Sgomberi estivi. Roma
Lo sgambetto che Roma e le sue istituzioni hanno teso agli 800 rifugiati che abitavano nel palazzo di piazza Indipendenza è ormai tristemente noto.
Lo sgambetto che Roma e le sue istituzioni hanno teso agli 800 rifugiati che abitavano nel palazzo di piazza Indipendenza è ormai tristemente noto, la caduta è stata violenta e rumorosa, l’atterraggio, che non è stato attutito da nulla, si è trasformato nello schianto di 800 persone in caduta libera verso il basso. L’analisi delle forze in gioco che avrebbero potuto attenuare questa caduta è facile da compiere: le istituzioni latitano o sono in vacanza, non hanno interesse alcuno nell’agire.
Il palazzo di piazza Indipendenza, abitato da 800 persone, che da anni si autogestivano in maniera ottima ed erano assolutamente integrati all’interno del quartiere, è stato sgomberato all’alba del 19 agosto. Centinaia di agenti in tenuta antisommossa si sono calati dall’alto, rompendo finestre e porte e hanno fatto irruzione in quello che forse pensavano essere un fortino inespugnabile. Probabilmente sarebbero bastati meno agenti, meno violenza, meno tattica spicciola. Ma siamo a Roma e a Roma “famo come ce pare”. Abbiamo fatto come ci pareva anche all’alba del 24 agosto quando, dopo cinque giorni di materassi per terra e valigie usate come cuscini, si è deciso di “sgomberare gli sgomberati” anche dai fatiscenti giardinetti al centro della piazza, e sempre perché ce pareva così, abbiamo cacciato dallo stabile anche le donne incinte, i bimbi, e gli invalidi. Gli idranti hanno schiaffeggiato violentemente tutti i presenti, le camionette, gli scudi, i manganelli, e i caschi hanno invaso una piazza dormiente.
Siamo ad agosto, la città è popolata quasi esclusivamente da turisti, la soglia di attenzione dei movimenti e delle associazioni è inevitabilmente abbassata, le istituzioni sono più latitanti che mai, parlare di tavoli e interlocuzioni è difficile se non impossibile. Il prefetto è in ferie, l’Assessore alle politiche sociali del Comune in vacanza all’estero e la Sindaca alla ricerca del nuovo assessore al Bilancio. Arrivano gli agenti, colpevoli di eseguire ordini con una benda che gli copre metaforicamente gli occhi, ma il peperoncino che le donne, come sempre protagoniste, oggi come negli anni degli assalti ai forni, hanno stretto nei loro pugni e hanno poi gettato in aria per difendersi deve averglieli fatti aprire, e così è arrivata quella foto, una carezza consolatoria sulla guancia di una donna attonita, ma se ieri Anna Magnani e Ave Ninchi, nella stessa città, nel film del dopoguerra L’onorevole Angelina, affermavano con forza: “Non c’è niente da fotografa’, non semo divi del cinema”, oggi gli uomini e le donne di piazza Indipendenza i giornalisti non li vogliono vedere, non ci vogliono proprio parlare. Tutto ai loro occhi appare inutile, loro sanno – vivono qui da 15 anni – hanno capito più di noi che la situazione è irrisolvibile se manca la volontà dei poteri forti, e che poche battute rilasciate ai giornalisti cambieranno ben poco la situazione.
Il palazzo, in disuso da molti anni prima dell’inizio dell’occupazione, appartiene a un fondo immobiliare, sono 32mila metri quadri al centro di Roma, non ci vuole una mente eccelsa per capirne il valore e non era un segreto che i proprietari volessero indietro l’immobile, ma la decisione dello sgombero è arrivata “tempestiva” e “accorta” e così lungimirante che gli 800, prima sono stati brutalmente cacciati e poi si sono ritrovati senza nessuna alternativa.
La lunga giornata del 24 agosto è passata così, pochi metri più giù, sui marciapiedi di via Montebello, due lunghe file di persone sedute frontalmente ai lati della corsia a senso unico lungo cui continuavano a passare macchine e poi enjera, zighinì, lenticchie, acqua, aranciata, bibite, caldo, sudore, riunioni. Novità? no. Soluzioni? no. Alternative? No… Telecamere, fotografi, e poi ancora enjera, zighinì e lenticchie.
A dispetto di quello che potrebbe pensare qualche facilone, gli aiuti hanno però funzionato egregiamente, la “macchina della solidarietà” si è messa in moto fin da subito, sui sampietrini di via Montebello si è mangiato tanto e bene, l’acqua non è mai mancata, i mediatori aiutavano a capire cosa stesse succedendo, il supporto psicologico non si è mai fermato, si trovavano persone ben disposte a parlare e ad abbracciare, e in tanti hanno aiutato a calmare le acque e a rendere la giornata assolutamente pacifica.
Per questo bisogna ringraziare gli uomini e le donne eritrei ed etiopi di piazza Indipendenza che hanno aiutato noi romani, a casa nostra, ad affrontare la vergogna di stare da anni sopra una giostra immonda che più si avvicinano le elezioni più gira velocemente. Io c’ero, seduta per terra, l’unico utensile per dare una mano era il mio telefono, chiamare persone, fare rete, cercare di costituire un gruppo che potesse fornire un supporto, non chiamiamolo aiuto che qui non serve, il caffè se lo possono pagare da soli.
Arrivata la sera, sono le 22.30, le persone si sono dirette “In piccoli gruppi, per non dare fastidio agli altri cittadini” – dice Simon – verso il piazzale del Baobab, rimaniamo in una ventina, di cui 4 o 5 rifugiati. In quell’esatto momento appaiono tre persone, che fino a poco prima sembravano noncuranti. Sono la Sos, la Squadra operativa sociale, un nome altisonante per un team tutt’altro che risolutivo. “Salve, siamo la Sos”, mi guardo in giro pensando che da un momento all’altro arrivassero dei super eroi, “volevamo sapere se c’è qualche emergenza e bisogno di qualche posto letto per la notte”. “Sì, 800”. Non li hanno. Ne offrono 14 per le donne e 11 per gli uomini. Divisi. I figli anche se maschi possono stare con le mamme – tengono a sottolineare. Non potranno cucinare, il pranzo e la cena verranno “gentilmente offerti” da catering esterni. Potranno uscire ed entrare dal Centro solo in orari rigidi. I bagni sono pochi. Le camere? Dipende, Anche cinque persone nella stessa stanza. “No grazie” risponde un papà. “Ah quindi lei rifiuta l’aiuto che le offre il comune di Roma? Voi, dichiarate di rifiutare?”, chiede con un sorrido placido, che si trasforma nel giro di niente in un ghigno, l’omino con la pettorina.
Sì, effettivamente è assurdo che delle persone che sono in Italia da tanti anni, e che nello stesso orario, fino a pochi gironi prima stavano probabilmente accendendo lo zampirone sul davanzale della propria casa, come tutti facciamo nelle afose sere estive romane, rifiutino di andare a dormire nel Circuito della Sos (sic!).
Anna Magnani prima, Aldo Fabrizi ora. Emigrantes, ieri come oggi. Al centro: Roma. “Damme sta bandiera che la metto nella valigia mia. E ridi che annamo in America mica a Frascati” e così Giuseppe/Aldo parte per l’America con la sua famiglia, sulla nave nasce suo figlio, arrivano in Argentina, insieme agli altri vengono accolti in un centro, uomini lì, donne e figli insieme, “Bonanotte Adè”, e da un bacio al neonato, “se vedemo domani”. Poi cerca una “casetta”, la trova e va dal principale con il cappello stropicciato tra le mani da muratore e lo sguardo basso. Chiede in uno spagnolo zoppicante: “Ho trovato una casita, mi hanno chiesto tre mesi di deposito, io non ho soldi, vi ringrazierei mucho se… ”.
Corsi e ricorsi. Fotogrammi in bianco e nero che diventano rapidi click a colori.
Sono passati dei giorni, di soluzioni non se ne prospettano. Di alternative per gli uomini e le donne di via Curtatone neanche a parlarne.
“Ci volete rendere invisibili”, ha detto Gibron, uno dei ragazzi sgomberati dalla polizia a suon di cariche e cannoni ad acqua. A occhi distratti e superficiali potrebbe sembrare vero. 800 persone sembrano sparite, dissolte, ma così non è. Le loro vite, stravolte, vanno avanti. Tra gli 800 abitanti del palazzo, almeno 700 arrancano, cercando di mantenere una parvenza di normalità e di dignità. Almeno 700 sono in giro per le strade della città. Come Kidane. Lavora tutte le notti, dalle 21 alle 4 del mattino, nel bar di una stazione ferroviaria. Di giorno vorrebbe riposare. Non ha un contratto, se non va al lavoro non lo pagano. Così ora dorme alla stazione, cartoni per terra e via, oppure su qualche panchina, o su un marciapiede, o dove capita, vicino a qualche amico che veglia sulle sue cose, ormai poche. Un esempio fra 700. Anche Emanuel lavora di notte, dalle 4 alle 10 del mattino. Tra pochi giorni finirà i tre mesi di prova e riceverà lo stipendio. Tre mesi per capire se effettivamente è in grado di fare le pulizie in un fastfood, 90 giorni per valutare la sua resistenza. Spera in un contratto. Sono 8 notti e 8 giorni che dorme a intermittenza. 192 ore. Deve resistere. “Sono stato in alcuni parchi, ci spostiamo continuamente, e in piccoli gruppi, per paura di essere cacciati anche dalle panchine. Ho riposato nelle aiuole e sulla sedia di un bar notturno, molti di noi fanno così, prendiamo un cappuccino, e ci appoggiamo a un tavolino per chiudere gli occhi qualche minuto; le giornate sono lunghe, siamo stanchi”. I suoi datori di lavoro conoscono la situazione che sta vivendo. E quindi? “Niente”. Anche se volesse, non potrebbe accettare il posto letto in un centro di accoglienza del Comune. Ci sono regole ferree, e poco intelligenti: se devi andare a lavoro di notte, per esempio, non puoi uscire dal centro.
“Molti di noi si vergognano di dire dove stanno dormendo, non è facile ammettere di passare la notte su dei cartoni in una stazione o in un vicolo, nascosti. Viviamo in Italia da anni, lavoriamo, abbiamo le nostre abitudini e la nostra dignità. Ho perso di vista alcuni amici, ci sono persone che non riesco a sentire da giorni – afferma Simon – avevo un album con le foto della mia famiglia. Io da bambino ad Asmara, il giorno della mia laurea, mio figlio appena nato”. Simon ha perso tutto. “Anche le immagini della mia storia, mi rimangono solo quelle dello sgombero, che difficilmente riuscirò a perdere. Mi sono rimaste sulla pelle”.
Lo sgombero ha trasformato cittadini comuni, lavoratori perfettamente integrati, in gente che dorme per strada, senzatetto. “Ero stato considerato invalido al 76%, dopo l’amputazione della gamba e l’impianto della protesi la mia invalidità è scesa al 46%. All’alba del secondo sgombero, un carabiniere è entrato nella mia stanza: ‘Mettiti la gamba con calma e poi scendi’. È tutto molto difficile”, afferma con voce tutt’altro che arrendevole Habtom. E continua: “Ho rifiutato il centro che mi ha proposto il Comune di Roma, preferisco stare per strada, la soluzione era un centro notturno, in cinque in una stanza, non potevamo portare dentro nulla, il cibo ci veniva ‘offerto’ da un catering, le entrate e le uscite regolamentate da orari rigidi”. Habtom non ci sta a passare per un approfittatore. “Non possiamo continuare a essere usati come esche da chi vuole pescare soldi. Sento dire che riceviamo 35 euro al giorno, no, quelli sono i soldi che che ricevono gli enti gestori dei centri di accoglienza. Al richiedente asilo vanno soltanto 2,5 euro al giorno. Una volta ottenuto lo status di rifugiato non hai più diritto neanche a quelli”. Di fronte alle alternative proposte dal Comune di Roma, riservate solo a una piccola parte degli 800 sgomberati, “è meglio la strada”, dice. Come molti altri, Habtom avrebbe diritto al Buono casa del comune di Roma. Potrebbe affittare un appartamento, ma sono in pochi a fidarsi delle istituzioni. Men che mai del Comune di Roma.
Grandi protagoniste di tutta questa storia sono le donne. Erano tante nel palazzo (il 70% degli abitanti). Sono tante rimaste per strada, ora. Altre, soprattutto quelle con figli, non avendo alternative hanno accettato l’“accoglienza”, tutt’altro che calda e amorevole, nei centri di accoglienza. Hanno trovato sporcizia e incuria. “Animaletti che si attaccavano alla pelle”, dice amareggiata Amara. “Una madre è dovuta andare via con il suo bambino, noi siamo rimaste e abbiamo pulito tutto. Ai nostri figli viene dato solo il latte, e noi non possiamo cucinare nulla, si mangia quello che ci danno, negli orari che ci vengono imposti. Le nostre abitudini, anche le più elementari, vengono cancellate”. I padri restano fuori. Vegliano dalla strada sui figli e sulle mogli. C’è chi dorme in una macchina nel parcheggio del piazzale antistante. “Dormo qui, non mi allontano da mia moglie e dai miei figli”, dice Asmelash. Famiglie spaccate, rapporti di amicizia frantumati, legami che si sfilacciano. La “disintegrazione dell’integrazione” faticosamente creata nel corso degli anni.
Abeba ha resistito cinque giorni nelle aiuole di piazza Indipendenza, a Roma. Durante lo sgombero del 24 agosto è stata violentemente schiaffeggiata dal getto degli idranti. Nelle notti seguenti ha dormito nell’ufficio nel quale lavora, per tre giorni non è riuscita a mangiare. “Vivo da fuggitiva, ho paura delle persone, ho perso la fiducia nell’Italia, un Paese che pensavo potesse diventare la mia casa, finalmente un posto dove stare. Sono fuggita dalla dittatura e ho trovato la guerriglia”. Nessuna alternativa concreta, nessuna prospettiva futura. Si muovono, riposano, mangiano e si incontrano nelle strade della città. La maggior parte si sveglia per terra e va a dormire per terra.
Centinaia di persone sparse per Roma, nessuna alternativa al presente, nessuna prospettiva futura. Si muovono nelle strade della città, riposano nelle strade della città, mangiano nelle strade della città, parlano e si incontrano nelle strade della città. La maggior parte si sveglia per terra e va a dormire per terra.
Una città accogliente, Roma, con i suoi vicoli e le sue piazze, i viadotti, i piazzali di periferia, i parcheggi, i parchetti di quartiere, le colonne del centro storico e i piloni delle borgate, l’asfalto, i sampietrini, gli anfratti. Accoglie e fa innamorare, Roma. Lo ha detto anche la sindaca Virginia Raggi, a tre mesi dalla sua elezione: “I rifugiati sono nostri fratelli e sorelle. Roma città accogliente farà la sua parte”. La parte che ha mostrato Roma sono state le spalle.