Ritrovare i maestri
Molti insegnanti (e sono i migliori, mi verrebbe da dire, sulla base della mia esperienza) arrivano a scuola dopo aver fatto altro nel corso della vita e spesso con un bagaglio povero di conoscenze su quello che sarà il proprio mestiere. Se si esclude qualche indicazione più o meno utile appresa in un ciclo abilitante, in corsi di formazione (spesso disutili e quasi sempre a pagamento) e ai molti totem e tabù che discendono da un passaparola fra insegnanti, infarcito dagli avverbi banditi da ogni psicologo, cioè dai “sempre” e dai “mai” della sopravvivenza quotidiana (non lasciare “mai” gli studenti da soli, compilare “sempre” il modulo se l’allievo si fa male in classe, far spostare “sempre” i ragazzi in fila per due e in modo ordinato per i corridoi), della scuola non si sa niente. La si attraversa con un lumino che si spegne continuamente e per lo più in un cammino solitario durante il quale con i colleghi non ci si confronta quasi mai ma talvolta ci si capisce e spesso ci si compiange. Molti scelgono una sana strategia di mimetismo perché a scuola è meglio tenere un profilo basso e non condividere i propri interessi. Si ha paura di essere fraintesi o di esporsi e ci si siede in sala professori accanto a degli sconosciuti che correggono dei compiti o fissano il cellulare: poi si scopre che l’insegnante di musica è una cantante mozartiana e quello di arte sta preparando una mostra di installazioni di arte contemporanea in un collettivo di artisti il cui nome ci dice qualcosa.
Nel provocatorio articolo di Livio Marchese pubblicato sul numero di gennaio della rivista, si sente l’eco di un dolore inascoltato che mi ha fatto venire in mente altri autori che sulla scuola hanno scritto pagine importanti e che potrebbero farci sentire meno soli. Si tratta di quegli insegnanti che hanno scelto di osservare e anche di raccontare la loro vita a scuola (e quindi dei pochi che della scuola possono parlare perché hanno vissuto sulla loro pelle, giorno dopo giorno, un’esperienza difficilmente condivisibile). Molti, parlando di scuola, hanno scelto il modello di Starnone in Ex cattedra, che così illustrava l’autore stesso: “Questo libro per me è una teca. Conserva e insieme espone la memoria di un lavoro lungo, quello che ho fatto nelle aule per una trentina d’anni, quello che ho fatto scrivendo, sia per il gusto di raccontare, sia per amore della scuola pubblica. Non si tratta di stinchi di santo dal profumo che ritempra. Ma per me è stato un tirocinio importante e una parte fondamentale della mia esperienza”. Il modello scelto da Starnone è stato destinato a una certa popolarità: è molto fitto l’elenco dei resoconti della scuola da parte di insegnanti decisi a scegliere la misura del racconto breve, del diario minimo, della registrazione degli eventi che hanno come teatro la scuola. Penso, per esempio, a quel bellissimo libro di Sandro Onofri, prematuramente scomparso, Registro di classe (2000), e a Dietro alla lavagna (2008) una raccolta di appunti intelligenti sulla scuola di Franco Milanesi. Si tratta di un contenitore ampio, in cui l’insegnante può esibire il sarcasmo, l’ironia o la disperazione: vi si trova di tutto, da La scuola spiegata al mio cane di Paola Mastrocola (in cui prevale la disillusione per il degrado della scuola e la volontà di una rinuncia) a Ricordi di scuola di Daniel Pennac (che disegna la sua parabola da “allievo somaro” a “insegnante disorientato”); dal pamphlet fortemente politico di Giovanna Lo Presti La scuola agra fino al libro di François Begodeau che più e meglio del film La classe, racconta che il disagio che si vive a scuola riguarda tutti (docenti e allievi), fra le istanze teoriche di assimilazionismo e la realtà di una segregazione linguistica e sociale. Ogni anno qualche libro (E la felicità, prof? di Giancarlo Visitilli o Parole di scuola di Maria Pia Veladiano per citarne alcuni), porta sul piatto del mancato ascolto sociale il ritratto di una istituzione che naviga a vista e forse alla deriva.
Non solo della scuola non si sa niente, ma non si vuole sapere niente. Visto che è uno degli specchi di una società malata, ne riproduce le nevrosi più diffuse: vive fra le scartoffie di una burocrazia soffocante, nutre il terrore di una presunta insicurezza (fra prove di evacuazione e fobie da uscita scolastica), classifica e certifica come patologie tutte le difficoltà e i disagi dei ragazzi. Inutile dire che lavorare con la paura addosso (del dirigente, del giudizio dei colleghi, della denuncia dei genitori) non va esattamente nella direzione di quel “fuoco del desiderio” da accendere a scuola di cui parla il filosofo Massimo Recalcati. Eppure il lavoro dell’insegnante continua a essere ancora denso di un senso profondo, come ci si dice spesso fra docenti a mezza voce. I diari di scuola sono importanti per fare comunità e riflettere a più voci sul mestiere dell’insegnante, ma occorre un passo ulteriore per trovare una direzione. Per quella che viene definita la “formazione permanente” degli insegnanti non sono utili le nuove etichette anglosassoni apposte sulle pratiche del lavoro più diffuse (per cui il lavoro di gruppo è il cooperative learning e la ricerca su internet con discussione in classe la flipped classroom), ma l’individuazione dei maestri che abbiamo rimosso dalla coscienza collettiva e che potrebbero darci ancora molto, se solo sapessimo ascoltarli.
Lo dice con parole molto chiare Filippo La Porta in Maestri irregolari: “Credo che abbiamo bisogno di maestri, anche se oggi tendiamo a pensare il contrario: e anzi l’idea stessa di maestro è divenuta sospetta, incompatibile con la democrazia di massa e con le sue retoriche dominanti. Nessuno vuole eleggere nessun altro a suo maestro: se ne sentirebbe sminuito! Eppure abbiamo bisogno di maestri, noi smarriti abitanti del terzo millennio, sradicati di ogni tradizione e desolatamente liberi di scegliere quello che più ci piace, orfani di tutte le ideologie. Abbiamo bisogno di maestri umili ed esigenti, in parte involontari, certamente ‘eretici’ (…), che ci aiutino anzitutto a capire che cosa è reale e che cosa è irreale nella nostra esistenza”. Ecco il primo punto da cui partire nel nostro lavoro (prima che il nostro lumino si spenga a un soffio di vento di qualche circolare ministeriale): “capire che cosa è reale e che cosa è irreale”. È solo un punto di partenza perché il compito è complesso, come spiega Howard Gardner in poche parole: “Credo che l’istruzione, l’educazione, dovrebbe concentrarsi dovunque su tre elementi: su quello che è vero, su quello che è bello e su quello che è bene”. Per tutto questo quante delle intelligenze da lui individuate dovremmo mettere in funzione? Ma procediamo con ordine.
Distinguere che cosa è reale e che cosa è irreale. È una delle prime operazioni pedagogiche: non c’è una possibilità di scelta morale se non si è in grado di distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è; in questo senso non sono immorali né la monaca di Monza, né madama Bovary, perché non sono in grado di decifrare in modo corretto gli eventi che segnano la loro vita e quindi sono destinate alla rovina. I nostri maestri sono quelli che lasciano in aula le muffe delle astrazioni e delle teorie e vanno a caccia dell’esperienza. Esperienza vuol dire rischio, esposizione, possibilità, mistero. Interrogare la realtà significa stare nel mondo e, se necessario, al mondo rispondere collettivamente con una lettera di protesta, come quella di don Milani e dei suoi ragazzi alla professoressa. Tutti i nostri maestri irregolari escono dall’aula per formare la loro classe, per dare vita alla scuola. L’insegnante del Diario di un maestro di Vittorio De Seta va a caccia di lucertole e girini per le campagne della periferia romana. I ragazzi vivono lì ed è lì che bisogna andarli a cercare, srotolando la loro esperienza fino all’aula in cui la predella della cattedra sarà trasformata in una piccola libreria per la biblioteca di classe. Questa scuola alla rovescia non è, come è stato scritto, la scuola che non ha più bisogno di nozioni e neanche quel doposcuola parrocchiale, come ha scritto Sebastiano Vassalli parlando di don Milani, in cui “un prete di buona volontà aiutava come poteva i figli dei contadini a conseguire un titolo di studio e, se non ci riusciva, incolpava i ricchi”.
Attraverso il lavoro maieutico che prendeva avvio dalla realtà quotidiana dei ragazzi (e dalle loro potenzialità creative, come avrebbe fatto notare un’altra irregolare, Maria Montessori) in quella scuola si acquisivano conoscenze linguistiche, matematiche e pratiche utilissime per la crescita e la vita adulta.
Quella necessità di aiutare i ragazzi a distinguere che cosa è reale e che cosa non lo è ha mantenuto la sua priorità perché i nostri zombetti (continuamente connessi e appesi a qualche app, social, gioco, serie, tik tok , youtuber, influencer e persuasori occulti) continuano a essere i “malestanti” del Diario di un maestro, i poveri a cui don Milani lanciava il suo invito a organizzarsi. Anzi sono più sprovveduti e più poveri perché chi li manipola e li riduce a merce è un nemico sfuggente e soprattutto mascherato. E la loro peggiore disgrazia è che i loro insegnanti e i loro genitori non hanno le conoscenze sufficienti per aiutarli a distinguere ciò che è reale e ciò che non lo è. I più colti hanno letto con piacere il libro di uno scrittore che ci spiega che dopo il Novecento sanguinario è venuto un tempo bellissimo in cui il game della connessione rende leggero il mondo. Peccato che lo scrittore si è dimenticato di dirci che nel nuovo feudalesimo gli inventori del game diventano immensamente ricchi e aumenta il numero dei “malestanti” e che la ragione sociale di quel gioco è proprio quell’“irreale” che avvolge e avvelena i nostri ragazzi e contro cui i docenti sono chiamati a lottare, moderni Atreyu alle prese con la dissoluzione del mondo di Fantàsia. La maggior parte dei docenti a stento sa far funzionare una Lim e pensa di porre un argine con i suoi “sempre” e i suoi “mai” (non tirare “mai” fuori il cellulare dallo zaino). Un po’ come il bambino olandese della storia che ci raccontavano alle elementari: con un dito infilato nel foro sul muro, cercava di opporsi alla forza del mare che minacciava di sommergere la sua città. Compito a casa: rileggere Don Milani e rivedere Diario di un maestro (riproposto in dvd da Feltrinelli con una bella raccolta di interventi sulla scuola a cura di Sergio Toffetti). A seguire, rispolverare la pedagogia di Freinet. Popolare, appunto.
Distinguere che cosa è bello e che cosa è brutto. In teoria questo secondo obiettivo sembrerebbe il più agevole da raggiungere. Sono belle le pagine di Dante, dell’Odissea, di Ariosto, dei Promessi Sposi e spesso in classe la grandezza dei classici è in grado di compiere un miracolo (“questo conte Ugolino spacca, prof!”). Ma non si tratta di costruire un canone di autori e opere da trasmettere meccanicamente ai ragazzi. Ci sono molti ostacoli da superare (lo spezzatino di testi belli e brutti disposti in successione in antologie che scoraggiano alla lettura, il fascicolo povero dei testi della storia letteraria… ), ma a questi ostacoli si può ovviare con un po’ di fantasia, portando altri libri in classe, leggendo ad alta voce, improvvisando laboratori teatrali e di poesia. La difficoltà maggiore nella scuola media è quella di aiutare i ragazzi a costruirsi un canone proprio, sulla base delle proposte dell’insegnante, anche partendo da richieste che non stanno “dentro il programma” (in una seconda può emergere la necessità di sapere che cosa è l’Olocausto, in una terza una riflessione sulla differenza fra legalità e giustizia). Questa “flessibilità” dell’insegnante però richiede alcune condizioni che non sempre si realizzano: non solo un lavoro di formazione permanente e una vita a contatto con la realtà, ma anche la capacità di condividere i propri interessi e le proprie passioni, e infine paradossalmente lo sforzo di staccarsi da essi se necessario. Quante volte una proposta di “cultura alta” (far vedere I quattrocento colpi e I pugni in tasca in aula video) cade nel vuoto perché significativa solo per l’insegnante e scollegata da un percorso, estemporanea e sterile. Spesso l’insegnante non è abbastanza adulto per capire che il suo ruolo non è quello di portare i ragazzi a contemplare ciò che piace a lui, ma quello di cercare una strada adatta a loro (senza peraltro conformarsi al loro gusto e alle loro abitudini e quindi senza rinunciare al filtro “antispam” che ogni insegnante ha il dovere di opporre al brutto dilagante).
È qui viene fuori un altro problema, perché in quella gromma di fake news, trasmissioni avvilenti, idiozie televisive l’insegnante è spesso immerso fino al collo. Difficile per alcuni docenti accompagnare i ragazzi in un percorso verso il bello quando loro stessi sono i primi ad aderire acriticamente all’immondizia pseudoculturale che passa in tv o in quegli stessi canali “social” che tanto criticano se utilizzati dai ragazzi. Anche loro in molti casi “target” per festival di San Remo, Master Chef, talent show, o, nella migliore delle ipotesi, per un Alberto Angela a spasso per l’Italia. D’altra parte non è neppure raro imbattersi nell’insegnante Protagora, misura di tutte le cose, quello che – invece di guardare, ascoltare, capire – sottolinea, definisce, e infine condanna quello che per lui è inaccettabile, quello che a lui dà fastidio, quello che lui “proprio non tollera”. Il suo brutto diventa misura del mondo, anche a costo di attirare su di sé lo sguardo attonito dei suoi stessi colleghi.
Molti insegnanti, come molti adulti del nostro tempo, sono bambini non cresciuti, immersi nel loro game personale. Su questo nodo problematico ci viene in aiuto un altro grandissimo maestro dimenticato, Carla Melazzini, scomparsa da più di dieci anni, che con il marito Cesare Moreno aveva dato vita a Napoli al progetto Chance, per il recupero dei ragazzi in uno dei quartieri di Napoli governati dalla camorra: “Un insegnante di media cultura e umanità è presumibilmente disponibile a commuoversi sul dramma del giovane principe di Danimarca, e a riconoscere le ragioni dei suoi atti, anche i più estremi. Ma quanti insegnanti sarebbero disposti a riconoscere la stessa legittimità di sentimenti a un adolescente di periferia che vive il tradimento della propria madre con l’intensità e la consequenzialità del principe Amleto?”. Sta già qui, nell’incipit di quello straordinario testamento spirituale che è Insegnare al principe di Danimarca tutto il senso del lavoro di un’insegnante irregolare che è in grado di distinguere bello e brutto senza usare il limite della propria tollerabilità (che può sempre essere spinto oltre, se il ragazzo e il suo disagio sono messi al centro). Così per Carla Melazzini brutto è il tulipano finto in cui una bimba bocciata vorrebbe essere trasformata, bello un ragazzo che il giorno dopo la lettura della Metamorfosi di Kafka si affaccia in biblioteca per chiedere “Professorè, lo tenete qui il libro dello scarrafone?”.
Ma per vedere meglio, decidere una volta per sempre che cosa è bello o brutto, bisogna usare la lente di una relazione sana fra adulto e adolescente, fra insegnante e allievo. Alla fine quella relazione (continuamente mutevole perché anche l’insegnante cresce, cambia, si trasforma nel tempo e nel lavoro della scuola) è l’unico spazio in cui si può cercare di trasmettere un’idea (non preconfezionata, non manichea e soprattutto in divenire) di che cosa è bello e di che cosa è brutto. Un insegnante non trasmette né nozioni né competenze, ma solo (nella migliore delle ipotesi) uno sguardo sul mondo. Ma a questo punto siamo già nel terzo campo, l’ultimo. Compiti a casa: rileggere Carla Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca (un libro che cambia tutto, come La lettera alla professoressa). E rivedere anche gli scritti su preadolescenza e adolescenza (nel rapporto con gli adulti) di Françoise Dolto.
Distinguere che cosa è bene e che cosa è male. Lo sguardo sul mondo di cui dicevamo non è esteriore alla trasmissione del sapere a scuola: ogni società ha organizzato a suo modo il passaggio di una tradizione culturale che è anche un universo di valori condivisi. Ma in una società in cui siamo soli, prodotti riusciti del “divide et impera”, non solo è difficile ragionare con i ragazzi su che cosa è bene e che cosa è male, che cosa è giusto e che cosa è ingiusto, ma addirittura è ardua l’individuazione stessa di categorie etiche condivise in modo pressoché universale da una società disgregata. Spesso sembra di compiere un’azione di retroguardia, mentre nel mondo fuori le parole d’ordine sono asservimento al mercato, odio, razzismo, umiliazione dei poveri, perdita di garanzie nel lavoro. Entre les murs della classe l’insegnante finisce con il portare una sua verità che però suona come una moneta falsa in un mondo in cui la comunità non esiste e anzi la competizione conduce (e lo farà in modo anche più esplicito alle scuole superiori), alla performance, al “tutti contro tutti”, alla gara verso il baratro della vita adulta. Perché non essere razzisti o arroganti o provocatori quando è la società in cui viviamo a richiederlo attraverso tutti i suoi canali di persuasione?
Certo si può contare su una purezza e lucidità dei ragazzi che spesso superano quelle degli adulti: nell’ultimo film di Ken Loach Sorry we missed you tocca al figlio del protagonista (che non va a scuola, disegna graffiti per strada e imbratta le immagini esposte nel corridoio di casa) indicare al padre (ridotto a schiavo) la strada della libertà. Ma la sua voce resta inascoltata (come quella di Antoine Doinel del film di Truffaut), perché il mondo va in quella direzione (e la scena di disperazione in ospedale con la madre che insulta al telefono il datore di lavoro spiega bene che non c’è nessuno che sia solidale o che si indigni, per tacere di un progetto collettivo di ribellione neppure immaginabile). Del resto neanche la scuola è il luogo dell’ascolto della bontà e dell’innocenza e non è il luogo in cui sia facile parlare di giustizia, ma al limite è quello in cui vige una legalità che sfiora la burocrazia “sovietica”, dettata da un volere lontano e invisibile ai ragazzi (“non è consentito muoversi da soli nella scuola”, “il ragazzo deve portare il materiale”, “il pasto domestico va consumato negli appositi locali…”). La scuola è (con buona pace di don Milani) il luogo dell’ortoprassi, della fila per due, della nota (sul diario e sul registro), della valutazione. In più ci sono le bugie degli insegnanti: sull’uguaglianza, il rispetto reciproco, l’uso corretto delle parole. Sarebbe più coerente iniziare a creare una rete di docenti pensanti (e ce ne sono molti) per mettere in atto una serie di azioni di disubbidienza civile verso gli attori di un teatro dell’assurdo che fa male agli adulti e ai ragazzi, e in ultima analisi alla società. Contro Invalsi, programmazioni, disposizioni, divieti, paure, nevrosi collettive, Ptof, Rav, Bes, Pdp, Pi (solo alcune delle decine di deliranti sigle che ammorbano la scuola), piano di miglioramento e altre diavolerie. Solo così gli insegnanti possono diventare credibili agli occhi dei loro studenti. Per dirla ancora con le parole di Carla Melazzini, “da che mondo è mondo chi ha la fortuna di sviluppare una identità sufficientemente forte e autonoma cerca di sfuggire ai lacci di ogni ghetto sociale, culturale o etnico che sia. Solo così è possibile conservare e tramandarne le qualità migliori”.