Spin Time, ovvero ricamare una mistificazione
Al cinema dal 16 settembre, l’ultimo lavoro di Sabina Guzzanti è apparentemente (ed un tempo, dichiaratamente) incentrato sugli abitanti di un palazzo occupato sito nel centro di Roma. “I poveri come non li avete mai visti” recita uno slogan della stessa per promuovere il film. Ma i poveri in questo film non si vedono, forse si intravedono, compaiono come sagome di sfondo per controbilanciare il carattere fortemente narcisista e superficiale di questa inchiesta. Li vediamo, nella loro forma più naturale, partecipare ad un laboratorio teatrale, “durato due mesi” dicono e che “ha aiutato molti di noi a riprendersi in mano dignità e consapevolezza rispetto alle nostre storie e le nostre paure” e dove “abbiamo anche individuato come nostri oppressori gli stessi che ci hanno dato un tetto”. Alcuni raccontano di essere stati personalmente intervistati dalla regista e di aver rivelato alcuni fatti scomodi e discutibili dinamiche interne che riguardano l’occupazione sita in via Santa Croce in Gerusalemme. Di questo però la regista non sembra volerne parlare nel film, forse anche lei per difenderne le fonti, il che la nobiliterebbe. Insomma gli occupanti non compaiono, le loro voci neanche. Solo i bambini parlano, parlano e cantano. Giustamente: sono innocenti quanto gli spettatori.
Eppure molti occupanti raccontano di aver partecipato per ore ed ore alle riprese, a volte singolarmente, altre volte coinvolti in gruppo; scene organizzate dalla regista stessa e dal suo staff, durante le quali venivano invitati a recitare o impersonare se stessi nella loro quotidianità. Per la maggior parte di loro non è stato facile, hanno dovuto vincere l’impatto della cinepresa, della recitazione improvvisata, di essere in pubblico e spesso hanno cercato di sottrarsi. Riferiscono di aver vinto alcune resistenze e diffidenze proprio perché “ci hanno convinto a fare un film su di noi, che ci rappresentasse”. Superfluo aggiungere che non era previsto alcun compenso. Il compenso era “la giusta causa” e lo stimolo la buona vecchia militanza politica. La stessa regista racconta che vi sono forti precarietà economiche tra gli abitanti, ciò nonostante nulla è stato riconosciuto, nemmeno un piccolo contribuito a chi ha prestato ore del proprio tempo come protagonista. Dopotutto è un documentario. E spacciando un film di finzione per un documentario si può anche non pagare.
E in più, tutte quelle persone non compaiono, quelle scene non ci sono. Per alcuni di loro, quelli over 60-70, quelli che ormai hanno fiutato che lo stato non gli concederà mai una casa, ebbene per questi un riconoscimento, una testimonianza, un segno del loro passaggio da consegnare al mondo o da mostrare ai parenti rimasti in patria, avrebbe potuto fare la differenza, dare senso e dignità ad una esistenza da ultimi. Anche loro bramavano un pizzico d’immortalità e umilmente aspettavano una restituzione del proprio tempo e della propria disponibilità.
Spin Time, che fatica la democrazia! si è rivelato essere un libero abbandono alle inclinazioni dell’autrice, un momento in cui la stessa posa radical chic che ha contribuito lungo i suoi precedenti lavori a creare l’indifendibile mito della sua capacità di raccontarci la verità e fare inchiesta è venuta a mancare.
“C’è delusione, le poche scene in cui compare il palazzo e gli abitanti sono scene ironiche o che ci mettono in ridicolo” racconta una ragazza.
Sembra che proseguendo con le domande e guadagnando fiducia, chi con la propria lingua madre, chi col proprio italiano improvvisato, si riferisca al film come di una mistificazione, un tradimento, sotto l’inganno dell’esperienza e della militanza politica. Le individualità e le peculiarità di ciascuno dimenticate e non rappresentate; le esigenze e le istanze di autonomia e di vera integrazione inascoltate e non riportate. “Mostrare le nostre assemblee senza citare il fatto che quasi tutte le decisioni vengono prese da Action e non dagli occupanti è anche offensivo, prima di parlare di democrazia andrebbero fatti parlare gli abitanti e non gli esponenti politici o del comitato culturale”.
E’ un film fatto per tranquillizzare le classi dominanti e al contempo mitigare gli istinti della destra e sollevare la sinistra dalle proprie ipocrisie. Scodinzola e ironizza nel suo elogio del movimento di lotta per la casa Action e trova la propria conclusione (tra tutte le variabili possibili e le scene che gli occupanti raccontano di aver girato) in un vicolo cieco, l’unico esente da rischi, l’unico che accontenta un po’ tutti (tranne gli ultimi) che raffigura una vera e propria assoluzione degli oppressori, mostrandoli nel loro tentativo di “educare” i poveri.
