday, per tutto il giorno si alternano contadini, mediatori, commercianti. Donne dai vestiti colorati e uomini con giacche rattoppate e sformate si contendono spazi e acquirenti. Sui marciapiedi siedono contadine dalle mani rugose. Espongono pochi fasci di arbusti dalle foglie tenere e grasse: «se va bene, in un mese racimolo poco più di mille birr», circa 20 euro, dice una di loro. «Ma per altri è un business importante. Tanti si sono arricchiti». Il chat è una risorsa economica cruciale per l’Etiopia. Alimenta un mercato internazionale, perlopiù informale, di cui si arricchiscono mediatori, commercianti, doganieri, funzionari, politici, trasportatori sulle rotte transnazionali. Poco, molto poco, i piccoli coltivatori locali.
I dati del governo etiopico sono approssimativi e obsoleti. Nei ministeri di Addis Abeba si conosce bene il valore economico della pianta, ma i conti sembrano tenuti nascosti. Qualcuno sostiene che i lavoratori coinvolti nel settore, tra coltivatori, commercianti e trasportatori, siano circa due milioni. A lungo il secondo prodotto di esportazione dopo il caffè, oggi il chat è al quarto posto, una voce fondamentale nel prodotto interno lordo del Paese. Secondo alcune stime, equivale ad almeno 700-800 milioni di euro l’anno. A sborsarli sono consumatori locali e stranieri. Almeno un quarto della produzione va all’estero. Il resto è “ruminato” in Etiopia.
«Qui i commercianti più piccoli vendono al dettaglio, i medi comprano e vendono quantità più significative, molti, come noi, puntano anche all’esportazione. Ogni giorno ne spediamo 500/700 chili ad Hargeisa, nel Somaliland. Sembra tanto, ma altri commercianti hanno volumi d’affari maggiori». Mohammed fa il contabile. Seduto in terra a gambe incrociate, tiene davanti a sé un libro mastro. Pagine e pagine di carta leggera e spiegazzata, scritte a mano con cura certosina, custodite in una rilegatura pesante. Lo incontriamo all’interno di una delle «300 case del chat» di Awaday, piccoli hub dove si incontrano l’offerta e la domanda. Le più piccole sono semplici spazi rettangolari dal tetto e dalle pareti in lamiera. Le case del chat più grandi sono ampi magazzini dentro palazzine fatiscenti di tre piani dai corridoi ricoperti di foglie e arbusti.
Tra queste, quella di Mohammed: «io tengo solo i conti, magari fossi il boss», tiene a precisare. Annota con meticolosità entrate e uscite, con poche parole e gesti sicuri dà indicazioni ai ragazzi che lavorano per lui. «Non abbiamo campi, non coltiviamo, acquistiamo il chat dai contadini locali. Poi lo rivendiamo». Intorno a lui, in un grande stanzone affollato, un incessante via vai di gente. Chi compra, chi vende, chi seleziona e smista. Nelle stanze distribuite lungo il corridoio, i ragazzi più giovani raccolgono grandi fasci di chat, li dividono, tolgono le foglie inservibili, accatastano la merce, distinta per qualità. In commercio esistono una ventina di qualità diverse di chat. «Qui vendiamo solo la qualità migliore, il ‘rotà’, e quella media», assicura Mohammed. Il prezzo varia. «Un chilo della migliore qualità tra i5.000 e gli 8.000 birr (100-160 euro, nda). La qualità media, tra 800 e 1.500 birr (16/30 euro, nda)». Con la pandemia, i prezzi del chat etiopico sono aumentati. Il governo somalo nel marzo 2020 ha infatti vietato le importazioni di chat dal Kenya, altro importante Paese-produttore, dove la pianta viene chiamata miraa. Le rotte che da Awaday conducono in Somaliland e Somalia, via Hargeisa, Garoowe e Galkayo, sono invece rimaste aperte. Per i commercianti di Awaday i guadagni sono cresciuti. Ma non bastano mai. «Abbiamo tante spese», lamenta Mohammed quando lo incontriamo, ben prima che la pandemia condizionasse anche i commerci del chat.
Oggi la merce più preziosa è un’altra. Una pianta dalle foglie verdi che contiene catina e catinone, principi stimolanti con effetti simili all’anfetamina: il chat, qat o khat.
«Tra i nostri acquirenti ci sono molti somali. Lo comprano qui e poi lo rivendono in patria. Gli piace il chat rosso, dal gambo lungo e dalle foglie tenere. Che sia Gibuti, la Somalia o l’Europa, dove finisce il mio chat non mi interessa. Mi importa venderne il più possibile», sostiene il responsabile di un’altra casa del chat. Sdraiato su comodi cuscini, valuta un fascio appena portato da un uomo con la giacca a quadri troppo ampia. Lo apre in due, lo sfoglia, testa la tenerezza delle foglie. Poi lo lancia ai suoi collaboratori, con un segno di approvazione. Accatastati lungo le pareti della stanza, enormi sacchi di plastica gonfi di chat. Gli affari sembrano andare bene. «Magari fosse così», si lamenta l’uomo con la guancia piena di bolo verde. «L’affitto costa. Con il chat spedito ad Addis Abeba guadagno poco. Quello per il Somaliland è fermo da tempo ai 250 chili al giorno. E poi ci sono i costi del trasporto: bisogna sbrigarsi a farlo arrivare, mica si può perdere tempo».
Stimolante e, poi, meditativo, l’effetto del chat svanisce presto, in meno di 48 ore. Va trasportato e venduto in fretta. Sulla via principale di Awaday camioncini, pick-up e minibus vengono riempiti con metodo collaudato. Sono destinati agli aeroporti di Addis Abeba o Dire Dawa, puntano a Gibuti, oppure in Somaliland. «Ogni giorno mando un camioncino di mia proprietà, a volte ne affitto altri perché uno soltanto non basta. Dipende dai giorni, dalle stagioni, da tanti fattori. In genere pago almeno 30.000 birr di tasse al confine, per ogni mezzo che passa», spiega l’uomo prima di tornare al suo lavoro.
In Somaliland
Distribuito su 90 destinazioni diverse, da Hong Kong al Sudafrica, dal Malawi a Israele, il chat prodotto in quest’area apparentemente marginale dell’Etiopia è un prodotto che segue rotte globali. Passa per piccoli aeroporti periferici e compagnie aeree private, ma anche per le rotte tracciate dalle carovane del passato. Come quella che conduce sulla costa del Somaliland, passando per Harar, fino alla metà dell’Ottocento il più grande mercato del Corno d’Africa, luogo d’incontro tra l’Africa nera, l’Africa islamica, la penisola arabica e l’Oceano indiano, cittadina eletta da Rimbaud come suo quartier generale nel 1880.
Due minibus diversi e, dal confine tra Etiopia e Somaliland, un taxi collettivo: anche noi seguiamo la stessa rotta di un tempo per arrivare da Harar ad Hargeisa, città da più di 1 milione di abitanti e capitale dell’autoproclamata Repubblica del Somaliland, dove ne vivono circa 4 milioni e mezzo. Sono le prime ore del pomeriggio e la città – strade vuote e silenziose – è immersa in un’atmosfera letargica. «È l’ora del chat. Arriva la mattina dall’Etiopia, quando tutti corrono a comprarlo, poi dopo pranzo si consuma, per qualche ora. È così tutti i giorni» spiega Ahmed, un sarto del mercato di Hargeisa. Lavora all’aperto. «Questo è il mio negozio», dice mostrando la macchina da cucito su cui c’è scritto nome e numero di telefono. Intorno, botteghe chiuse o serrande abbassate. Solo i cambiavalute “tengono le posizioni”, stravaccati a terra e circondati da montagne di scellini del Somaliland, il vecchio protettorato inglese che nel 1991 ha proclamato l’indipendenza dalla Somalia. Un governo, una lunga lista di ministeri, un esercito, la moneta nazionale, le contese elettorali, gli uffici e le università pubbliche: c’è tutto nel Somaliland, anche se nessuno – a parte i suoi cittadini – ne riconosce indipendenza e sovranità. «Ma non abbiamo il chat, e questo sì che è un problema», sostiene ridendo Ahmed, il sarto.
Qui in Somaliland, dove l’85 per cento della terra è arida o semi-arida, dove il 75 per cento della popolazione vive di pastorizia e sempre più frequenti sono i periodi di siccità, il chat non si può coltivare. Tutt’altro clima rispetto alla provincia etiopica dell’Harar, alle colline keniote di Nyambene o alle montagne del Jebel Sabir nello Yemen, i luoghi da cui provengono le qualità migliori. Non viene coltivato ma viene consumato dall’80 per cento degli uomini. E fa comunque danni, spiega Edna Adan Ismail, già ministra degli Esteri, attivista per i diritti di genere, direttrice e fondatrice dell’ospedale di maternità che porta il suo nome ad Hargeisa, dove la incontriamo. «Il chat è il nostro nemico principale, una delle cause indirette della malnutrizione dei bambini, per esempio. Assuefatti al chat, gli uomini si dimenticano di sé stessi e dei propri figli. Dimenticano di aver bisogno di nutrirsi, dell’importanza del cibo, di tutto il resto. E dilapidano i pochi risparmi per acquistarne ogni giorno».
Un governo, una lunga lista di ministeri, un esercito, la moneta nazionale, le contese elettorali, gli uffici e le università pubbliche: c’è tutto nel Somaliland, anche se nessuno – a parte i suoi cittadini – ne riconosce indipendenza e sovranità.
Edna Adan Ismail fa parte di quella schiera di persone che vedono nel chat una vera piaga sociale. Secondo loro, drena risorse umane (e idriche dove viene coltivato), capitali, danari, causa problemi fisici e psicologici, riduce produttività e imprenditorialità, fattori necessari soprattutto qui nel Somaliland, dove l’inflazione è alle stelle, la disoccupazione alta, i livelli di investimenti bassi, eccessiva la dipendenza dalle rimesse estere. Eppure la nascita di questo Stato non riconosciuto dalla comunità internazionale andrebbe ricondotta anche al chat e ai rituali che vi sono connessi, racconta il docente di Cambridge Cristopher Clapham in The Horn of Africa. State Formation and Decay (Hurst Publisher 2017). Qui ad Hargeisa lo ripetono tutti, perfino chi ne riconosce e teme gli effetti negativi. Mukhtar Mohammad Hassan, coordinatore locale dell’associazione Save the Children, ci spiega che «il chat ha giocato un ruolo chiave nel periodo di riconciliazione, all’inizio degli anni Novanta, quando gli elders hanno dovuto trovare punti in comune per far ripartire il paese, e ci sono riusciti dopo lunghe sessioni di chat».
Prima a Burao, oggi capoluogo della provincia di Toghder, dove nel maggio 1991, nel corso di una guurti, una grande assemblea tradizionale, viene proclamata la secessione unilaterale dalla Somalia, dopo che il Somali National Movement, il fronte militare e politico fondato a Londra nel 1981 aveva resistito, armi alle mani, al regime autoritario di Siad Barre. Poi – da gennaio a maggio 1993 – a Borama, quando una grande assemblea con circa 2.000 rappresentanti della popolazione adotta una Transitional National Charter, che delinea i contorni del particolare sistema istituzionale ancora oggi in vigore in Somaliland. «Senza il chat, oggi non saremmo uno Stato indipendente», sintetizza Mukhtar Mohammad Hassan. Uno Stato nato dal chat, a quanto pare, ma che prova a limitarne l’uso. Almeno negli edifici istituzionali.
«Vietato introdurre granate, coltelli, pistole e chat». Recita così l’insegna all’ingresso del municipio di Berbera, uno dei pochi vecchi edifici rimasti in piedi sul lungomare di questa città portuale che si affaccia sul Golfo di Aden. Dentro, niente chat. Fuori, non c’è angolo in cui non si mastichi. «Qui sono tutti matti per il chat», ci dice un ex marinaio dalla barba bianca e i modi affabili, così tante avventure alle spalle da parlare anche un po’ di italiano. A differenza di tanti altri concittadini, è sempre tornato a Berbera. Non fa parte di quell’ampia diaspora del Corno d’Africa che, soprattutto a partire dagli anni Novanta del Novecento, ha tracciato nuove rotte migratorie e consolidato quelle esistenti, ponendo le basi per l’affermazione di nuovi traffici transnazionali del chat, ruminato nelle città europee, arabe, americane, a dispetto di bandi e divieti. Per questo vecchio marinaio che tanto ha viaggiato in passato e che negli ultimi anni ha visto trasformare il vecchio porto di Berbera grazie agli investimenti del conglomerato della logistica DP World, controllato dal governo di Dubai, e a quelli del governo etiopico – che cerca alternative rispetto a Gibuti –, è naturale che il chat arrivi ovunque ci sia un cittadino del corno d’Africa. «In Italia arriva, sì?», chiede preoccupato. La risposta va cercata nelle notizie minori, nei trafiletti dei quotidiani italiani. Come quelli della cronaca di Roma del 4 aprile 2021: «i Carabinieri della Compagnia Aeroporti di Roma hanno arrestato due italiani» all’aeroporto di Fiumicino. «Nelle valigie, 76 chilogrammi di chat».
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