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Ricordare la Jugoslavia a trent’anni dalla sua dissoluzione

Foto di Lorenzo Tugnoli
29 Marzo 2021
Lidia Bonifati

Il 25 giugno del 1991, Slovenia e Croazia dichiararono la propria indipendenza dalla Jugoslavia, dando avvio al processo di dissoluzione della Federazione. Il mondo stava cambiando: la Guerra Fredda era finita, il Muro di Berlino era caduto, l’Unione Sovietica stava crollando. Era il turno della Jugoslavia del maresciallo Tito. A trent’anni dalla fine dell’esperienza jugoslava, è necessario fare una panoramica sulla nascita e sulla dissoluzione della Federazione, sul conflitto degli anni novanta e sulla transizione democratica per comprendere meglio alcune delle sfide che la penisola balcanica si sta trovando a fronteggiare durante il percorso di integrazione europea.

La Jugoslavia di Tito, un’esperienza unica

La Jugoslavia di Tito nacque sulle ceneri del Regno di Jugoslavia, istituito nel 1929 dopo il colpo di stato di re Aleksandar e invaso dalle forze naziste nel 1941. Dopo la liberazione del Paese per mano della resistenza partigiana guidata da Josip Broz detto Tito nel maggio del 1945, il Parlamento abolì la monarchia e proclamò la nascita di una Repubblica popolare federale, per poi adottare nel gennaio del 1946 una nuova Costituzione, ispirandosi a quella sovietica del 1936. Essa stabiliva l’istituzione di un governo centrale, mentre alle sei repubbliche (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia) e alle due regioni autonome nella Repubblica serba (Kosovo e Vojvodina) venivano assegnate competenze molto limitate. La Jugoslavia di Tito aveva così inizio.

Il leader jugoslavo diede vita a un attore regionale capace di distinguersi tanto in politica interna quanto in politica estera. Il dinamismo e l’autonomia del Maresciallo crearono crescenti tensioni tra Tito e Stalin e portarono infine all’esclusione della Jugoslavia dal Cominform del 1948, aprendo una stagione fortemente repressiva. Da un lato, il leader sovietico definì “titoismo” la via jugoslava al comunismo e ordinò l’epurazione dei sospetti titini negli altri Paesi comunisti; dall’altro, i sospetti sostenitori di Stalin in Jugoslavia furono spesso processati sommariamente e rinchiusi in campi di prigionia. Dopo la morte di Stalin, nel 1953, ci fu un iniziale riavvicinamento tra Jugoslavia e Unione Sovietica, ma le relazioni tornarono a interrompersi durante la crisi ungherese nel 1956, quando Tito condannò apertamente l’uso della forza e l’inferenza straniera negli affari interni da parte dei sovietici.

La rottura tra Mosca e Belgrado fece precipitare la Federazione in una profonda crisi economica, offrendo alle potenze occidentali l’occasione per esercitare la propria influenza nella regione. Eppure, Tito scelse di fare dell’autogestione la colonna portante dell’ordine sociale jugoslavo, dando il via a una stagione di riforme che trasformarono la Jugoslavia tra gli anni cinquanta e sessanta. Alcune riforme costituzionali cambiarono l’assetto istituzionale del Paese e culminarono con la proclamazione, nel 1963, della Repubblica socialista federale jugoslava. Le riforme economiche, invece, miravano a favorire lo sviluppo e a inserire la Jugoslavia nel mercato internazionale, mutando radicalmente la fisionomia del Paese che passò da prevalentemente agricolo a industriale. Già in questa fase di riforme, il divario nella Federazione tra il Nord, economicamente sviluppato, e il Sud arretrato iniziò ad acuirsi: uno dei fattori che darà avvio alla dissoluzione.

In politica estera, il leader jugoslavo seppe destreggiarsi abilmente nelle dinamiche della Guerra Fredda, in particolare rispetto al processo di decolonizzazione. L’attivismo titoista portò nel 1961 alla nascita del cosiddetto Movimento dei non allineati che, tramite un appello, invitò i due blocchi a ridurre i contrasti reciproci. Nonostante lo scarso impatto internazionale del Movimento e i risultati al di sotto delle aspettative, il prestigio di Tito agli occhi dei Paesi del Terzo Mondo era largamente riconosciuto e la sua capacità diplomatica presa a esempio.

L’esperienza jugoslava fu quindi unica nel suo genere, alla luce delle peculiarità in politica interna e delle posizioni in politica estera. Eppure, i movimenti sociali del 1968 iniziarono a portare in superficie i limiti della creazione del Maresciallo. Infatti, nel 1971, si riaprì la discussione riguardo al passaggio da un assetto federale a uno confederale, nodo da sempre rimasto irrisolto. Ancora una volta, Tito riuscì a tenere insieme la Federazione, imponendo un drastico cambiamento nella classe dirigente delle repubbliche e allontanando gli esponenti più liberali e apertamente nazionalisti. Rimaneva in piedi solo la generazione partigiana, comunista e più fedele al Maresciallo, incapace però di aprirsi al pluralismo e a una reale democratizzazione del Paese. Infatti, la forza riformatrice della “vecchia guardia” rimaneva fortemente condizionata dall’autoritarismo, condannandola a isolarsi culturalmente dalla società civile.

Nel 1974, l’invecchiamento di Tito e l’inevitabile questione della sua successione portarono a una modifica della Costituzione che definì una futura presidenza collegiale, secondo un sistema di rotazione rigidamente prestabilito. In un clima internazionale sempre più incerto, il Maresciallo si spense il 4 maggio 1980 nella sua casa di Lubiana, provocando grande commozione in tutto il Paese, privato improvvisamente del Padre della Patria. I caratteri che Tito era riuscito a imprimere all’organizzazione della società jugoslava, alla politica estera e all’economia avevano reso il Paese un modello di socialismo efficace e umano, alternativo a quello sovietico. Eppure, i segnali di crescente difficoltà in campo economico e sociale non erano mancati, anche se furono a lungo ignorati o sottovalutati.

La dissoluzione e il ruolo della comunità internazionale

Il modello politico-organizzativo jugoslavo si reggeva su quattro elementi: il titoismo, la Lega dei comunisti, la struttura federale e le forze armate. Dopo la morte del Maresciallo, la Federazione fu avvolta da un clima di crescente incertezza che progressivamente erose tutti e quattro i pilastri. Il principio di equivalenza tra i popoli costituenti (serbi, croati, macedoni, sloveni, musulmani e montenegrini), alla base dello jugoslavismo, era riuscito a reggere l’assenza di Tito per tutti gli anni Ottanta, ma ai primi cenni di recessione economica divenne evidente che il modello economico e sociale dell’autogestione non era più sostenibile e non poteva più garantire la crescita economica del Paese, approfondendo ulteriormente il divario tra Nord e Sud e l’insofferenza delle repubbliche economicamente più sviluppate. A dieci anni dalla morte del leader jugoslavo, nel 1990 la Lega dei comunisti di Jugoslavia si dissolse, frammentandosi in ogni Repubblica e conoscendo risultati elettorali diversissimi alle prime elezioni multipartitiche tenutesi lo stesso anno. Se in Slovenia, Croazia, Macedonia e Bosnia la Lega dei comunisti era pressoché irrilevante contro i partiti etnonazionalisti, in Serbia e Montenegro le Leghe locali rimasero al potere, dopo essersi ribattezzate partiti socialisti. Vi fu quindi un rapido passaggio da comunismo a nazionalismo, con il conseguente riemergere di movimenti etnonazionalisti che il Maresciallo era riuscito a tenere sotto fermo controllo attraverso la struttura federale, seguendo il motto di “Fratellanza e Unità” (Bratstvo i jedinstvo). In ultimo, l’Armata Popolare Jugoslava (Jugoslovenska narodna armija – Jna) si era fortemente ridimensionata rispetto al passato, pur rimanendo la forza armata più potente dei Balcani e l’istituzione federale più costosa.

Nel 1995, durante il vertice di Cannes, con il suo appello “L’Europa muore o rinasce a Sarajevo”, Langer metteva in guardia i leader europei sullo scempio che si stava consumando in Bosnia

Una “via d’uscita” era stata prevista proprio dalla riforma costituzionale del 1974, che conferiva un esplicito diritto alla secessione per le sei repubbliche. Tale diritto fu esercitato inizialmente da Slovenia e Croazia nel giugno del 1991, seguite alcuni mesi dopo dalla Macedonia e nel 1992 dalla Bosnia-Erzegovina. Il processo di dissoluzione fu alimentato da visioni differenti riguardo al ruolo dei diversi popoli nella regione. Infatti, se sloveni e croati intendevano approfittare delle possibilità offerte dalla Comunità europea (che di lì a poco sarebbe diventata Unione europea, con la firma del Trattato di Maastricht), i serbi guidati da Slobodan Milošević aspiravano alla realizzazione della Grande Serbia, mentre i kosovari intendevano sottrarsi al controllo serbo. I conflitti innescati dai referendum per l’indipendenza coinvolsero l’intera penisola, in modo di più o meno violento. In Slovenia e Croazia gli scontri furono sostanzialmente limitati alle aree in cui era presente la minoranza serba, mentre in Bosnia si consumarono gli orrori peggiori. Dal 1992 al 1995, il Paese vide contrapporsi aspramente i tre popoli che avevano convissuto in pace per secoli: bosgnacchi (ossia la popolazione musulmana), serbi e croati. Sarajevo, città simbolo della convivenza pacifica tra culture, conobbe l’assedio più lungo e violento della storia bellica europea moderna. Nel resto del Paese, le operazioni di pulizia etnica da parte dei Serbi di Bosnia, guidati da Radovan Karadžić e dal generale Ratko Mladić, portarono, tra gli altri, al genocidio di Srebrenica, in cui nel luglio del 1995 persero la vita più di 8mila uomini e giovani musulmani, nonostante la città fosse stata dichiarata zona sicura dalle Nazioni Unite.

Quanto avvenuto a Srebrenica rese manifesta l’incapacità della comunità internazionale di intervenire a tutela dei civili e di offrire una soluzione politica a un conflitto animato da profili etnici, economici e politici. Di fatto, fu solo a seguito dell’ennesimo bombardamento di Sarajevo che gli Stati Uniti decisero di assumere un ruolo guida nella risoluzione del conflitto in Bosnia, sponsorizzando il processo diplomatico che porterà alla conclusione degli Accordi di Dayton nel novembre del 1995. Eppure, gli scontri nella regione ripresero poco dopo, quando nel 1998 le azioni dell’esercito di liberazione kosovaro (Uck) si intensificarono, così come la repressione da parte delle forze serbe. Solo dopo il fallimento della Conferenza di Rambouillet, nel 1999 la Nato attivò una campagna di attacchi aerei sulle forze serbe in Kosovo e Serbia, che dopo 78 giorni di bombardamenti portò alla conclusione delle ostilità nel Balcani. Un anno dopo, nel 2000, ebbe fine anche l’era Milošević, che fu arrestato per crimini di guerra e contro l’umanità nell’aprile del 2001 e consegnato al Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia.

La solidarietà italiana in tempi di guerra

Una parentesi che vale la pena aprire riguarda il coinvolgimento della società civile italiana durante il conflitto degli anni novanta. In piena Tangentopoli e sulla fine della Prima Repubblica, circa 20mila cittadini italiani si attivarono per portare sollievo ai civili in Jugoslavia. Fu un’azione trasversale ed eterogenea, dagli ambienti di sinistra a quelli cattolici, dal volontariato all’associazionismo e ancora ai sindacati. L’obiettivo era comune: la solidarietà. Riprendendo le parole di Luca Rastello, la società civile scelse di impegnarsi in azioni umanitarie per non vivere passivamente ciò che stava succedendo “lì”, vivendola come se fosse “qui”, una vera propria “guerra in casa”. D’altronde, tra Trieste e Sarajevo ci sono solo 570 km, circa la stessa distanza che separa Milano da Roma. Le varie realtà si trovarono a gestire tutte le fasi del conflitto, dall’emergenza delle prime ostilità nel 1991 all’accoglienza dei profughi bosniaci in fuga dalle campagne di pulizia etnica, fino agli aiuti umanitari per la popolazione di Sarajevo sotto assedio e alle marce per la pace.

Da ricordare sono anche i volontari italiani che persero la vita durante il conflitto e che sono divenuti simbolo della solidarietà colpita dalle atrocità della guerra. Guido Puletti, Sergio Lana e Fabio Moreni erano sulla cosiddetta “via dei diamanti” a bordo di un convoglio umanitario quando furono uccisi dalle forze di Hanefija Prijić detto Paraga. Insieme a Agostino Zanotti e Christian Penocchio, fortunosamente sopravvissuti, i tre volontari facevano parte del Coordinamento bresciano iniziative di solidarietà. Un altro simbolo della solidarietà italiana è Gabriele Moreno Locatelli, attivista dell’associazione Beati i costruttori di pace che con altri quattro pacifisti si era recato a Sarajevo durante l’assedio per realizzare il progetto Si vive una sola Pace. Mentre i volontari deponevano una corona di fiori sul ponte Vrbanja per commemorare la prima vittima del conflitto, Locatelli fu ucciso da uno dei temuti cecchini sui tetti di Sarajevo.

Infine, è doveroso apprezzare un’altra personalità di enorme spessore che si mobilitò durante il conflitto nei Balcani: Alexander Langer. Nel 1995, durante il vertice di Cannes, con il suo appello L’Europa muore o rinasce a Sarajevo, Langer metteva in guardia i leader europei sullo scempio che si stava consumando in Bosnia sotto gli occhi della comunità internazionale e chiedeva che quest’ultima intervenisse per ristabilire il diritto e la pace. Per il politico trentino, l’Europa aveva già fallito nel momento in cui non era riuscita ad accogliere i Paesi dell’ex-Jugoslavia prima dello scoppio del conflitto, senza offrire uno spazio multiculturale istituzionalizzato e preferendo, invece, il ruolo di osservatore neutrale, paralizzato dalle dinamiche tra gli Stati membri. Le parole pronunciate a Cannes rimasero inascoltate, a poche settimane dal genocidio di Srebrenica.

Uno sguardo al presente

Cosa rimane oggi, a trent’anni dalla fine della Jugoslavia? Guardando al panorama della regione, è possibile notare come alcune delle sfide che la penisola si è trovata ad affrontare durante e verso la fine dell’esperienza jugoslava permangano, come ad esempio le disuguaglianze tra Nord e Sud. La transizione democratica e verso un’economia di mercato è avvenuta a ritmi nettamente diversi. Una buona indicazione è data anche dalla diversa velocità con cui si è compiuto il percorso di integrazione europea. Se la Slovenia è rientrata già nel grande allargamento del 2004 e la Croazia è divenuto l’ultimo Stato ad aderire all’Unione nel 2013, gli altri Paesi dell’ex-Jugoslavia sono attualmente piuttosto indietro nel percorso di allargamento. Serbia, Macedonia e Montenegro hanno ottenuto già da alcuni anni lo status di Paese candidato, mentre Bosnia-Erzegovina e Kosovo sono ancora Paesi potenziali candidati, con una lunga strada davanti prima di poter entrare nell’Unione. Da parte sua, l’Ue ha sempre mantenuto un approccio molto prudente e spesso incapace di offrire una prospettiva realmente europea alla regione.

Quanto avvenuto a Srebrenica rese manifesta l’incapacità della comunità internazionale di intervenire a tutela dei civili e di offrire una soluzione politica a un conflitto animato da profili etnici, economici e politici.

Le economie di questi Paesi sono rimaste fragili e flagellate da alti tassi di corruzione e clientelismo, ereditati dalla vecchia classe dirigente. Ciò ha prodotto, ad esempio, un altissimo tasso di emigrazione giovanile, che in Bosnia raggiunge i livelli tra i più alti in Europa. Inoltre, se è vero che non ci sono stati più conflitti a cielo aperto, è altrettanto vero che le tensioni politiche e gli etnonazionalismi sono ancora ben radicati, senza una effettiva apertura alla società civile e senza una reale riconciliazione tra popoli. Ciò è dimostrato dai rapporti di vicinato spesso ancora problematici, in particolare tra Serbia, Kosovo e Bosnia. A ciò si aggiunge un rispetto dello Stato di diritto non sempre garantito, in quanto la libertà dell’informazione e l’indipendenza del potere giudiziario risentono spesso dell’ingerenza dei partiti e dei governi, mentre le minoranze non trovano sempre un’adeguata tutela.

A trent’anni dalla dissoluzione della Jugoslavia di Tito, le promesse di democratizzazione e apertura al mondo, così come di un futuro migliore ed europeo, sembrano infrangersi sul mancato rinnovamento della classe politica, rimasta improntata al nazionalismo, e su un processo di allargamento lento e impervio. Pertanto, sembrano esserci più elementi di continuità rispetto al passato che di rottura. I tempi di Tito appartengono al passato e ai ricordi dalle vecchie generazioni, che rimpiangono una patria gloriosa che non c’è più.


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