Riscoprire Alba De Céspedes

“La storia di un grande amore e di un delitto”. Alba de Céspedes definisce così il suo Dalla parte di lei. Un’opera viscerale e lucida che vede la luce nel 1949 e tiene insieme anni cruciali di vita personale e collettiva. “È con grande commozione che vi affido la mia Alessandra (…) io credo di essere venuta al mondo per lasciare questo messaggio” scrive all’amico editore Arnoldo Mondadori. La riedizione del testo, di fatto l’unica opera dell’autrice reperibile in libreria, è un tributo a una grande scrittrice ingiustamente dimenticata. La protagonista Alessandra porta con sé le macerie e i germogli dell’Italia repubblicana. La sua storia è constatazione di una sconfitta e opposizione tenace all’idea che l’amore e la libertà siano una “illusione”. I sentimenti che avevano guidato donne e uomini nella Resistenza si infrangono sotto i colpi di una realtà, quella del dopoguerra, tornata a essere “banale e compromissoria”. Accanto alla grande storia scritta dai vincitori, c’è la piccola storia dei vinti o, meglio, delle vinte. Lo sguardo teso sul mondo è dalla parte di lei, dalla parte di un non detto della libertà femminile destinato a muoversi in controluce dietro gli accadimenti letti e interpretati dagli uomini.
Il prima e il dopo della vita della de Céspedes è la Resistenza, a cui la scrittrice prende parte in prima persona. All’indomani dell’otto settembre, la fuga da Roma per l’Italia libera del Sud assieme al futuro marito, il diplomatico Franco Bounous, la porta a rifugiarsi in Abruzzo. Un’esperienza di straniamento e di rimessa al mondo destinata a rimescolare relazioni e ruoli cristallizzati dal ventennio. La presa d’atto di una libertà sentimentale, oltre che politica, scompagina rapporti e mostra le maglie larghe di un rapporto tra i sessi complesso e vitale. Da Radio Bari, Alba diventa Clorinda, la giovane vestita da uomo della Gerusalemme liberata. Con la rubrica “La voce di Clorinda”, della trasmissione radiofonica Italia combatte, la partigiana si rivolge al Paese occupato e invita le donne al sabotaggio e alla resistenza. La gestazione del romanzo comincia nel ’46, a ridosso del secondo matrimonio e nel pieno di una ricostruzione difficile e contraddittoria. La conquista del voto fa i conti con una dittatura tra i sessi che ha nella famiglia il suo concepimento. Il destino della donna si consuma da sempre nel cuore delle pareti domestiche. La moglie resta una minore su cui il marito esercita la “potestà maritale”; lo “stupro” un reato contro la morale e cancellabile con il matrimonio “riparatore”, l’adulterio un crimine specificatamente femminile per cui è ammissibile il delitto d’onore.
La parità proclamata dalla Costituzione, smentita dai codici civili e penali, fa i conti con una persistente esclusione politica e sociale delle donne. Per lei, italo-cubana cresciuta tra l’Italia e la Francia, la libertà è un modo di sentire il mondo che la porta giovanissima a porre fine al primo matrimonio e a mantenersi da sola con il figlio piccolo. Nelle borgate popolose di un’Italia a cavallo tra dittatura e miracolo economico, come il quartiere romano Prati in cui ha inizio il racconto, l’esistenza delle altre non è privilegiata. La vita femminile è nelle asfittiche pareti domestiche di palazzine anonime, in una complicità amara. Il “doppio lavoro”, quando c’è, non libera ma carica del duplice impegno di moglie e lavoratrice. È l’illusione di una emancipazione che rischia di tramutarsi in una nuova forma di asservimento. Il miraggio di una indipendenza che non coincide con la libertà. Lo vive su di sé Eleonora, madre di Alessandra, che per contribuire alla vita familiare dà lezioni di pianoforte. Eterea, impalpabile, “lontana (…) come lo sono i personaggi dei libri”. Irraggiungibile, come solo gli amori impossibili possono esserlo.
Dalla parte di lei è la storia di un “grande amore” tra madre e figlia in cui si condensa una genealogia matrilineare che scandisce da sempre il destino femminile. Il suicidio materno segna il prima e il dopo. Morta per troppo sentimento, per una relazione che voleva condurla fuori dalla gabbia matrimoniale. Il suo corpo sottratto alla potestà maritale e gettato nel fiume dal ponte del Risorgimento. Il ponte che segna il limite del quartiere dal resto della città e che la madre intima di non attraversare. “Come se, in tal modo, ella potesse impedirmi di diventare grande”, commenta Alessandra. Il “mito del grande amore” è l’eredità che inchioda al fato materno. Un sortilegio che riporta alla storia delle madri delle nostre madri in una lunga scia di sottomissione. L’immagine di una rapporto fusionale con l’altro, complementare, in cui si risolve di fatto la vita della donna nel ruolo primario di moglie e madre.
La favola d’amore con cui si è allevate da piccole con il latte che tiene al mondo. C’è dietro un sentimento assoluto del materno che inchioda a una immagine falsa di sé. È con questo fantasma che Alessandra combatte da sempre, insieme allo sguardo del padre che la fa vergognare di non avere troppo seno. Appena uscite dall’infanzia, il desiderio dell’uomo circuisce, isola, creando l’equivoco che durerà tutta la vita. L’illusione di potere essere amate a patto di abdicare al proprio desiderio, al proprio corpo. A se stesse. “Solo quando si aspetta un figlio si diviene finalmente sicure: allora il legame che ci ha unito agli uomini non è più basso, disprezzabile, ma splendido: siamo noi a profittarne, a insuperbircene. Divieni grassa, bella, il seno ti si gonfia di latte. Tu sola basti a sfamare tuo figlio, egli non chiede altro. Anche il dolore che si prova nel mettere al mondo è una sorta di mostruoso piacere: se sei veramente donna dovresti avere voglia di provarlo”, sono le parole della nonna che accoglie la nipote in Abruzzo.
Figlia del Fascismo, la cui “voce arrogante” trasmessa alla radio ha accompagnato la giovinezza, la donna nuova è destinata a muoversi nella contraddizione di essere “ponte” tra due epoche, passaggio tra mondi diversi. Non più nella vecchia sponda, non ancora nell’altra.
La signora maestosa, la grande madre dal portamento di “animale” che ha nella terra il suo radicamento naturale. La “padrona”, come è riconosciuta da tutti, proprietaria dei terreni, della casa, dei figli. L’accettazione del diktat maschile è ripagato dalla certezza di una appartenenza che diventa possesso, potere. È la gabbia dorata di un riconoscimento che Alessandra rifiuta per inseguire una libertà ancora ignota. Figlia del Fascismo, la cui “voce arrogante” trasmessa alla radio ha accompagnato la giovinezza, la donna nuova è destinata a muoversi nella contraddizione di essere “ponte” tra due epoche, passaggio tra mondi diversi. Non più nella vecchia sponda, non ancora nell’altra.
L’incontro con il partigiano Francesco è segnato dalla coazione a ripetere dell’antica domanda d’amore. La favola si infrange sotto i colpi di un “muro di pietra” che la vita matrimoniale ripropone con tutti i sui schemi. La cortina di ferro coniugale segna confini di genere al di là delle classi sociali e culturali di appartenenza. “Tu non puoi capire perché sei donna”, si sente rispondere dal compagno al desiderio espresso di partecipare con lui alla Resistenza. Eppure Francesco non è Ariberto, il padre dispotico e gretto con cui aveva fatto i conti fin da bambina. È un intellettuale, professore universitario, un “eroe della Resistenza”, il migliore dei mariti.
La trasgressione comincia qui, con la decisione di prendere parte alla lotta di liberazione all’insaputa di lui. È una ribellione che trasforma lentamente. Con la guerra, il mito dell’infallibilità maschile crolla insieme ai ponti e alle case. Confermato nell’ideale virile di patriota, l’uomo fa i conti con una donna nuova che ha convissuto con “le bombe sotto la verdura” e ha letto Rilke “con la mano sulla pistola”. È questa donna che Francesco non riconosce, la cui soggettività non contempla. Il colpo di pistola sparato nella notte da Alessandra dietro le spalle del marito è rottura di un sogno e presa d’atto del reale. Un colpo sordo contro la secolare schiavitù femminile che anche la nuova Repubblica tentava di dimenticare. Uno strappo irreversibile in nome di quel corpo di donna da sempre dimenticato.
Dietro l’uccisione del marito c’è l’ombra della madre. Un rapporto paritario con l’altro è possibile solo scendendo a patti con il fantasma materno e, con esso, con una cultura totalitaria tra i sessi che da sempre resiste. “Le madri dipanavano leste il filo azzurro, il filo rosa, e ignoravano la possibilità che essi avevano di legare, soffocare, uccidere, con l’infida tenerezza delle mani grassottelle. Io avevo ucciso mia madre con la sola presenza della mia vita”. La recisione della radice è l’attraversamento di una lunga notte. La presa d’atto di un divenire adulte senza riconoscimenti.
Per Alessandra è l’esperienza del carcere, per Alba un cammino di libertà intellettuale che la porta a lasciare l’Italia con non poche delusioni. Per entrambe, è la caduta nel “gran pozzo oscuro” della “malinconia” in cui sono solite inciampare le donne, scrive Natalia Ginzburg nell’ultimo numero di “Mercurio”, la rivista del dopoguerra di cui de Céspedes è stata tra le prime direttrici donne. Il periodico che fu straordinaria esperienza di ricostruzione civile e culturale chiuderà i battenti nel 1948, dopo non poche difficoltà economiche. “Io credo che questi pozzi siano la nostra forza”, la direttrice risponderà alla lettera dell’amica. “Poiché ogni volta che cadiamo nel pozzo noi scendiamo alle più profonde radici del nostro essere umano, e nel riaffiorare portiamo in noi esperienze tali che ci permettono di comprendere tutto quello che gli uomini – i quali non cadono mai nel pozzo – non comprenderanno mai. (…) Quando si cade nel pozzo si sa anche che essere felici non è poi molto importante: è importante sapere tutto quello che si sa quando si viene su dal pozzo”.
La riemersione è presa d’atto che non c’è libertà democratica che non nasca da quella sentimentale. L’emancipazione che si gioca nelle battaglie politiche e sindacali non può esserci pienamente senza una indipendenza affettiva. Il privato è questione politica. È la profezia che anticipa le rivolte femministe degli anni settanta e mostra le faglie di una democrazia da sempre fragile e, per questo, da ripensare e preservare. Nonostante i diritti acquisiti e l’emancipazione raggiunta.
Perché per le donne di oggi, d’amore si continua a morire.
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