Scuola, lavoro, disabilità: le promesse disattese
Ripubblichiamo un articolo uscito sul numero Asini 98/2022
Quando Fernand Deligny abbandona il lavoro all’ospedale psichiatrico all’avanguardia e progressista di Armentières, nonostante il successo attribuitogli dal ministero e dalla pubblica comunità, lo fa perché si sente un pagliaccio: Ero perfettamente cosciente (mettendo da parte ogni vanità) che stavo facendo il pagliaccio. La prova? I soli allievi “usciti” in quell’anno che non fossero rientrati dalla porta stretta alcune settimane più tardi (…) perché erano disgustati dalla minuziosa monotonia del lavoro quotidiano e della vita in famiglia, furono i volontari impegnati nella Legione nera o nelle SS.
Una sensazione di imbarazzo e malinconia mi assale in modo simile quando penso a che ne è stato di alcuni allievi e allieve con disabilità intellettiva incontrati nella mia esperienza di insegnante di sostegno. Svolgo questo lavoro da alcuni anni in una grande città del Nord: ho insegnato in scuole di città e di provincia, in istituti tecnici, professionali e licei. In qualche occasione, ho accompagnato alunni con L. 104 nella prova di volo dell’esame di stato, partecipando alla costruzione del “progetto di vita” (la futura organizzazione lavorativa) di ragazzi e ragazze cui è riconosciuto lo status di persona con disabilità. Solo di alcuni studenti salutati a luglio del loro ultimo anno di scuola, ho a oggi notizie. Mi domando, ad esempio, che ne sarà stato di Marco, un ragazzo con una diagnosi di Asperger che voleva studiare fisica ma che non riusciva nemmeno a entrare in un negozio per chiedere il latte a causa del suo mutismo selettivo. Vorrei sapere come se la passa Lorenzo che voleva lavorare in un maneggio, mentre probabilmente oggi aiuta i genitori nel negozio di famiglia. È però la storia di Laura quella che più mi interpella. L’ho incontrata qualche anno fa in un istituto tecnico: era appassionata di animali e cani, soffriva di epilessia e aveva una diagnosi di disabilità intellettiva di grado medio. Laura ha sofferto immensamente il passaggio dalla scuola al lavoro perché è finita in un centro di terapia occupazionale dove l’attività lavorativa principale è quella del confezionamento. Nei tanti mesi successivi all’inserimento lavorativo, mi ha comunicato la sua tristezza attraverso infinite righe di emoticon fatte di cuori, faccine tristi o lacrimose, facce di cagnolini inviate su Whatsapp. Dalle nostre chiacchierate al telefono e con la madre, ho dedotto che all’interno del centro ci fossero pochi suoi coetanei, che la sua vita sociale non fosse molto ricca, che in casa si annoiasse…Guardava gli stessi video di YouTube per ore e ore. Le mancava la scuola.
Il primo momento decisivo nella costruzione del futuro lavorativo dello studente con disabilità è l’orientamento alla scuola superiore che avviene durante l’ultimo anno di secondaria di primo grado. Qui, lo spazio illimitato di scelta inizia a canalizzarsi attorno a orizzonti ben precisi: nella stragrande maggioranza dei casi, le famiglie di persone con disabilità intellettiva in Italia scelgono di iscrivere i propri figli a istituti tecnici o professionali. Se si opta per un liceo, spesso è quello artistico, dove maggiori sono le attività laboratoriali e dove la didattica viene organizzata non solo in modo frontale. Nei licei, la presenza di alunni con disabilità intellettiva è invece molto bassa. Sono vari i fattori che influiscono sulla scelta delle famiglie: la presenza di un dipartimento di inclusione attivo e con una buona reputazione (le associazioni delle famiglie, i servizi di neuropsichiatria, i modi attraverso cui gli istituti si “sponsorizzano” all’esterno costruiscono questa nomea), l’idea che una persona con disabilità intellettiva non possa seguire lezioni frontali e teoriche “da liceo”, la speranza che istituti tecnici e professionali insegnino concretamente un mestiere all’alunno, la prossimità geografica. Anche se lentamente le cose stanno cambiando, nei licei i dipartimenti di sostegno sono spesso assenti o composti da uno o due insegnanti. È vero: se una famiglia decide di iscrivere il proprio figlio a un liceo che non ha in organico un insegnante di sostegno, esso sarà fornito dall’ufficio scolastico. Tuttavia, anche se nessuna legge concretamente impedisce l’accesso ad alunni con disabilità, nei fatti poche famiglie avrebbero il coraggio di far studiare il proprio figlio in un ambiente la cui organizzazione non è preparata alla sua presenza. Il problema non è, ovviamente, l’iscrizione in un istituto professionale, ma il fatto è che essa appare come l’unica opzione possibile. Per modificare questa segregazione, è necessaria una cultura dell’inclusione che porti un’istituzione ad assumersi il rischio di cambiare gli ambienti e le forme della didattica, avendo anche il coraggio di rompere il tabù implicito che vede nella presenza di alunni con disabilità (così come di origine migrante) un peggioramento della qualità didattica ed educativa di una scuola. Interessante, infine, notare come nei ranking sui migliori istituti superiori italiani pubblicati da Eduscopio la questione dell’inclusione sia totalmente assente. Tornando alle politiche di orientamento per la scelta della scuola superiore, un’altra questione cruciale riguarda il modo attraverso cui tentiamo di metterci in ascolto degli studenti con disabilità, delle loro aspirazioni e desideri. In base a quale presupposto un alunno con disabilità intellettiva non dovrebbe poter avvicinarsi alle discipline liceali, allo studio della filosofia, delle civiltà antiche, della storia dell’arte? La formazione degli insegnanti di sostegno si focalizza esattamente sulla abilità di produrre condizioni didattiche inclusive in relazione a tutte le discipline. Ma come realizzare tali condizioni se il lavoro dei docenti curricolari è profondamente condizionato da logiche valutative, concorrenziali, certificatorie, individualiste e nozionistiche, soprattutto nei licei, diametralmente opposte all’inclusione pedagogica?
Se a livello legislativo le classi differenziali sono state abolite, nella pratica dentro gli istituti professionali troviamo alcune classi con un terzo o la metà di alunni con bisogni educativi speciali. Inoltre, all’interno di quelle stesse classi avviene un ulteriore processo di selezione nel corso degli anni: si parte in prima in gruppi da 25/30 persone e si arriva in quinta in 15/20. Se sei povero, migrante e se hai difficoltà con il modo di fare scuola tradizionale, finisci o in abbandono scolastico o nella formazione professionale. Non c’è scampo. I ragazzi più tutelati, paradossalmente, sono quelli che hanno una certificazione e la cui classe dispone di insegnanti di sostegno. A volte ho incontrato alunni la cui generica diagnosi di “disturbo dell’apprendimento” era in realtà legata al fatto di non essere italofoni o avere avuto un percorso di crescita familiare accidentato: la diagnosi di disabilità ha garantito loro di non essere stralciati nel crudele gioco della selezione scolastica. La domanda fondamentale però è: come è possibile realizzare una didattica inclusiva con un così alto numero di alunni con bisogni educativi speciali? Servirebbero innanzitutto più spazi, la possibilità di lavorare in piccolo gruppo, la capacità di coordinarsi concretamente per la declinazione della disciplina in forma adeguata alla persona con disabilità intellettiva.
Dopo l’iscrizione, il secondo scoglio fondamentale nella creazione del futuro lavorativo dell’alunno con disabilità è la scelta tra un percorso di studi a “obiettivi essenziali” e uno a “obiettivi differenziati”. La scelta viene fatta dalle famiglie, sotto consiglio dell’équipe di insegnanti e medici che segue lo studente. Il primo percorso conduce all’ottenimento del diploma, il secondo solo a un certificato di frequenza privo di valore legale. Spesso negli istituti professionali gli insegnanti cercano di far ottenere il certificato di qualifica triennale (molto meno rigido a livello valutativo del diploma) agli alunni con percorso “differenziato” in modo che anche loro abbiano un documento spendibile sul mercato del lavoro. La scelta tra le due opzioni è vissuta con grande difficoltà dalle famiglie: tutti vorrebbero far ottenere un diploma ai propri figli, ma il percorso a “obiettivi essenziali” è comunque, con qualche piccolo correttivo, quello valutativo e nozionistico rivolto al resto degli alunni, e dunque spesso non sostenibile per molti ragazzi e ragazze con disabilità.
L’ultimo tassello del puzzle è costituito dai tirocini. Durante gli ultimi tre anni di secondaria di secondo grado in alcune regioni vengono attivati dei percorsi di avviamento al lavoro organizzati e finanziati da accordi di programma provinciali tra Comuni, uffici scolastici, servizi, enti di formazione e del terzo settore. I percorsi consistono, da un lato nella ricerca di luoghi di tirocinio, dall’altro nell’affiancamento formativo e servono ad assicurare un avviamento al lavoro graduale e protetto alle persone con certe forme di disabilità. La fase di ricerca e ascolto degli alunni e l’incrocio con le disponibilità del territorio è molto delicata: molti formatori svolgono dei colloqui conoscitivi, partecipano ai gruppi operativi e tentano di trovare dei luoghi dove l’esperienza lavorativa sia significativa e, possibilmente, foriera di una successiva assunzione. Durante gli ultimi anni di scuola secondaria avviene anche il passaggio dalla neuropsichiatria infantile ai servizi per la disabilità degli adulti. Terminata la scuola, i servizi dovranno supportare la ricerca occupazionale incrociando gli ambiti di interesse della persona con le possibilità della famiglia, la logistica e i trasporti, le disponibilità del territorio. È importante ricordare che non sempre agli alunni viene confermata la certificazione alla fine del percorso scolastico: talvolta persone con diagnosi come l’ADHD perdono la certificazione poiché la disabilità si manifesta solo nel percorso scolastico. Inoltre, non tutti accederanno ai sostegni della legge 68/99: il sostegno all’inserimento lavorativo (ad es. attraverso l’inserimento entro “categorie protette”) avviene solo per persone con una disabilità che comporta una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%. Chi viene preso in carico dai servizi per la disabilità degli adulti e non riesce a ottenere un incarico lavorativo tradizionale (come dipendente) o a essere assunto tramite legge 68, finisce a lavorare in laboratori protetti, centri di terapia occupazionale, centri socio occupazionali, cooperative sociali, o svolge attività in centri diurni. Per molte persone con disabilità la scuola è l’ultimo luogo non segregato che conosceranno nella loro vita. In luoghi come i centri di terapia occupazionale, i disabili intellettivi trascorrono tutto il tempo con altri disabili intellettivi. A scuola Laura amava trascorrere il tempo con tante persone diverse e non apprezzava certamente il lavoro ripetitivo che ora penso stia ancora svolgendo. Il territorio, i servizi e la società che la accolgono non sono però stati in grado di offrirle contesti di apertura e attraversamento libero. Non so quanto la sua voce sia stata ascoltata dall’équipe di professionisti che la seguono da quando è piccola (familiari, medici, insegnanti, educatori, servizi sociali). Mi sembra però che la tanto decantata comunità educante spesso diventi un insieme frammentato che fa scomparire la responsabilità invece di produrla in modo potenziato.
Molti sono i problemi che emergono da questo stato dei fatti: il primo, come abbiamo messo in luce, è relativo alle dinamiche di inclusione e segregazione. Si pone poi un problema di agency: nell’agognato incontro tra domanda e offerta di lavoro entro un territorio e nell’analisi del ruolo della scuola e dei servizi in questo percorso, dovremmo stimolare e ampliare le capacità di ascolto delle persone con disabilità. Sarebbe importante anche alleggerire il peso delle famiglie nella costruzione del futuro delle persone con disabilità intellettiva. Non è un caso che siano spesso enti religiosi a occuparsi delle attività diurne che costituiscono il lavoro per alcuni disabili intellettivi: la logica è quella assistenzialistica (che fa poi profitto) della carità. La de-istituzionalizzazione di Basaglia richiedeva la trasformazione in una società che non volesse curare o correggere la persona con disabilità ma che ritagliasse per lei un luogo dove essere se stessa ed esprimere le proprie potenzialità. Nel lavoro emerge dunque come tutta la retorica dell’inclusione valga solo fino al compimento della maggiore età. Esso svela come l’illusione di una società dove c’è posto per tutti sfumi dietro alla materialità di un mondo del lavoro e sociale che mostra che non c’è alcuna disponibilità a un reale coinvolgimento delle persone con disabilità intellettiva. Le trasformazioni avviate dalla legge 68/99 non sono sufficienti. Il problema non è soltanto quale tipo di attività la persona andrà a svolgere, ma anche come le garantiamo una vita sociale ricca e come garantiamo a noi la possibilità della presenza delle persone con disabilità nelle nostre vite anche attraverso il lavoro.
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