Ridurre la distanza

Una valutazione per la prossimità educativa
In queste settimane di distanza forzata legata all’emergenza Covid-19, all’interno del discorso sulla valutazione ha guadagnato progressivamente spazio la valutazione formativa, dapprima tratteggiata in una nota ministeriale del 17 marzo e quindi esplicitamente evocata da associazionismo educativo (Mce) e dirigenti (Anp). Nel suo lavoro sul formative assessment, pubblicato in Italia come “La valutazione formativa” (2016), Laura Greenstein rileva che il termine assessment deriva dal latino assidĕre, che significa sedersi accanto. Questa etimologia è impiegata dall’autrice per introdurre la funzione che la valutazione può giocare come strategia didattica e relazione educativa. Ma qualche diavolo deve averci messo la coda, e così basta consultare un vocabolario per osservare che in italiano assìdere significa, oltre che sedersi, anche mettere a sedere e assediare. Non serve un grande sforzo di memoria per richiamare alla mente studenti messi a posto e assediati dal continuo incalzare di domande. Possiamo dire che queste tre diverse azioni (sedersi accanto, mettere a sedere e assediare) rinviano alle due fondamentali concezioni attraverso le quali la valutazione è inquadrata e praticata.
Metter seduto e assediare rimandano a una visione gerarchico-sommativa della valutazione: il distanziamento verticale e il controllo esercitati su chi apprende sono finalizzati all’espletamento di un obbligo burocratico con finalità accertativa e selettiva. In questo caso, la valutazione è usata come il fine del processo di apprendimento e insegnamento: tu studi per ottenere un buon voto, io insegno e poi valuto per assegnartene uno. E, come un fine, tale valutazione giunge alla fine dell’unità di apprendimento, del quadrimestre, dell’anno scolastico o del semestre accademico, rappresentando una netta soluzione di continuità che viene sancita con un voto.
Sedersi (assieme) invece si rapporta a un approccio valutativo che definiamo educativo e formativo. Educativo, perché in questo caso la valutazione sostiene chi apprende per arricchirne le esperienze successive. Formativo, perché la valutazione non è un fine, ma un mezzo che dà forma al processo di apprendimento e insegnamento: è attraverso la valutazione che raccogliamo informazioni su come procedere nell’insegnamento e nell’apprendimento. E, come mezzo, occupa una posizione intermedia: sta letteralmente in mezzo a tale percorso. E sta anche tra chi insegna e chi apprende.
Tre caratteristiche della valutazione educativa
Sappiamo da decenni che la valutazione formativa non solo è una strategia educativa efficace, ma è anche il modo più appropriato per praticare una valutazione autenticamente educativa. Intendiamo per valutazione educativa non semplicemente una valutazione legata a processi o contesti educativi, ma una valutazione che educa, ovvero una valutazione che, per dirla con Dewey, conduce il soggetto verso esperienze più ricche e significative. Definiamo dunque la valutazione educativa un giudizio di valore, emesso sulla distanza tra la realtà come la percepiamo e come vorremmo che fosse (generalmente: tra il livello degli apprendimenti che riscontriamo e quello che ci eravamo posti come obiettivo) e utile per ridurre tale distanza. Si tratta di una definizione incentrata su tre dimensioni essenziali: i nostri valori, la misura o l’accertamento di una distanza tra obiettivi e realtà, la funzione della valutazione.
Esprimere giudizi e gestire un potere
Partiamo dalla prima dimensione. Sottolineare che dietro ogni valutazione c’è un giudizio di valore consente di venire a patti con un dato essenziale della valutazione, ovvero col suo essere, inevitabilmente, un rapporto di potere. C’è chi valuta e chi viene valutato, e la natura di questo rapporto riflette l’asimmetria tipica di ogni relazione educativa, asimmetria che non implica che chi insegna non possa apprendere – sviluppando la propria professionalità come docente – né, come vedremo, comporta una gestione autocratica della valutazione. Implica, piuttosto, l’impossibilità di valutazioni oggettive: chi gestisce il potere nel processo valutativo pone domande su argomenti che ritiene importanti, dà valore ad alcune cose tralasciandone altre. Nello smarrimento che ha attraversato in questi giorni migliaia di docenti, uno degli interrogativi più diffusi è stato il seguente: “come posso valutare oggettivamente?”. Un giudizio di valore non è oggettivo a distanza come non lo era in presenza. E i nostri valori non guidano solo la scelta di funzioni e oggetti della valutazione. Lo testimoniano gli scarti nei voti dati a prestazioni simili o identiche. Sappiamo che spesso, anche di fronte alla stessa prova, docenti diversi (o gli stessi insegnanti in condizioni differenti) tendono a trascurare o a rilevare, a conferire maggiore o minore importanza ad alcuni elementi (errori, soluzioni), finendo con l’assegnare voti differenti agli stessi prodotti.
Per giungere a quella forma di oggettività concessa nelle faccende umane, ovvero l’intersoggettività, è utile esplicitare prima di tutto a noi stessi e poi a chi apprende funzioni, obiettivi, criteri di valutazione. Si tratta di condividere il potere che caratterizza ogni processo valutativo. Questo è fondamentale dal punto di vista educativo, perché consente a studentesse e studenti di impadronirsi dei fattori che regolano il proprio apprendimento, ovvero di autovalutarsi. E autovalutarci è una delle migliori strategie che impieghiamo per imparare.
Ogni richiamo all’oggettività della valutazione è una scelta che deresponsabilizza chi insegna, allontanandolo dai soggetti che apprendono. Una scelta che poco aiuta in tempi di didattica in presenza e rischia di avere effetti devastanti in una fase caratterizzata da una distanza forzata, nella quale le differenze di opportunità non sono più contenute e limitate nell’aula che ospita tutti.
Misurare una distanza
La seconda dimensione è quella che comunemente viene definita misurazione, rilevazione o verifica. Abbiamo visto che il giudizio di valore viene espresso sulla distanza tra il livello degli apprendimenti accertato e quello perseguito.
Uno degli aspetti fondamentali di questa fase è relativo a come concepiamo, e comunichiamo, questo scarto. Possiamo concepirlo in termini normativi, ovvero come distanza da valori medi (quelli della classe, o dell’Istituto, o con parametri nazionali e internazionali). In questo caso l’informazione ricavata è educativamente povera: dire a un ragazzo che la sua prestazione è sufficiente o insufficiente perché è al di sopra o al di sotto della media di prestazioni altrui non rappresenta un riscontro utile per orientare il suo successivo apprendimento. Eppure, si tratta di un modo di concepire l’accertamento notevolmente diffuso, condiviso e invocato non solo da chi insegna, ma anche da studentesse e studenti e dalle loro famiglie, incentrato su una visione competitiva della valutazione e dell’istruzione. Posizionando il successo o l’insuccesso al di fuori di chi apprende, questo approccio tende a incidere negativamente sulla sua motivazione intrinseca: il mal di scuola inizia da qui. Possiamo invece concepire questo scarto in termini criteriali, come livello raggiunto in una scala di padronanza. Una scala nella quale ciascun livello è definito positivamente sulla base di cose che chi apprende sa e sa fare. Stabilire così la distanza tra gli obiettivi e il livello degli apprendimenti affettivamente conseguiti è un modo generalmente efficace per orientare chi apprende. Come rileva Fernand Oury, è esattamente quel che avviene nel Judo, con i colori delle cinture che danno luogo a una gradazione rigorosamente ancorata alla padronanza di conoscenze e abilità che esplicita quali passi intraprendere per accedere al livello successivo. Il successo dello sforzo di apprendimento non dipende dal posizionamento in una graduatoria che mette in competizione gli uni con gli altri, ma dalla scelta, guidata da chi insegna, di misurarsi con sfide che consentiranno di vivere esperienze via via più significative.
Un secondo aspetto relativo a questa distanza è il modo che scegliamo per accertarla. Possiamo farlo in modo tradizionale, chiedendo a studentesse e studenti di rispondere a domande (interrogazioni, saggi, risoluzione di problemi); “oggettivo”, sottoponendo loro delle prove strutturate (test); autentico, impegnandoli in progetti che prevedono l’elaborazione condivisa di prodotti di realtà. Dal punto di vista valutativo la distanza forzata può essere parzialmente colmata facendo ricorso al terzo approccio. Grant Wiggins, uno dei padri della valutazione autentica, individua diversi livelli di autenticità nella verifica scolastica. Siamo inautentici quando chiediamo in classe a uno studente di leggere ad alta voce un passo da noi selezionato del libro da noi messo in programma. Optiamo per un accertamento autentico se chiediamo a gruppi di studentesse e studenti di produrre un file audio su un racconto o su un testo da loro scelto da donare alla biblioteca comunale. Il primo tipo di accertamento vede spesso lo studente leggere triste come chi deve. Nel secondo, la scelta di partire da interessi personali, di incentrare il lavoro sulla cooperazione e di finalizzarlo alla costruzione di qualcosa che trascende la dimensione didattica e si ricollega a una realtà esterna alla scuola, tendenzialmente dirige lo sforzo di apprendimento verso l’impiego di conoscenze disciplinari come sostegno al miglioramento di attività percepite come interessanti. La funzione di chi valuta in questo caso è preziosa perché garantisce riscontri su conoscenze e abilità da sviluppare per affrontare concretamente i problemi incontrati nella realizzazione del progetto.
Nell’accertamento autentico alle discipline viene restituito il ruolo che hanno avuto nello sviluppo dell’umanità: lenti che ci hanno consentito di vivere esperienze più ricche e più significative, di formalizzare contenuti, nozioni e concetti che consentono di affrontare la realtà in maniera efficace e appagante. Noi insegniamo qualcosa non perché abbiamo vinto una classe di concorso, ma perché la civiltà ha formalizzato certi suoi modi di pensare la realtà e agire su di essa, e ha ritenuto opportuno tramandarli per educare un certo sguardo sul reale, sviluppando abiti di riflessione e azione sul mondo. Nessuno pretende che l’accertamento autentico assuma una posizione di monopolio nella valutazione scolastica – è uno scenario poco auspicabile e del tutto irrealistico – ma in un momento di disorientamento è fondamentale impegnare studentesse e studenti in progetti che richiedono un impiego significativo delle cose che apprendono per ricostruire una vicinanza con le discipline.
Ridurre la distanza
La terza dimensione della valutazione educativa è relativa alla riduzione della distanza accertata attraverso la misurazione. Qui entra in gioco il perché della valutazione: i giudizi devono essere programmi d’azione. In questi giorni di incertezza normativa, il richiamo ministeriale alla valutazione come orientamento e la scelta di non bocciare hanno destato perplessità in quella parte di docenti abituata a concepire la valutazione nei termini di premio o punizione. L’idea che la posta in palio della valutazione altro non sia che un’informazione preziosa su come procedere per apprendere o insegnare in maniera più efficace sembra cedere il passo ad alcuni luoghi comuni che contraddistinguono i riferimenti alla valutazione formativa. Tra i più persistenti, vale la pena ricordarne due. Il primo, identificando valutazione e voto, tende ad assimilare la valutazione formativa a quella in itinere, dimenticando che quest’ultima, se finalizzata alla mera erogazione di voti, altro non è che una valutazione sommativa distribuita lungo il percorso. Il secondo concepisce la valutazione formativa nei termini di giudizio pietoso o buonista, ma è ignaro del fatto che una valutazione non rigorosa non dà forma ad alcunché, mancando di orientare tanto chi apprende quanto chi insegna.
La crisi aperta dall’emergenza attuale costringe studentesse e studenti alla coesistenza forzata in ambienti non pensati per lavorare e studiare. In questo scenario, pensare di usare una valutazione concepita come premio o punizione aggiunge stress in contesti presumibilmente già messi a dura prova. Al contrario, è possibile impiegare con senso della misura gli strumenti digitali della didattica a distanza per fornire riscontri tempestivi, calibrati sulle esigenze specifiche di singoli e gruppi, e anche di condividerli con l’intera classe.
Conclusione
Seppur richiamata in documenti normativi, celebrata nella letteratura di ricerca ed evocata da fonti ministeriali nel corso dell’emergenza che stiamo attraversando, la valutazione formativa sembra rimanere una prassi poco conosciuta e raramente praticata. D’altro canto, non è facile fare breccia in un contesto abituato a concepire la valutazione esclusivamente nei termini di una classificazione meritocratica funzionale all’identificazione dei migliori e alla legittimazione di una società di sommersi e salvati.
Abbiamo usato, in maniera apparentemente paradossale, l’analogia con uno sport da combattimento (il Judo) per illustrare una prassi e una teoria in grado di sfidare questa concezione valutativa. D’altro canto, sport e scuola son parole che nascondono concordanza nelle origini: sia la prima, proveniente da diporto e dalle uscite fuori porta, sia la seconda, derivante da skholé (ozio), rimandano all’occupazione di un tempo autenticamente concepito come libero e a esperienze che hanno un loro valore intrinseco. Il fatto che la scuola – non diversamente dallo sport – spesso tradisca le proprie radici non ci autorizza a concepire tale infedeltà come ineluttabile, né può disimpegnarci dall’impiegare alcuni mezzi, come la valutazione, per restituire all’esperienza educativa il valore che le viene sottratto.