Smart Bangladesh
«Sheikh Hasina? Incarna il fascismo femminile». Saydia Gulrukh non le manda a dire. Attivista, giornalista e fotografa, siede nella terrazza dell’edificio che ospita la sede di Drik, un’organizzazione fondata nel 1989 a Dacca per promuovere – con corsi, mostre fotografiche, discussioni pubbliche – immagini del Bangladesh prodotte dal suo interno, fuori dagli stereotipi a cui i media hanno consegnato questo Paese da 170 milioni di abitanti. «Non ho problemi nel definirmi sia attivista sia giornalista. Le due cose non sono in contraddizione. Dove c’è un’ingiustizia occorre alzare la voce e usare ogni strumento a disposizione, che sia la fotografia, il giornalismo scritto, le proteste pubbliche».
Saydia Gulrukh non parla per sentito dire: a Dacca è conosciuta e stimata per la determinazione con cui si occupa di diritti negati, abusi, ingiustizie, e per il coraggio con cui sfida apertamente il potere. Che qui fa tutt’uno con una donna di 76 anni a cui piace distrarsi pescando nei laghetti della sua residenza ufficiale di Ganabhaban. Sheikh Hasina, appunto. La quale assicura di essere destinata a traghettare il Bangladesh verso «un futuro prospero e sicuro». Prima ministra, leader indiscussa del partito Lega Awami, Hasina è figlia del “padre della patria” Skeikh Mujibur Rahman, l’uomo che più di altri ha contribuito all’indipendenza dal Pakistan nel 1971 e le cui foto ricoprono ogni edificio pubblico del Bangladesh, spesso accanto a quelle di Hasina, riuscita a capitalizzare l’eredità paterna e oggi votata alla costruzione di quel che chiama «smart Bangladesh».
La sua storia è peculiare e insieme paradigmatica: tra i pochi familiari sopravvissuti al massacro con cui nell’agosto 1975 vennero strappati con un colpo di Stato sanguinario il potere e la vita al padre, all’epoca già convinto che la democrazia nuocesse all’esercizio della sovranità, Hasina è vissuta in esilio fino al 1981, per poi rientrare in patria e a piedi pari nell’agone politico, diventandone protagonista assoluta. Tanto da finire per incarnare una torsione autocratica che riguarda sì il Bangladesh, ma che riflette un orientamento più generale, non solo nel Sud-est asiatico. Quello a considerare le elezioni un banco di prova non tanto della volontà popolare, ma della forza di chi è al potere, della sua capacità di manipolare le istituzioni, e di farlo impunemente. «Chi è al potere ha usato diversi mandati per organizzare una macchina che garantisce la completa impunità. Non c’è più alcuna istituzione credibile, capace di assicurare giustizia e rispondere ai veri bisogni della popolazione. Non la magistratura, non l’esercito, non la burocrazia. Il danno è sistemico, ci vorranno generazioni per ripararlo».
Così ci spiega Shahidul Alam, fotografo e fondatore dell’organizzazione Drik, di cui forse qualche lettore de gli Asini si ricorderà. Lo abbiamo già incontrato e intervistato poco dopo il suo rilascio dal carcere, dove ha trascorso 107 giorni con l’accusa di aver danneggiato l’immagine del Paese per aver criticato l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia contro alcuni studenti. Arrestato nell’agosto 2018, è stato rilasciato il 20 novembre 2018.
Un mese dopo si sono tenute le elezioni nazionali. Con due grandi blocchi politici contrapposti. Da una parte quello capeggiato dalla Lega Awami di Sheikh Hasina, dall’altro quello riconducibile al Bangladesh Nationalist Party, il Partito nazionalista del Bangladesh (Bnp), uscito sconfitto: 288 seggi parlamentari su 300 sono stati assegnati alla Lega Awami. Grazie alle frodi. «Le elezioni si sono svolte il 29, non il 30 dicembre. Le urne sono state riempite in anticipo, gli elettori intimiditi, i candidati dell’opposizione maltrattati, sequestrati, la macchina dello Stato usata per creare un risultato artificiale. Il diritto al voto negato». Così ci raccontava nel gennaio 2019 Shahidul Alam.
Torniamo a incontrarlo quattro anni dopo, a fine novembre 2023, quando un’altra cruciale tornata elettorale è alle porte e il Paese è nuovamente polarizzato intorno ai due partiti maggioritari. Usciti dall’aeroporto, il tragitto verso la zona sud della capitale è sorprendente: il Cng – una sorta di risciò a motore, dalle sponde metalliche rinforzate – viaggia a velocità spedita. Pochi i veicoli sulla strada. Nessun ingorgo. Dacca sembra una città normale, non una megalopoli eternamente strombazzante di traffico, da 18 milioni di abitanti. La ragione è politica. Il Bnp ha deciso di boicottare le elezioni fissate al 7 gennaio 2024, dopo aver chiesto a lungo le dimissioni di Sheikh Hasina e l’istituzione di un governo a interim per gestire il processo elettorale. Poi ha provato a forzare la mano con scioperi e blocchi stradali. Il giorno del nostro arrivo a Dacca, la tattica funziona. Nelle settimane successive, perde efficacia. Così il Bnp chiama alla disobbedienza civile, chiedendo ai propri sostenitori di non pagare le tasse. Arma residuale, che non cambia l’esito delle elezioni. Scontato.
L’articolo che state leggendo è stato redatto prima del 7 gennaio 2024, ma già sapevamo che Sheikh Hasina sarebbe stata la trionfatrice. Così dicono coloro che abbiamo incontrato tra Dacca, la capitale, Chittagong, seconda città del Bangladesh e importante nodo portuale, Cox’s Bazar, nel sud-est, e la zona di Sylhet, nel nord, al confine con l’India. «Le elezioni sono una grande farsa perché Sheikh Hasina controlla tutto, non c’è più distinzione tra il partito, il governo e le istituzioni», raccontano i gestori di un negozio di abiti alle spalle del sadarghat, il lungofiume nella parte vecchia di Dacca. I commercianti si sfogano a lungo. Lamentano l’aumento dei prezzi del cibo, l’inflazione che galoppa, l’elettricità che costa più di prima. Accusano il governo di «aver comprato e occupato ogni posto di lavoro». Si lasciano andare, alternando accuse e sfottò. Poi si fanno più seri. Quasi ci ripensano: «ma queste cose le scriverai? Allora meglio che non usi i nostri nomi».
Una società impaurita. Meno libera. È una delle eredità del lungo governo di Sheikh Hasina, al potere ininterrottamente dal 2009, e già dal 1996 al 2001. Un’eredità pesante. Evidente a chi viaggia in Bangladesh. Gli interlocutori spesso si guardano intorno, prima di dire la loro. Qualcuno accusa, biasima e condanna. L’obiettivo polemico è chiaro, ma non viene nominato. «Vorrei un cambiamento vero, ma credo che dopo le elezioni non cambierà nulla. Perché? Beh, questo preferisco non dirlo», così Manur Hussain, 28 anni, gestore di un emporio specializzato nella vendita all’ingrosso di peperoncini, nel mercato di Chittagong. Il timore è mettersi nei guai. Essere considerati militanti del Bnp, il principale partito di opposizione. Che prova ad alzare la voce, pur piegato dalla repressione governativa. Nel quartiere centrale di Naya Paltan, a Dacca, una delle sedi principali del partito è chiusa ormai da settimane, quando andiamo a vedere che aria tira. L’ingresso è sorvegliato da decine e decine di poliziotti. La sera li si vede discutere a gruppetti, sulle scale del vicino hotel Victory. Svogliati e stanchi più che preoccupati, si fanno vigili solo quando si avvicina qualche corteo. Sopra le loro teste, i manifesti dei leader del Bnp sono stracciati. Un simbolo della loro sorte.
Sheikh Hasina e il suo entourage assicurano elezioni libere e trasparenti, ma sulle scrivanie dei giudici si accumulano fascicoli zeppi di imputazioni e le carceri traboccano di attivisti e militanti dell’opposizione. Diecimila? Ventimila? Nessuno sa dirlo con precisione. Quel che è certo è che tra loro, in carcere, c’è anche Mirza Fakhrul Islam Alamgir: 75 anni, già 9 periodi di detenzione all’attivo, è il segretario generale del Bnp. Nuovamente arrestato in seguito alla grande manifestazione antigovernativa del 28 ottobre 2023 finita con scontri e morti, tra cui due poliziotti. Difficile dare conto delle persone arrestate o imputate. Di quelle che hanno scelto la clandestinità. Degli oppositori deceduti in carcere, ufficialmente per arresti cardiaci. Del clima di paura e sospetto nel Paese. Impossibile immaginare qualsiasi forma di dialogo politico.
Per la leader della Lega Awami, il Partito nazionalista del Bangladesh «è un partito terrorista, violento». Terroristi sono quanti, durante i blocchi stradali, hanno incendiato bus e mezzi di trasporto e fatto deragliare treni, provocando anche delle vittime. «Nel nostro Paese non c’è posto per assassini, terroristi e corrotti», ha tuonato il 20 dicembre a Sylhet, inaugurando ufficialmente la campagna elettorale di fronte a migliaia di persone che scandivano il motto della guerra di liberazione, «Joy Bangla! Joy Bangla! Avanti Bangla! Forza Bangla!». Poi la stoccata, diretta a Londra, dove vive in esilio Tarique Rahman, condannato in absentia a nove anni per corruzione. Non un destinatario qualunque: presidente del Partito nazionalista del Bangladesh, suo padre era Ziaur Rahman, il fondatore del partito, alla guida del Paese dal 1975 al 1981. Sua madre è invece Khaled Zia, due volte primo ministro e già leader del partito.
Storica antagonista di Sheikh Hasina, è stata addomesticata: dal 2018 è agli arresti domiciliari, accusata anche lei di corruzione.
Per Sheikh Hasina sarebbe proprio l’esiliato londinese a manovrare la macchina delle proteste antigovernative. E la sua famiglia ad aver tradito lo spirito dei combattenti per la libertà, «portando in Parlamento i criminali di guerra e gli assassini del padre della nazione», cioè suo padre, ucciso con un colpo di Stato nel 1975, come abbiamo visto. Proprio su “mandato” della famiglia rivale, ritiene Sheikh Hasina.
Un nodo storico-politico irrisolto. Un antagonismo dinastico-famigliare. Vecchie ruggini personali. Che si fanno violenza di strada e istituzionale.
Secondo le organizzazioni per i diritti umani, qui i governi (anche il Bnp quando era al potere) usano ogni mezzo per mantenere il potere: omicidi extragiudiziali, sparizioni forzate, ritorsioni, repressione. Chi prova a far luce sugli abusi, rischia. Il 14 settembre 2023, i giudici del Cyber Tribunal di Dacca hanno condannato a due anni di reclusione Adilur Rahman Khan e Nasiruddin Elan, segretario e direttore dell’organizzazione bangladese Odhikar e noti attivisti per i diritti umani. A distanza di dieci anni dalle prime accuse, i due pagano la redazione di un’inchiesta sulle uccisioni extragiudiziali avvenute nel 2013 a seguito di alcune proteste politiche dei partiti islamisti.
Per i critici, Sheikh Hasina è dunque il simbolo di un potere arbitrario, violento, predatorio, censorio e autoritario. Il cui unico obiettivo è perpetuarsi. Per i sostenitori – pochi quelli incontrati in tre settimane di lavoro sul campo – è la donna giusta al posto giusto. «Andrò senz’altro a votare. E voterò per i candidati della Lega Awami. Strade, ponti, nuove tratte ferroviarie: se il Paese è progredito è solo grazie a Sheikh Hasina», così, tra gli altri, Mohammad Arif, 31 anni, gestore di un banco di frutta e verdura nel mercato di fronte alla stazione ferroviaria di Chittagong. Oltre all’eredità paterna di cui sarebbe la naturale continuatrice, lo “sviluppo” è il cavallo di battaglia preferito dalla lady di ferro asiatica: il prodotto interno lordo del Bangladesh è passato da 71 miliardi di dollari nel 2006 a 460 miliardi di dollari nel 2022, facendone la seconda economia dell’Asia meridionale dopo l’India. E il 98 per cento delle ragazze bangladesi oggi riceve l’istruzione primaria. Sono alcuni dei dati snocciolati da Hasina nel settembre scorso, alle Nazioni Unite. «Il nostro sviluppo ha un volto umano. Se riuscirò a formare nuovamente il governo, trasformeremo l’intero Bangladesh in un Paese prospero e sviluppato. Non ci saranno più persone senza terra e senza casa», ha dichiarato all’inizio della campagna elettorale.
Difficile crederle, vedendo il divario tra i ricchi che frequentano i caffè alla moda dei quartieri settentrionali di Dacca, e i poveri e poverissimi che abitano a ridosso di quei quartieri, in case semplici in cui manca tutto. A partire dal lavoro. «Lavoro qui tutti i giorni, almeno 6 ore al giorno. Trasporto ogni tipo di verdura, fino a 60 chili per volta. Quanto guadagno? Trenta, quaranta, cinquanta taka per ogni trasporto» (tra i 25 e i 50 centesimi di euro), racconta Nur Mohammad Rustam, 38 anni. Fa avanti e indietro e su e giù per il mercato delle verdure di Chittagong. Con sé ha sempre un ampio cesto di vimini. «Alla fine di ogni giornata guadagno circa 1000 taka (8 euro circa). No, non è sufficiente per mandare avanti la mia famiglia. Qui in città il costo della vita è alto. Ma in campagna, da dove vengo, lavoro non ce n’è. Andrò a votare, sì, anche se so che le cose non cambieranno».
«Lo ‘Smart Bangladesh’ di cui parla Sheikh Hasina ha a che fare con uno sviluppo che riguarda solo l’1 per cento della popolazione. Il restante 99 per cento lotta contro la fame e quando rivendica diritti rischia le pallottole», commenta l’attivista e giornalista Saydia Gulrukh.
Come accaduto ai lavoratori e alle lavoratrici del tessile. «Le loro proteste per ottenere un salario minimo dignitoso sono state accolte dalla violenza delle forze di sicurezza». Quattro i morti, nelle settimane tra novembre e dicembre, all’apice della discussione, e del conflitto, sulla revisione del salario minimo mensile.
Basta scioperi, basta proteste, tornate in fabbrica a lavorare, ha ammonito Sheikh Hasina rivolgendosi alle operaie. Attente, ha proseguito, se perdete il lavoro in fabbrica dovrete tornare nei vostri villaggi, dove il lavoro non c’è: «parole che sembrano materne, ma in cui c’è un tono di minaccia, qualcuno direbbe di stampo mafioso. Sono espressione di una donna forte del suo potere, e che vuole mantenerlo non grazie al mandato popolare, ma grazie alla sua forza. È l’icona di un nuovo fascismo femminile», conclude Gulrukh.