Se domani il mondo. Poesia giapponese contemporanea

Forse per sintetizzare il concetto si potrebbe dire: se non è immaginabile la poesia classica giapponese senza tanka e haiku, non è neppure concepibile la poesia contemporanea giapponese associandola a haiku e tanka. Nell’antologia Poeti giapponesi, appena pubblicata da Einaudi, che raccoglie con testo a fronte le opere di 22 poeti scritte tra gli anni Cinquanta del Novecento e oggi, c’è anche questo: un luogo comune in più sul Giappone che viene cancellato e un tentativo – non il primo in assoluto, ma forse il primo con una così vasta selezione di autori – di dare conto di come la poesia in verso libero abbia acquisito una visibilità e una ricchezza che sembrava perduta all’interno della letteratura giapponese. Il verso libero, entrato in Giappone dalla angusta porta dell’imitazione dell’Occidente, aperta a fine Ottocento secondo obiettivi e principi della Restaurazione Meiji, è rapidamente diventato sia lo strumento interpretativo, in chiave poetica, della coscienza di sé di intere generazioni e una valvola di sfogo per contraddizioni e problemi che quell’evoluzione comportava, sia un acceleratore esso stesso dei cambiamenti in atto. Un paradigma che gli anni successivi alla guerra del Pacifico hanno contribuito ampiamente a evolvere in forme sempre più complesse e sofisticate.
La poesia che si era già affrancata in modo ben percepibile da ogni genere di “imitazione” configurandosi in rielaborazione originale e autonoma, ha potuto così, agevolmente, non solo entrare a far parte di un processo di compartecipazione che presupponeva – soprattutto negli anni coperti dalla antologia – un confronto dinamico, tutt’altro che acritico, con artisti stranieri, ma poteva anche inquadrarsi in una eclettica rilettura del patrimonio culturale giapponese, tradizione classica e consolidati modelli estetici compresi. Questi peraltro non venivano affatto rinnegati, semmai subivano una disgregazione e poi una riaggregazione con nuovi presupposti e finalità, allo scopo di andare oltre la semplice comunicazione e raggiungere un livello più profondo di verità. La parola, allora, come ha detto Ōoka Makoto, insieme a Tanikawa Shuntarō maestro riconosciuto del rinnovamento esploso nel secondo dopoguerra, “diventa la punta di un iceberg. E cos’è la parte sommersa sotto la superficie del mare? Non è altro che il cuore di chi ha creato le parole e allo stesso modo è anche il cuore degli altri che viene trasmesso e condiviso”.
Il prato (1975)
E poi io chissà quando
da chissà dove
d’un tratto mi trovavo su questo prato
tutto ciò che andava fatto
le mie cellule lo ricordavano
per questo io ho preso forma umana
e ho persino raccontato storie di felicità
Tanikawa Shuntarō
Noi gente di Cipangu (1985)
Quelle isole avvolte da nuvole dorate
non esistono in nessuna carta nautica
anche noi che di quelle isole siamo
[gli abitanti
non esistiamo in nessuna realtà
il mare nato dall’illusione del mercante
[Marco Polo
e confinante con quel mare l’oceano
[della mente
dei navigatori sulle cui tempeste [affioriamo e ondeggiamo
noi gente di Cipangu in fondo
siamo una moltitudine non esistente
[sogni illusioni
non dovete credere alle nostre parole
Takahashi Mutsuo
Era una risposta che poteva apparire insufficiente per quelli che pensavano che fosse finito il tempo delle parole troppo “coscienti e oggettivizzate”, frutto di meditazione e maturazione intellettuale, anziché di quello spontaneo fluire di suoni in cui essi identificavano l’espressione poetica. In parallelo con le nuove tendenze europee ed americane si approfondivano allora le potenzialità della parola, intesa non tanto come ponte attraverso cui transita il messaggio poetico, bensì come essenza del messaggio stesso, stimolo per sensazioni che potevano essere prive di specifici contenuti. Come indica forse meglio di ogni altro l’esempio di Yoshimasu Gōzō, le parole non sono più solo quelle di un testo scritto, non appartengono ad una precisa lingua conosciuta, ma diventano un grido isolato, indistinto, qualcosa che ricorda le declamazioni delle sciamane. Alla fine non solo si è arrivati a dare massima attenzione al ritmo e alla musicalità che ne deriva, ma la parola in taluni casi è diventata solo voce senza alcun rispetto della semantica.
Su un altro versante, pur senza tradire l’essenza della poesia come sostanza di simboli e suoni, altri poeti ne hanno fatto uno strumento di protesta, di difesa dell’ambiente:
Anima assente (1974)
in un cielo d’inferno
un uccello che seguita a volare
trasformato in un arcobaleno bianco
adesso
sta morendo
nel fondo della gola
che stava per spiegare
senza neppure un grido
è passata
una tempesta di neve
nel momento in cui
mare e cielo si danno il cambio
Ishimure Michiko
La sfida alle convenzioni, comunque, aleggia ovunque ed è questo marchio di fabbrica a conferire spessore ad una produzione poetica che, praticamente in tutte le sue manifestazioni, non può rimanere insensibile alla più evidente caratteristica dell’ambiente in cui viene prodotta: il cambiamento improvviso e imposto dall’alto – come ai tempi della restaurazione Meiji, ma con la differenza che questa volta il segno non era più quello, ideologicamente orientato, di un convinto nazionalismo, bensì il celebrato, materialissimo benessere e il neutro consumismo degli anni Settanta, Ottanta. Il tumultuoso sviluppo sociale ed economico non dava tregua e così alla poesia, scartata l’ipotesi di ingaggiare una impossibile lotta contro i mulini a vento anche da parte di chi si faceva guidare da un preciso impegno politico antisistema, non restava che sfruttare quella effervescenza attraverso uno sperimentalismo in vario modo connesso con la febbre consumistica che operava a 360 gradi e che concedeva anche all’arte una sua fetta di partecipazione agli utili.
Non si trattava – nella stragrande maggioranza dei casi – di una deviante disponibilità al compromesso, ma dell’adattamento ad un humus culturale che lasciava facilmente convivere serietà e divertissement, sobrietà ed esagerazione, minimalismo e mania di grandezza.
Un adattamento che, specialmente a partire dagli anni Novanta del secolo scorso ha dovuto fare i conti anche con l’erosione sempre più evidente della tradizionale separazione tra una produzione colta e una popolare. Il risultato è che la produzione poetica, specialmente delle generazioni più giovani, subisce l’influenza di una subculture che – manga in testa – in Giappone ha avuto una forza dirompente non paragonabile con altri Paesi. In una dimensione ben diversa anche l’esplosione del femminismo ha prodotto condizionamenti, rilanciando quella figura del poeta al femminile che è ben radicata nella letteratura giapponese e che riaffiora, in una commistione di antico e di sovversivo, conferendo diritto di cittadinanza a tematiche fino a ieri impensabili o quanto meno intavolando un dialogo con il passato che si annuncia come una rilettura globale di una società che, nei tanti cambiamenti, ben poco concede alla donna.
L’impegno, sia quello politico sia soprattutto quello teso a garantire la libertà della creazione, quanto meno sul piano dell’espressione linguistica, fortunatamente non è venuto meno negli anni del boom e nemmeno in quelli del cool Japan, i più fuorvianti perché non erano orientati verso la costruzione di una nuova realtà ma verso una deformazione ideologica di essa e una asfissiante omologazione psicoculturale.
Ne sono un esempio le poesie di Yae Yoichirō strettamente legate all’ineludibile problema di Okinawa.
Falda sotterranea (2005)
Sul terreno incolto di edifici in rovina
[trasformato in parco pubblico
senza che lo si avverta
crescono alberi rossi i guardiani li tagliano [perché di cattivo augurio ma
da un momento all’altro ancora
allungano
al sole del mattino la loro umida ombra
[profonda
cresciuti assorbendo le lacrime e la dolente
[fragile
voce di coloro che da tempo si raccolgono
[attorno alle tombe
gli alberi rossi
mettono frutti inutili come le cicale
[che in autunno non hanno voce
oggi che tutti se ne sono andati
le strade sono deserte l’isola inaridita
al centro del villaggio nel parco desolato
(oscuro territorio di radici profonde)
le lacrime delle donne che un tempo
[hanno imbevuto la terra
con la stessa sofferenza di allora
crescono trasformate in alberi rossi
e dalle rigogliose foglie intrecciate
lasciano cadere le loro gocce
Yae Yoichirō
Poi uno scossone, assurdamente imprevedibile e imprevisto: il grande terremoto del Tōhoku, lo tsunami, Fukushima. Il Giappone è sembrato tornare indietro, al tempo del grande dramma collettivo del XX secolo la cui epitome è la bomba atomica. Riaffiora a questo punto con prepotenza la sensazione di un’inadeguatezza imprescindibile delle concrete forme in cui il vivere sociale si realizza. La poesia, come mostra Wagō Ryōichi in modo particolarmente esplicito ma per vie più indirette tutto un mondo intellettuale che non si riconosce più nel facile ottimismo governativo, è chiamata a farsi carico di un’angoscia latente che trova sempre nuove occasioni per rigenerarsi – l’epidemia insegna – e che chiede di essere spiegata, condivisa, forse solo accettata. Di questo sentimento Misumi Mizuki è una delle interpreti più convincenti con il suo “leggerissimo” Se domani, il mondo scritto nel 2012 a poco più di un anno dallo tsunami:
Se domani, il mondo dovesse finire cosa faresti?
vorrei mangiare tutto quello che c’è di buono.
e tu,
se domani
il mondo dovesse finire
cosa faresti?
vorrei piantare dei semi. Perché nascano
[tanti fiori.
ma se il mondo finisce, di sicuro neppure
[i fiori sbocceranno
allora vorrei volare nel cielo, come gli uccelli.
bisogna allenarsi per volare nel cielo.
e se
fra un’ora
il mondo dovesse finire
cosa faresti?
sai, non ci ho mai pensato.
io continuerei a chiacchierare
con te come adesso.
e poi penso che piangeremo riconoscenti
per essere stati felici.
fantastico.
dopo aver
preparato la cena
alleniamoci a volare.
e domattina pianteremo i fiori.
cosa prepari per cena?
le solite cose, come sempre.
siamo felici, non credi?
eravamo felici, non credi?
Misumi Mizuki