Sulle energie fossili, l’Italia al bivio

Il 30 settembre 2021 sono scaduti i ventiquattro mesi di sospensione dei nuovi permessi e delle attività per la ricerca di idrocarburi in mare e sulla terraferma, disposta dal primo governo Conte con la legge n. 12 dell’11 febbraio 2019. Ciò significa che a partire dallo scorso 1° ottobre le grandi multinazionali delle energie fossili già in possesso di permessi rilasciati prima del 2019 hanno potuto riprendere le loro azioni gravemente dannose per l’ambiente, mentre il riscaldamento globale di causa antropica in atto sta gridando la necessità di un radicale cambio di direzione verso le fonti rinnovabili e di interrompere la strada verso la “crescita” che ci sta portando verso l’estinzione di massa.
La sospensione dei permessi era stata istituita al fine di consentire l’adozione di un “Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee” (Pitesai) che, in accordo con le amministrazioni regionali e comunali, dovrebbe individuare le zone adatte alla ricerca e all’estrazione di idrocarburi tenendo conto di parametri ecologici, sociali ed economici. Il Pitesai si è reso necessario dopo che l’Italia ha attraversato un periodo di strapotere incontrollato delle aziende dell’oil&gas – il cui apice si è raggiunto col governo Monti – durante il quale è stata rilasciata un’enorme quantità di permessi e concessioni per l’individuazione e lo sfruttamento di nuovi giacimenti, senza preoccuparsi delle pesanti conseguenze ambientali di tali attività né degli irrisori introiti che lo Stato e gli enti locali hanno ottenuto finora, in rapporto agli incassi miliardari delle multinazionali del settore.
Dopo un periodo di elevata attenzione mediatica sul tema – iniziato nel 2012 con l’insorgere di varie lotte locali contro la realizzazione di nuovi impianti, unitesi sotto il movimento organizzato “No Triv”, e conclusosi nel 2016 col fallimento del referendum del 17 aprile sulle estrazioni offshore entro le dodici miglia marine – l’argomento delle estrazioni di idrocarburi dal territorio italiano è quasi del tutto scomparso dal dibattito pubblico. Ma con la scadenza del periodo di sospensione e con l’elaborazione del Pitesai, siamo appena entrati in una fase determinante per il futuro delle energie fossili in Italia, e per questo è importante tornare a discuterne. L’esecutivo di Mario Draghi dovrà infatti decidere se continuare a permettere alle grandi multinazionali di operare in questo settore, con tutti i costi ambientali ed economici che tale scelta comporterebbe, oppure se imporre uno stop definitivo alle fonti fossili e un’immediata riconversione energetica, dimostrando così che la “transizione ecologica” è un obiettivo reale e non solo un bel nome dato a un ministero per fare un po’ di greenwashing politico, ma senza l’intenzione di compiere alcuna azione concreta. Purtroppo i segnali giunti finora fanno propendere per la seconda ipotesi, ma prima di capire perché, è necessario fare un quadro delle tappe che ci hanno portato alla situazione attuale.
Concessioni e royalties a prezzi stracciati
Fino al 2019, i canoni sulle concessioni per l’estrazione di idrocarburi in Italia andavano da un minimo di 2,58 euro a un massimo di 61,97 euro al chilometro quadrato in base all’articolo 18 del decreto legislativo 25 novembre 1996, n. 625. Inoltre il nostro paese ha royalties tra le più basse al mondo, ovvero il 10% sugli idrocarburi estratti dalla terraferma e il 7% su quelli estratti dal mare, e una tassazione complessiva del 63,9%, mentre altri paesi europei paragonabili al nostro (secondo il rapporto del 2012 di Nomisma “Tassazione della produzione di gas e petrolio in Italia”) come Danimarca, Norvegia e Regno Unito hanno royalties del 50% e tassazione dell’80%. E se le tariffe iper-convenienti che offre l’Italia non dovessero bastare, c’è un’ulteriore offerta: sono esenti da royalties le prime 50 mila tonnellate di petrolio e i primi 25 milioni di metri cubi di gas estratti dalla terraferma (addirittura 80 milioni se provenienti dal mare), in base alla legge del 23 agosto del 2004, n. 239. Queste condizioni economiche favorevoli hanno portato negli ultimi quindici anni le grandi multinazionali dell’energia fossile a interessarsi alla ricerca e allo sfruttamento dei giacimenti del nostro paese, trovando la complicità del governo di Mario Monti che, come vedremo fra poco, si è distinto per avere rilasciato un’enorme quantità di concessioni senza farsi scrupoli sulle conseguenze ambientali dei suoi atti e sugli scarsi introiti ottenuti dallo Stato.
Le conseguenze negative per l’ambiente
Innumerevoli studi scientifici hanno dimostrato che l’estrazione di idrocarburi dal sottosuolo provoca il fenomeno della subsidenza, ovvero l’abbassamento verticale della superficie terrestre. Lungo i litorali, questo ha come conseguenza l’aggravarsi dell’erosione costiera già in atto a causa di altri fattori antropici come l’innalzamento del livello del mare e la cementificazione. Inoltre le attività estrattive di gas e petrolio comportano un elevato livello di emissione di sostanze inquinanti, rilasciando sostanze chimiche come oli, greggio, metalli pesanti e altri contaminanti. Ma soprattutto, tali estrazioni continuano ad alimentare l’attuale sistema energetico basato sui combustibili fossili per fabbriche, automobili, navi e aerei – ovvero quel sistema che sta provocando il surriscaldamento del pianeta, con tutte le ormai note catastrofi ecologiche che ne conseguono, nonostante da tempo gli studi scientifici e i cataclismi sempre più numerosi abbiano dimostrato la necessità di cambiare direzione a favore di una conversione basata sulle fonti rinnovabili.
Innumerevoli studi scientifici hanno dimostrato che l’estrazione di idrocarburi dal sottosuolo provoca il fenomeno della subsidenza, ovvero l’abbassamento verticale della superficie terrestre.
Un ulteriore fattore critico dal punto di vista ecologico è la pratica dell’airgun con cui le compagnie estrattive effettuano la ricerca di nuovi giacimenti in mare aperto. Si tratta di una tecnica per l’ispezione geosismica dei fondali marini che di fatto prevede di sparare grandi quantità di aria compressa in acqua, in modo da propagare delle onde che vengono poi riflesse dagli strati della crosta terreste: in base alla velocità con cui tali onde attraversano il sottosuolo si può capire la sua conformazione, riuscendo a percepire anche la presenza di eventuali gas o liquidi. Il paradosso è che al Ministero dello sviluppo economico “si riscontra l’assenza di una correlazione provata del tipo causa-effetto degli impatti degli airgun sui mammiferi marini” (“Bollettino ufficiale degli idrocarburi e delle georisorse”, anno LXII, n. 12, 31 dicembre 2018), mentre secondo il Ministero dell’ambiente l’airgun provoca a mammiferi marini e pesci “alterazioni comportamentali (risposta di allarme, cambiamento negli schemi di nuoto, disturbo della comunicazione acustica, deviazione dalle abituali rotte migratorie, ecc.) […], danni fisiologici […] e alterazioni nel nuoto” (“Secondo rapporto sugli effetti per l’ecosistema marino della tecnica dell’airgun”, dicembre 2017). La scienza, ovviamente, propende per la seconda versione, e non è un caso che i pescatori dell’alto Adriatico – dove si concentra gran parte dell’attività estrattiva offshore del nostro paese – lamentino da anni la progressiva scomparsa di pesci.
Le azioni dei governi
L’estrazione di idrocarburi in Italia è stata irrisoria fino all’immediato secondo dopoguerra, quando l’Agip (dal 1953 di proprietà del gruppo Eni) ha iniziato a scavare i primi pozzi sulla terraferma in Val Padana e in mare aperto al largo di Ravenna e Cervia. Per molti decenni il settore è rimasto confinato a questi e pochi altri impianti sulla terraferma in Emilia-Romagna, Abruzzo, Basilicata e Sicilia e in mare lungo le coste adriatiche e ioniche, con concessioni sempre rinnovate attraverso proroghe automatiche; poi è arrivato il governo di Mario Monti, che ha inserito la ricerca e l’estrazione di idrocarburi tra i pilastri della “Nuova strategia energetica nazionale” approvata a marzo 2013 con decreto interministeriale dagli allora ministri dello sviluppo economico Corrado Passera e dell’ambiente Corrado Clini, fissando l’obiettivo di portare l’estrazione di idrocarburi dal mare e dal territorio italiani dal 7 al 14% della copertura del fabbisogno energetico nazionale e di aumentare la produzione di gas del 46% e del petrolio del 148% entro il 2020.
Di conseguenza, il 31 dicembre 2012 l’Italia è arrivata a contare 115 permessi di ricerca (94 in terraferma e 21 in mare) e 200 concessioni di coltivazione (134 in terraferma e 66 in mare), che hanno comportato l’installazione di una grande quantità di nuove trivelle e piattaforme offshore. Inoltre, con l’articolo 35 del “Decreto sviluppo” del 26 giugno 2012 n. 83 il governo Monti ha approvato la riduzione del limite entro il quale erano possibili le estrazioni in mare, portandolo da dodici a cinque miglia marine dalla costa.
I grandi favoritismi del governo Monti alle multinazionali del gas e del petrolio hanno provocato l’insorgere di varie lotte locali contro la realizzazione di nuove piattaforme (una su tutte, la protesta contro il progetto “Ombrina Mare” al largo della Costa dei Trabocchi in Abruzzo, dove la multinazionale britannica Mediterranean Oil & Gas Plc voleva installare un impianto altamente inquinante per l’estrazione di idrocarburi a sei chilometri da una spiaggia di elevato valore ambientale), unitesi nel 2012 in un movimento organizzato che si è dato il nome di “Coordinamento No Triv” e che ha avuto il merito di sollevare l’attenzione mediatica e la pressione politica sul tema delle estrazioni offshore, fino a portare il governo Renzi nel 2016 a sospendere il rilascio di qualsiasi nuova concessione in mare. Nel frattempo nove consigli regionali si erano fatti promotori di un referendum per far esprimere gli italiani sull’abolizione delle estrazioni entro le dodici miglia marine; tuttavia il voto, tenutosi il 17 aprile 2016, non ha raggiunto il quorum.
Nonostante il fallimento del referendum, l’ondata No Triv ha diffuso una maggiore sensibilità pubblica sul tema delle estrazioni di idrocarburi, in parte recepita dal primo governo Conte con la legge n. 12 dell’11 febbraio 2019 che ha aumentato i canoni delle concessioni per la ricerca a 185,25 euro al chilometro quadrato (aumentabili fino a 740,50 euro se la concessione è in proroga) e per l’estrazione a 1.481,25 euro al chilometro quadrato (fino a 2.221,75 euro se in proroga), e ha sospeso ogni nuovo permesso e attività in attesa dell’adozione del “Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee” (Pitesai), da varare entro i successivi ventiquattro mesi al fine di individuare determinate zone per la ricerca e l’estrazione di idrocarburi in un quadro “volto a valorizzare la sostenibilità ambientale, sociale ed economica delle stesse”. In particolare, recita la legge 12/2019, “il Pitesai deve tener conto di tutte le caratteristiche del territorio, sociali, industriali, urbanistiche e morfologiche, con particolare riferimento all’assetto idrogeologico e alle vigenti pianificazioni e, per quanto riguarda le aree marine, deve principalmente considerare i possibili effetti sull’ecosistema, nonché tenere conto dell’analisi delle rotte marittime, della pescosità delle aree e della possibile interferenza sulle coste”.
Arriviamo così ai giorni nostri, con il Pitesai che è stato elaborato dal ministero della transizione ecologica e trasmesso il 30 settembre scorso alla Conferenza unificata, la quale dovrà esprimere il parere di Regioni e Comuni in merito. Da notare che secondo la legge 12/2019 il Pitesai avrebbe dovuto essere approvato in via definitiva entro il 30 settembre 2021, ovvero nel giorno della scadenza del periodo di sospensione dei permessi per la ricerca e l’estrazione di idrocarburi, ma dal momento che il governo lo ha consegnato in ritardo alla Conferenza unificata per il parere obbligatorio previsto dalla legge, occorrerà attendere almeno fino al mese di gennaio per l’approvazione definitiva. Sperando che gli enti locali facciano le dovute pressioni affinché il documento venga opportunamente corretto, dal momento che così com’è stato elaborato dal Ministero della transizione ecologica, il Pitesai non è affatto una pianificazione olistica e rispettosa dei principi ambientali, economici e sociali, bensì un semplice mantenimento dello status quo. Come spiega infatti una nota del 6 ottobre del “Coordinamento No Triv”, “il Mite ha trasmesso alla Conferenza unificata una proposta di piano in cui non sono univocamente indicate le aree per le quali le compagnie oil&gas potranno o non potranno presentare nuove istanze di permessi di prospezione e di permessi di ricerca, o dare o non dare prosecuzione ai procedimenti di conferimento per le istanze delle attività di ricerca o di coltivazione già in essere. Il Mite invece si è limitato a indicare l’ambito territoriale di riferimento del Pitesai, pari a ben 156.403,76 km2 (di cui 81,6% in terraferma e 18,4% a mare), e un elenco di criteri di esclusione, molti dei quali “variabili” e rivedibili, sulla base dei quali gli organi di valutazione (Mite e Commissione Via) si baseranno per decidere, in modo discrezionale e di volta in volta, se autorizzare o meno attività di ricerca o di estrazione. Il Pitesai trasmesso in Conferenza unificata non è un piano, privo com’è di cartografie e zonizzazioni, ma solo un insieme di criteri. Non è di certo il piano previsto dalla legge”.
L’Italia al bivio
Nonostante il governo Draghi si trovi nella posizione di poter decidere l’abbandono delle energie fossili e la riconversione delle aziende che operano in Italia verso le fonti rinnovabili, il segnale arrivato con l’elaborazione del Pitesai non fa affatto pensare che ci sia l’intento di cambiare direzione. Esaminando la prima bozza del documento, emerge infatti che le aree territoriali individuate dal governo sono esattamente le stesse in cui finora si è potuta svolgere attività di ricerca e di estrazione, pari a 91mila chilometri quadrati di mare e 26mila sulla terraferma (si tratta del 42,5% del territorio nazionale e dell’11,5% delle aree marittime nazionali), senza alcuna valutazione di carattere ambientale né sociale. Come dice Enzo Di Salvatore, docente di diritto costituzionale all’Università di Teramo e cofondatore del Coordinamento No Triv, leggendo il Pitesai “si intuisce che il criterio non è dato dalle caratteristiche geomorfologiche o sociali dell’area (come pure dichiara il ministero), bensì dal se una certa area sia di potenziale o effettivo interesse per l’estrazione degli idrocarburi”.
Insomma, a dettare le decisioni politiche in materia di estrazione di idrocarburi sembrano essere ancora le multinazionali del settore, con Eni in testa che detiene il maggior numero di impianti e concessioni in Italia e un noto potere di influenza, e non le istanze ecologiste che chiedono di andare in un’altra direzione. Tuttavia, aggiunge Di Salvatore, “anche guardando solo al punto di vista economico, per i cittadini e per lo Stato italiano non vale più la pena che si continui a incentivare questo settore. Conviene solo a chi opera nel mercato. Ma la politica finora ha inseguito le logiche di mercato, rimettendo di fatto le proprie decisioni alle multinazionali del settore.
Lo Stato dovrebbe concedere alle aziende private di cercare o estrarre idrocarburi a fronte di un significativo ritorno economico per ciò che perde; ma in Italia questa perdita di valore non è affatto compensata dalle irrisorie royalties vigenti. Pertanto, finché sarà conveniente estrarre gas e petrolio dal sottosuolo italiano, temo che non cambierà nulla. Quando invece non sarà più conveniente farlo, allora si potrà discutere davvero di conversione energetica e transizione ecologica. Ma potrebbe essere già troppo tardi. Convertire un intero settore come quello delle fonti fossili è un processo lento e complesso, che riguarda la copertura del fabbisogno energetico nazionale e il ricollocamento di decine di migliaia di lavoratori: si tratta di questioni sulle quali non possiamo permetterci il lusso di decidere quando anche le compagnie petrolifere lo riterranno conveniente. Occorre invece agire subito, interrompendo ogni forma di sussidio diretto e indiretto alle fonti fossili e rendendo questo tipo di attività non più conveniente”.
Per ora il Pitesai si è rivelato insomma una presa in giro, che non rispetta affatto l’intento originario con cui era stato concepito dal primo governo Conte (ovvero individuare un quadro territoriale condiviso tra Stato, Regioni e Comuni per pianificare lo svolgimento delle attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi tenendo conto di parametri ambientali, sociali ed economici). Da questo atto pare proprio che il governo Draghi intenda seguire la stessa scia di Monti, preferendo continuare a favorire le multinazionali dell’oil&gas al costo del collasso ambientale, seppure i suoi esponenti continuino a riempirsi la bocca di dichiarazioni a favore della presunta “transizione ecologica”. L’unica speranza positiva risiede in Regioni e Comuni, che hanno il potere di opporsi al Pitesai: arrivare a uno scontro frontale, come accadde col referendum del 17 aprile 2016 che fu promosso da nove consigli regionali, potrebbe riportare il tema delle estrazioni di idrocarburi al centro dell’attenzione mediatica, in una fase in cui il dibattito e le lotte sul clima sono ancora più infuocati rispetto a cinque anni fa. Come spiega ancora la nota del 6 ottobre del Coordinamento No Triv, “una cosa deve esser chiara ai presidenti di Regione: una volta approvati i criteri in Conferenza unificata, non ci sarà modo di negoziare alcunché col governo, né di far valere le ragioni dei territori in fase di contenzioso. Mite e governo hanno proposto un viaggio di sola andata. Quanto sta accadendo vuol significare che rispetto a ‘prima del Pitesai’ le cose sono perfino peggiorate: non solo la proposta del Pitesai fotografa l’esistente prima del Pitesai, ma, una volta approvata in Conferenza unificata, tale proposta concederà al Mite ampi margini di manovra nella gestione dei procedimenti autorizzativi e legherà le mani di Regioni e autonomie locali. Per tutte queste ragioni le Regioni, le Province e i Comuni, hanno il diritto/dovere di opporsi alla proposta di Pitesai trasmessa in Conferenza unificata, salvo abdicare ai diktat estrattivisti del governo”.
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