Roma: ragazze e ragazzi nella formazione professionale
Quanto è difficile contribuire, come insegnanti e come adulti, allo sviluppo e alla formazione degli studenti? Quanto è opportuno proporre attività formative extra-scolastiche per mostrare loro un possibile futuro lavorativo? La fragilità e l’inadeguatezza del sistema di alternanza scuola-lavoro ha investito il dibattito pubblico nelle ultime settimane, ma la voce di coloro che frequentano i centri di formazione professionale, imputati in primis per i fatti gravissimi che hanno portato alla morte di due giovanissimi studenti, non è stata ancora ascoltata. La reazione, coraggiosa e necessaria, degli studenti liceali scesi in piazza, ha palesato la frequente insensatezza e incongruità dei percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (Pcto), ma una riflessione seria sugli stage realizzati nelle scuole professionali è rimasta sullo sfondo, e soprattutto stride la quasi totale assenza dei protagonisti, gli studenti dei centri di formazione professionale. Dar loro voce appare un’imprescindibile necessità, poiché le obiezioni mosse al sistema di alternanza attualmente in vigore, e un eventuale intervento riformatore dello stesso non può non tener conto dei desideri, delle speranze, delle ambizioni e delle necessità di coloro che ne saranno protagonisti, seppur espresse attraverso il caotico e incerto flusso di pensieri di un’adolescenza talvolta troppo breve. Dalle loro risposte a domande essenziali emerge, accanto alla fragilità e alle incertezze tipiche della loro età, un interesse evidente verso il mondo adulto, e un desiderio di saper fare e saper essere che non può essere taciuto. Ogni lodevole intento pedagogico, ogni tentativo di edificazione di coscienza e sapere critico negli studenti non può e non deve ignorare la tensione verso l’abilità artigiana, verso l’affermazione di sé attraverso l’esperienza pratica della propria competenza e conoscenza. Ho quindi raccolto alcune osservazioni di studenti dei corsi di istruzione e formazione professionale e dei corsi di sistema duale, entrambi ospitati nei cfp. Le loro riflessioni offrono un’interpretazione importante del loro vissuto e del loro percorso, che merita grande attenzione e rispetto. Emerge ovviamente un quadro non privo di lacune, incertezze e inesperienza di cui dobbiamo prenderci cura, attraverso gli strumenti che possediamo come insegnanti ed educatori, consapevoli di un dovere nei loro confronti che non si limita alla trasmissione di conoscenza, ma ci impone un’attenzione verso la loro crescita e la loro personalità ben più ampia.
Beatrice, primo Iefp.
Sin da piccola mi piaceva cucinare, ho voluto coltivare le mie passioni. Poi ci veniva mio fratello, la scuola è piccola e mi sembrava che c’erano le persone giuste, e quindi l’ho scelta.
Ma vuoi andare a lavorare presto?
Si, per avere una mia vita.
Voglio essere autonoma, non mi sento piccola. Ora facendo la pratica, in cucina mi trovo molto a mio agio, se non capisco una cosa la vado subito a rifare a casa. Mi piace studiare anche le materie teoriche. Anche perché serve, mi interessa quello che dicono.
Sai che ci sono state tante proteste nelle ultime settimane? Soprattutto dai licei, dove gli studenti dicono che si va a scuola non per essere utili a qualche azienda. Sono scesi in piazza a seguito dei due incidenti mortali in stage… tu che ne pensi?
Ogni scuola, ogni professionale che porta a un tipo di lavoro è rischiosa. Anche a noi che andiamo in cucina ci può cascare addosso qualcosa, quindi penso che sono cose che succedono. Magari con le protezioni giuste riusciamo a schivarlo, ma sono cose che succedono. Noi abbiamo le scarpe anti infortunistica, la giacca fatta apposta, stando attenti riusciamo a evitarlo. Se poi succede non ci possiamo fare niente, non è colpa di nessuno.
Beh, a volte è colpa di qualcuno… ma possibile che nel cantiere dove è morto il ragazzo non ci fossero le misure di sicurezza per evitarlo?
Beh certo quella è una cosa sbagliata, le cose devono essere messe bene, devi stare attento a quello che fai, non ti puoi distrarre manco un secondo, puoi rischiare la vita.
Però tu riporti alla responsabilità del singolo il dover stare attenti…
Cioè… magari se l’azienda… è ovvio che è compito dell’azienda fare le cose bene, quindi è ovvio che te la prendi con l’azienda… però se è stato uno sbaglio, una distrazione, non è colpa dell’azienda, ma della persona a cui è successo…
Beatrice, come molti altri suoi compagni, accetta senza troppa difficoltà di dover correre dei rischi, che appaiono ai suoi occhi come insiti nella natura stessa della professione, legati al fato più che alla mancata sicurezza sui luoghi di lavoro. Una rassegnazione che a mio avviso trova le sue origini in una cultura del lavoro e del dovere fatta di sacrifici e non di diritti, l’etica della gavetta in nome della quale si deve essere disposti a tutto, perché solo attraverso la totale abnegazione a un’azienda e a un datore di lavoro si raggiungerebbe il successo professionale. Una straordinaria giustificazione morale alle inadempienze di chi dovrebbe garantire sicurezza, e che può permettersi di non farlo anche in ragione della fragilità di chi entra in punta di piedi nel mondo del lavoro convinto di dover sempre dire grazie. Non siamo di fronte al solo ricatto occupazionale, ma a un sistema che suggerisce l’obbedienza servile come strada maestra per il successo, e la scuola ha il dovere di intervenire radicalmente, adeguando i programmi didattici e offrendo esempi ed esperienze di pratica professionale di segno opposto, e soprattutto avendo cura di evitare stage in aziende che non offrano garanzie in questo senso.
Nura, secondo Iefp
Perché un cfp?
L’ho scelta perché fin da piccola mi ero appassionata alla cucina, cucinavo con mamma e papà, ma anche da sola.
Potevi fare l’alberghiero di stato, perché un cfp con meno anni?
Sinceramente non lo sapevo che fossero di meno.
Tra la pratica e la teoria, dove ti trovi meglio?
Nei laboratori, per l’ambiente, è proprio la cucina che mi mette a mio agio, il posto che mi piace. L’idea dello stage mi piace, ma allo stesso tempo un po’ mi preoccupa. Qui riescono a metterti a proprio agio, non so fuori cosa mi aspetta…
Tu hai saputo dei ragazzi morti in stage?
Sì, ma vagamente…
A seguito di questi incidenti sono nate delle proteste che chiedono l’abolizione dell’alternanza scuola lavoro, che ne pensi?
Non sono d’accordo, se hai scelto una scuola del genere è perché l’obbiettivo è quello, vuoi andare a fare stage e andare a lavorare. Poi, dico il mio parere, per questi due ragazzi che sono morti la colpa non è dello stage, una persona può morire così o morire perché ti cade un albero in testa. Cioè, sono del parere che se deve succedere succede, che stai in stage o no…
Chiara, secondo Iefp
Ho scelto un cfp perché essendo un professionale ti permette di avere qualcosa in mano dopo scuola.
Non ho ben deciso se arrivare al diploma dopo.
Quest’anno farai gli stage. Che ti aspetti? Hai voglia di farlo?
Adesso come adesso ho un po’ di ansietta. Mi spaventa come la pratica a scuola, preferisco farla con un’amica, facciamo le cose insieme, se non capisco lei mi aiuta, non mi piace stare da sola ecco.
Chiara e Nura sono amiche e compagne di classe. In entrambe convivono il desiderio e il timore verso il mondo adulto, verso un futuro prossimo in cui verrà misurata la loro adeguatezza professionale e relazionale. In questo senso gli stage, se ben organizzati, possono avere la funzione di svelare l’asprezza di un mondo prematuramente agognato, regolato anche da leggi non scritte che spesso alludono alla rivalità e alla diffidenza tra lavoratori più che alla solidarietà e alla complicità. Si impone ancora una volta la riflessione sull’avvio prematuro delle esperienze professionali, che spesso colgono impreparati gli studenti, innanzitutto emotivamente. E di nuovo impone alle istituzioni scolastiche di vigilare attentamente sui percorsi di stage, prediligendo quei luoghi dove non siano la competizione e la diffidenza a governare le relazioni tra colleghi. Ed è evidente che l’esperienza scolastica debba offrire un modello in tal senso, realizzando una didattica integrata tra teoria e pratica, che mostri come realizzare una relazione virtuosa con i propri colleghi, e quali diritti siano alla base di tale opportunità.
Davide e Federica, ex-allievi del corso Duale.
Voi avete scelto un cfp, tre anni e non 5, con l’idea di andare a lavorare rapidamente. Come la giudicate questa esperienza?
Federica: bene, molto bene. Abbiamo trovato la scuola per caso, Davide doveva recuperare gli anni e anche io… all’inizio non mi aspettavo di trovarmi così bene, con i professori, nella pratica… più in pratica che in teoria…
Vale anche per te Davide?
Davide: io personalmente sono venuto qua perché prima avevo fatto delle scelte discutibili, e al centro per l’impiego mi avevano consigliato di venire qui per riqualificarmi. Perché se vieni da esperienze un po’ così con la scuola, poteva essere utile venire qui, non tanto perché io avevo idea di voler fare questo percorso. E alla fine mi sono trovato molto bene.
Una delle domande più ricorrenti che ci stiamo ponendo in questo periodo è quanto abbia senso fare gli stage…
F: per me si può fare lo stage, non sei troppo piccolo, magari si potrebbe iniziare dai 16 anni, che prima magari ti senti insicuro…
D: Allora, parto dal presupposto che ci sono stati anche fattori esterni che mi hanno aiutato nel percorso, però direi che lo stage mi è servito nell’ottica di prepararmi al mondo del lavoro, a confrontarmi con un ambiente a cui non ero abituato. Proprio il cambiamento dallo stare a scuola allo stare in un ambiente in cui ci si aspetta un certo rendimento e un certo comportamento, a scuola ti puoi permettere di essere più libero in generale.
In teoria anche la scuola pretende comportamento e rendimento…
F: ma a scuola non rischi di perdere il lavoro, non ci sono conseguenze gravi se a scuola ti comporti male.
D: la scuola ti prepara, però è più leggera. La mia posizione è che gli stage sono utili, il problema è che spesso sono un po’ falsati, perché spesso l’azienda si comporta male, non c’è tanto controllo, e appunto quegli incidenti sono capitati per la mancanza di sicurezza sul lavoro, la mancanza di controlli. Un altro dei problemi è che i ragazzi magari non hanno ben sviluppato la capacità di opporsi alle ingiustizie, e non sanno dire di no quando il datore di lavoro gli propone qualcosa di non molto equo, oppure li tratta male. Anche per dire di no serve una certa maturità. Se si rendesse lo stage più agevole, la sua utilità è indiscutibile.
Un nodo centrale sono i tutor aziendali…
F: si infatti, sarebbe meglio mettere i ragazzi dove c’è chi si conosce bene.
Capita che negli stage ti allettino con una prospettiva occupazionale, e tu entri nell’idea che possa esserci una prospettiva di stabilità, ma alla fine ti accorgi che ti stanno chiedendo molto, troppo…
D: questo è uno dei motivi per cui me ne sono andato dall’ultimo stage. L’ambiente si era fatto sempre meno agevole, se n’erano andati tutti, si era fatto insostenibile, e io facevo pure il lavoro degli altri.
E questa cosa rischia di essere insostenibile…
F: esatto, lo stage va organizzato in modo perfetto, che sai da chi stai mandando i ragazzi, che cosa gli faranno imparare.
L’esperienza di Davide e Federica, che sul piano formativo e occupazionale può essere considerata un successo, svela tutta la fragilità di un percorso che presenta numerosi ostacoli agli studenti, e che riabilita ai loro occhi il mondo scolastico, che alla luce delle esperienze fatte appare più inclusivo e accogliente, un periodo della vita in cui sbagliare è consentito e utile. Potrebbe forse essere interessante immaginare, in modo strutturato e non occasionale, un percorso di educazione tra pari che consenta agli studenti più grandi di raccontare ai più giovani la loro esperienza, contribuendo a consolidare la relazione che la scuola deve costruire con i nuovi allievi, per poterli guidare avendo innanzitutto guadagnato la loro fiducia.
Riccardo, Marco, Samuele e Gabriele, terzo Iefp.
Ho invitato i tre ragazzi a rileggere con me le interviste ai loro compagni. Il commento è netto e chiaro, gli stage sono necessari. Necessari per capire “che aria se respira, che clima c’è dentro una cucina, crearsi un rapporto perché lavorerai sempre con gente che non conosci”. E a proposito delle morti “non dovrebbe succede ma può succede. La colpa non è dello stage, e neanche della scuola”. Emerge di nuovo quell’idea così rassegnata rispetto ai rischi a cui vanno incontro; impossibile non pensare che tale attitudine sia anche figlia di una mancata circolazione di idee e vissuti tra coetanei di altre scuole. Sarebbe dunque auspicabile una connessione, un coinvolgimento degli studenti dei cfp nelle mobilitazioni e nelle assemblee in cui si discute di alternanza e di futuro, ma è evidente che come insegnanti possiamo augurarcelo, ma non realizzarlo. Quello che invece potrebbe essere in nostro potere sarebbe aprire la scuola al territorio, renderla un luogo di formazione permanente attraverso la circolazione di idee e sapere, uno spazio dove il mondo degli adulti e dei giovani possa incontrarsi anche al di fuori della relazione codificata tra docenti e discenti. Perseguendo l’unico obbiettivo sensato per chi lavora nella scuola: garantire un futuro degno e consapevole agli studenti.
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