Sulla Palestina, Biden è dalla parte sbagliata della storia
Traduzione di Giovanni Pillonca
La “riduzione del conflitto” è la merce politica più popolare oggi in Israele e Palestina, e Bennett è il propagandista più attivo delle bugie stantie che Biden si sta bevendo in blocco. Già nella sua primissima intervista come Primo ministro designato, nel giugno di quest’anno, il premier israeliano Naftali Bennett proclamava che la sua “filosofia” per gestire il futuro dei palestinesi consisteva nella “riduzione del conflitto”.
Alla fine di agosto, il nuovo Primo ministro ha portato quella stessa merce alla Casa Bianca nel suo primo incontro con il Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden: continua crescita degli insediamenti per gli israeliani, nessuna libertà, diritti o indipendenza per i palestinesi e certamente nessun negoziato; nel frattempo, nessuna annessione formale e una migliore “qualità della vita” per i palestinesi obbedienti.
E nel suo discorso inaugurale davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Bennett ha ulteriormente ridotto la questione a tal punto da non menzionarla nemmeno. In un’intervista al “New York Times”, pochi giorni prima del suo incontro con il Presidente Biden, Bennett ha descritto il suo governo come mirante “alla ricerca di una via di mezzo – così da concentrarsi su ciò su cui siamo d’accordo”. In quell’intervista, Bennett non ha tenuto affatto conto del crescente consenso espresso da gruppi palestinesi, israeliani e internazionali per i diritti umani, nel definire la “via di mezzo” della politica israeliana come quella dell’apartheid.
La visita di Bennett a Washington è stata giudicata un successo. Nel suo primo discorso da Presidente davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Biden ha detto, a proposito di una soluzione a due Stati: “Siamo molto lontani da quest’obiettivo”. Si tratta della soluzione in cui, presumibilmente, continua a credere e che Bennett rifiuta apertamente.
Verso la fine delle sue osservazioni all’Assemblea generale, Biden ha parlato in modo commovente del coraggio di quanti in Bielorussia, Birmania, Siria, Cuba, Venezuela, Sudan, Moldavia e Zambia lottano per la democrazia e la dignità umana. In qualche modo, in questa parte del suo discorso, i palestinesi sono stati cancellati. In effetti, sembrano essere “molto lontani” da un presidente americano che osi identificarsi con la loro causa, la loro libertà e la loro lotta per la dignità umana.
Il modello consolidato di Israele per farla franca con l’apartheid senza subire conseguenze internazionali si basava, in passato, sull’adesione formale e indefinita ai “negoziati” e al “processo di pace”, e nel presentare al contempo una figura di spicco, accettabile a livello internazionale, per gestire il marketing all’estero – si pensi a Shimon Peres sotto Ariel Sharon. Anche Netanyahu ha seguito con attenzione questo copione: si pensi al suo discorso di Bar Ilan, fino all’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca.
Ma ora, con Trump fuori dalla Casa Bianca (almeno fino al 2024), è diventato essenziale per Israele ricalibrare la propria immagine. Dopo quattro anni di aperto allineamento con Trump – e con il trumpismo – Israele aveva bisogno di un non Netanyahu per prendere le distanze da quei residui tossici. In questo senso chiave, le élite politiche israeliane hanno abilmente soppesato i chiari vantaggi di avere un non-Netanyahu come Primo ministro – anche un ex leader dei coloni a capo di un governo di coalizione molto insolito – per gestire meglio un presidente democratico alla Casa Bianca.
La cosa rimarchevole di questo stato di cose è che, semplicemente per il fatto di non essere guidato da Netanyahu, Israele riesce a riverniciare la sua immagine internazionale senza alcun cambiamento sostanziale delle sue politiche.
La cosa rimarchevole di questo stato di cose è che, semplicemente per il fatto di non essere guidato da Netanyahu, Israele riesce a riverniciare la sua immagine internazionale senza alcun cambiamento sostanziale delle sue politiche. Il suo attuale primo ministro non-Netanyahu non ha nemmeno bisogno di spargere intorno a sé la vecchia e buona adesione di facciata – infatti, lui, molto sinceramente, afferma apertamente che non ci saranno negoziati e nessuna indipendenza palestinese.
Come è digeribile tutto questo a livello internazionale? Semplicemente perché Bennett non è Netanyahu.
Proprio come con la “crisi” del 2020, relativa alla potenziale annessione formale, la preoccupazione qui non riguarda politiche, libertà o dignità umana significative. Si tratta solo di apparenze e di negabilità. L’annessione formale è stata una falsa pista – Israele fa ciò che vuole ovunque in Cisgiordania a prescindere – ma se dovesse passare attraverso la formalizzazione, provocherebbe un enorme imbarazzo per l’UE (e per un Presidente degli Stati Uniti non-Trump) in quanto rivelerebbe la riluttanza internazionale a mettere Israele sul banco degli imputati. Inoltre, sgonfierebbe platealmente il pallone della soluzione a due Stati che la comunità internazionale ha gonfiato con vuota retorica per decenni.
Lo stesso vale per quanto riguarda un Netanyahu contro un non-Netanyahu che continua a guidare il governo dell’apartheid israeliano sui palestinesi: consideriamo quanto sarebbe stato politicamente più complicato per il Presidente Biden accettare “nessun-negoziato-e-più-insediamenti” da un primo ministro Netanyahu. Ma da un non-Netanyahu? Niente di più semplice.
“La via di mezzo” israeliana consistente in milioni di palestinesi – metà delle persone che vivono sotto il controllo di Israele – che sopportano una forma o l’altra di sottomissione, con l’altra metà ebraica della popolazione che gode di pieni diritti (vale a dire, l’apartheid) ha così ottenuto una licenza a vita. È bastato che un non-Netanyahu ribattezzasse tutto questo come una filosofia di “riduzione del conflitto”.
E la realtà, sul terreno? I palestinesi hanno assistito per decenni – e combattuto contro – all’effettiva riduzione delle loro terre, della libertà e dei loro diritti. Sanno fin troppo bene che “ridurre il conflitto” – cioè, consentire a Israele di continuare con le sue politiche implacabili contro di loro finché il furto delle loro terre non sarà formalizzato attraverso l’annessione ufficiale – significa l’ulteriore riduzione del loro mondo.
Ridotto fino a che punto? Qualcosa che sta tra le dimensioni di un Bantustan e una cella di prigione: i palestinesi obbedienti potrebbero vedere il loro Bantustan autorizzato a migliorare economicamente; i disobbedienti – Israele rifiuta qualsiasi forma di opposizione o protesta palestinese – dovrebbero aspettarsi di dover affrontare misure che vanno dalla negazione dei permessi, al carcere, all’essere uccisi.
Mentre gli insediamenti continuano ad espandersi e continua la demolizione delle case palestinesi, mentre vengono costruite infrastrutture permanenti che aprono la strada a un milione di coloni israeliani in Cisgiordania, mentre Gaza rimane sotto blocco e i palestinesi continuano a essere uccisi impunemente dalle forze di sicurezza israeliane, “ridurre il conflitto” è la formula magica che un primo ministro israeliano non-Netanyahu deve pronunciare affinché la comunità internazionale accetti una Palestina sempre più piccola.
Questa riformulazione di proposte stantie che ora vengono riproposte – pensate alla “pace economica” o alle “misure per rafforzare la fiducia” – fornisce ai responsabili politici delle capitali occidentali una nuova occasione per negare ciò che stanno effettivamente facendo: continuare a sostenere l’apartheid israeliano. Ma le persone con una coscienza non chiuderanno mai gli occhi davanti ai blocchi di cemento, alle sbarre e ai muri che Israele impone a metà della popolazione tra il Giordano e il mare.
Salvare la faccia nonostante il fallimento delle politiche proposte non può riuscire ancora a lungo, perché, come ha detto lo stesso Presidente Biden alle Nazioni Unite, “Il futuro apparterrà a coloro che abbracciano la dignità umana, non a quelli che la calpestano”. È pertanto deprecabile che Biden, per quando riguarda la Palestina, abbia rinunciato ai valori da lui stesso proclamati. I palestinesi ne stanno pagando il prezzo.
Ma la politica estera degli Stati Uniti non rimarrà per sempre dalla parte sbagliata della storia. Gli attivisti palestinesi e i loro sostenitori stanno spostando il discorso a Washington e altrove e alla fine anche la politica dovrà seguirli. È giunto il momento di spingersi oltre e in fretta, perché il potere di dire la verità ridurrà bugie, distorsioni e scuse. La Palestina irriducibile non è solo il futuro che dobbiamo abbracciare: è il futuro che possiamo realizzare.
Questo articolo è stato pubblicato su “Haaretz”, il 30 settembre 2021. L’autore è direttore esecutivo di B’Tselem, il Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati.
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