Ricordando Nico Naldini. Un’intervista
A cura di Nicola De Cilia
La seguente intervista con Nico Naldini si è svolta nella sua casa a Treviso, il tardo pomeriggio del 10 giugno 2004. Le domande sono state poste da Nicola De Cilia, in occasione dell’uscita del libro di Naldini, Alfabeto degli amici (2004, Ancora del Mediterraneo). Nico Naldini è nato a Casarsa nel 1929 ed è morto il 9 ottobre del 2020, all’età di 91 anni.. Fra la sua produzione, ricordiamo la cura degli epistolari di Leopardi e Pasolini, le biografie di Comisso, de Pisis e Pasolini, le numerose raccolte di poesie e il libro Il treno del buon appetito.
Vorrei partire dal tuo nuovo libro, Alfabeto degli amici, che è una carrellata sulle tue amicizie. In particolare, mi piacerebbe che esplicitassi un po’ meglio ciò che dici nell’introduzione, quando scrivi che “ciascuno di noi ricorda o dimentica secondo uno schema labirintico che rappresenta un segno di riconoscimento non meno caratteristico di un’impronta digitale”.
Quella è una frase di Philip Roth che mi piaceva molto poiché paragona i ricordi a delle impronte digitali che servono per identificare una persona. Però non si è mai tranquilli in una formula, anche se di Philip Roth. Nel romanzo L’immoralista, Gide incontra sotto un nome d’invenzione tratto dalla poesia virgiliana, Oscar Wilde e lo chiama Menalque, appunto il Menalca virgiliano. Questo Menalque è un maestro d’immoralismo, di distruzione dei luoghi comuni del bigottismo, dei falsi valori ecc. A un certo punto vengono a parlare dei ricordi. Tutti e due hanno dei ricordi di periodi passati nel Nordafrica e Menalque, Oscar Wilde, dice che è come se il passato e i ricordi non esistessero. Ogni momento della sua vita è un presente in cui non gli importa niente del passato. “Io devo vivere in questo momento, dice; i ricordi sono un’invenzione dolorosa, un’invenzione di infelicità”. Ora Oscar Wilde la sapeva lunga e così André Gide. (Cito due autori che magari i giovani di adesso non sanno neanche più chi sono. E allora bisogna proprio citarli nel senso che bisogna contrastare quella diffusa distruzione, il disconoscimento di quello che sono stati i grandi fatti della letteratura).
Questi miei ricordi allora perché? In realtà, a mia volta li difendo non come degli atti d’infelicità ma come degli atti di ricreazione della realtà. Io ho bisogno di ricreare la realtà attraverso i ricordi. Ma attenzione, i miei non sono dei ricordi convenzionalmente sistemati in una cornice in cui dico “in quell’anno ecc. eccetera”. Voglio dire che non c’è una collocazione temporale o ambientale, non ci sono legami con un prima o un dopo, un contesto culturale o puramente esistenziale o sociale o di costume o di color locale, no. C’è una estrapolazione di ricordi. L’ideale – naturalmente tra l’ideale e il reale ci passa tutto un mare – è quello di avere dei ricordi fulminei: non delle istantanee che agghiacciano, che bloccano un personaggio, una situazione, ma un fulmine che schiarisce, che illumina. Per esempio, io racconto di Gadda, uno scrittore da me così venerato, come del resto da tutta la mia generazione e da quella precedente e spero da quella successiva, che durante un ricevimento ha tenuto in mano alcuni ossi di ciliegia che non sapeva dove buttare e poi all’uscita di questo ricevimento apre il palmo della mano e li lascia cadere in un portacenere: sono queste le cose che a me piacciono. Mi riconosco una sorta di delirio di attaccamento proustiano alla realtà: credo che questa aneddotica sia addirittura ascrivibile a un certo riconoscimento proustiano della realtà, della memoria involontaria, eccetera.
Ho accostato nei miei ritratti personaggi diversi, alcuni molto noti e altri niente affatto noti; l’accostamento tra personaggi molto noti e poco noti è una frizione da cui dovrebbero scaturire come delle scintille, delle scintille che si illuminano reciprocamente: ma comunque, sia il missionario che non vuole più neanche mettere il suo cognome, il ragazzo marocchino immigrato in Italia, l’omosessuale vicentino amico di Parise, sia gli artisti noti, vengono in qualche modo presentati attraverso pertugi: io apro come dei pertugi nel tempo. Non ho dei ricordi in cui dico: “ecco il mio passato che rimpiango”. Non ho rimpianti di quel passato perché quel passato è una realtà presente che riscopro attraverso il mio pertugio; è un pertugio e non vuole essere niente di più, ecco. Non sono flash: il flash è l’istantanea agghiacciata, statica; il pertugio è dinamico.
Attraverso questa ricostruzione per pertugi, attraverso questi ritratti, è possibile ricostruire una forma di autoritratto? A me sembra che, in tralice, è come se comparisse anche un tuo autoritratto.
Mah… credo di sì. Ma non voglio saperne di avere fatto un autoritratto. In genere nelle memorie, nei ricordi scritti c’è una prevalenza del personaggio autore sui personaggi rappresentati. Si passa dalla pura volgarità del “c’ero anch’io” a delle forme più raffinate e più complesse dove comunque chi scrive accentra su di sé l’attenzione. La mia tecnica è esattamente l’opposto: io cerco di annullarmi, neanche posso dire che cammino in punta di piedi: non cammino, resto in una specie di passività, e di fronte a me si svolgono non fotogrammi ma le sequenze dinamiche delle mie storie che io vedo… Quindi se c’è un autoritratto – e probabilmente c’è – io non voglio neanche saperlo. Spetterà casomai a un lettore aver voglia di trovarlo oppure di non trovarlo affatto. Io non ho più amor proprio.
È vero: dietro questi ricordi tu sparisci. Sono sguardi in tralice, fatti con la coda dell’occhio, non ti poni frontalmente di fronte alle cose.
Sono ricordi capricciosi osservati attraverso un pertugio, come dicevo prima. Ma attento: non è un origliare, non rivelo nulla perché già l’idea di rivelare qualcosa mi farebbe ribrezzo; al massimo è un rivelare qualcosa che sento che mi piace raccontare: le ciliege di Gadda piuttosto che un’altra cosa. Guarda, per me un fenomeno letterario magistrale nella tecnica di rappresentazione dell’altro si trova in alcune pagine di D’Annunzio in cui descrive un incontro con Pascoli, adesso non ricordo più in che libro. A un certo punto si alzano da una stanza e entrano in un’altra stanza. Allora D’Annunzio lascia passare Pascoli per primo, lo osserva mentre passa e gli nota la nuca, il lato del suo viso, gli occhi di Pascoli che sono indirizzati verso il luogo dove doveva dirigere i passi. È una cosa fulminante che D’Annunzio ogni tanto ha, fra tanti castelli in aria di decadentismo provinciale salta fuori lo scrittore: in questo passaggio si “sente” il personaggio Pascoli. Io non oso paragonarmi certamente a simili scrittori, però ciò a cui miro è proprio la possibilità di sorprendere il passaggio di un passero, il kairos, come dicevano i greci, l’attimo.
La tua quindi rimane una presenza discretissima, che però a noi non impedisce, anche se “in negativo”, di ricostruire una sorta di tuo autoritratto, proprio a partire dalla tua assenza voluta.
Io mi sono imbevuto tutta la vita di cose a cui non appartenevo direttamente, non essendo io il deuteragonista ma svolgendosi questi fatti fra persone a me legate, dove io non comparivo mai o raramente come referente principale e questo mi è servito per osservare le cose da un angolo visuale distaccato, obliquo rispetto alla frontalità. La mia posizione obliqua mi permette di tener conto anche di tanti piccoli dettagli che la frontalità altrimenti non permetterebbe. Ho memoria delle cose di cui la mia spugna si è impregnata nel corso della vita, cose che magari non interessavano nessuno e invece a me interessavano. La prima volta ad esempio che sono stato portato nella casa di Gadda, (da Pasolini e non da Parise), e la governante di Gadda ci ha fatto accomodare nella sua stanza da letto, perché la casa doveva essere anche molto piccola: io ho visto un corridoio e in una rientranza di questo corridoio c’erano tante valigie da arrivare fino al soffitto, valigione di una volta, forse quelle che gli erano servite per fare il viaggio in Sud America. Poi c’era questa camera, con un vecchio dignitoso tavolino di casa borghese, un armadione e sul tavolino un bicchiere con un fiore. C’era il lettone dove Gadda dormiva e Pasolini mi dice di sedermi sul letto. “Ma sei pazzo?” gli rispondo. “No, no, siediti, perché Gadda è talmente timido e scrupoloso e ha paura di non farsi vedere ospitale che bisogna essere disinvolti”. E io mi sono seduto sul letto di Gadda.
Gadda non è solo un grande scrittore ma è anche un grande personaggio, meraviglioso, meravigliosamente interessante e c’è tutta un’aneddotica che dovrebbe essere raccontata, naturalmente con le dovute cautele, cautele letterarie.
Oltre ai tuoi amici che contribuiscono a creare un paesaggio di volti, trovo che nel libro siano molto presenti le città: la Trieste di Giotti e Marin, la Milano di Parise e Gadda, la Roma di Fellini, la Napoli di La Capria, Golino e ovviamente di Totò… Quasi la tua vita presentasse una forma di nomadismo…
Nomadismo è eccessivo, perché il nomade si sposta in continuazione. Io nella mia vita ho avuto bisogno dopo un certo numero di anni di buttare all’aria quello che avevo costruito, perché non volevo identificarmi in un lavoro, anche in uno che mi piaceva come il lavoro alla casa editrice Longanesi di Milano. Qualsiasi lavoro dopo un po’ diventa routine, dopo un po’ diventa mestiere con i veleni e le polemiche, con le beghe con le brighe, con le cattiverie di cui diventi fatalmente autore, anche solo per difenderti o semplicemente perché ti viene spontaneo diventare cattivo e prepotente. Questo produceva un’assuefazione terribile. Io sono scappato via da Milano nel 1972 o 1973 e sono andato a Roma senza nessuna prospettiva. Nessuno mi aveva chiamato a Roma. Però avevo conosciuto il produttore dei film di Pasolini, Grimaldi, e Grimaldi mi aveva detto di andarlo a trovare se andavo a Roma. E io sono andato a trovarlo.
Mi sembra comunque che nel tuo libro più che il paesaggio urbano conti di più il paesaggio umano. Le città restano sullo sfondo. Ma c’è qualche città a cui tu ti sia particolarmente affezionato?
No, non mi sono affezionato particolarmente a nessuna città. Sì, certo a Milano mi piaceva quando pioveva, o mi piacevano le sue albe quando si usciva dai night club. Ma l’esigenza di cambiare aria la sentivo ingrossarsi un po’ alla volta. Infatti dopo pochi anni ho abbandonato anche Roma e sono venuto a Treviso. In fondo ho fatto due salti nel buio, che nessuno mai avrebbe osato fare, devo dirlo. Nessuno avrebbe osato lasciare un posto di direttore letterario della casa editrice Longanesi per andare a fare cosa? Il pubblicitario del cinema a Roma? Cose da pazzi. Non c’era niente di più sensazionale nella Milano di allora (non quella di adesso in cui tutte le cose si sono mescolate in una specie di orrendo calderone): la chiacchiera è corsa. Una mattina, che ero tornato a Milano, mi arriva Raboni mandato da Garzanti e mi dice che mi offriva un posto di direttore della casa editrice Garzanti. Ho detto di no. Poi ci sono state delle telefonate di Livio Garzanti che mi diceva “lei non sa che chi volta il cul a Milan el volta el cul al pan, lei non sa che cosa perde! Quando lei tornerà a supplicarmi di lavorare io le darò tutt’al più qualche dattiloscritto da leggere”. Ma io me ne sono fregato. Volevo andare a Roma. Mi sono anche pentito di andare a Roma perché mentre Milano mi piaceva come città, Roma mi piaceva molto, molto di meno. La città, l’ambiente, la mondanità letteraria non mi piacevano. Ma lì almeno c’erano Parise, Moravia e c’era Pasolini.
E poi perché sei andato via da Roma?
Da Roma sono andato via per esaurimento di tutto, innanzi tutto del cinema italiano. Era il ’78, ’79. Ma poi perché volevo lavorare per me, perché se lavorando per la Longanesi restava un’illusione, un alibi di coltivare la letteratura, lì a Roma cosa coltivavi? Coltivavi la vanità di Fellini piuttosto che quella di Bertolucci. Eri alle dipendenze di altri, del mio padrone che voleva incassare miliardi coi film. E poi davvero il cinema era giunto all’impasse. È stato il momento fatale, quello lì. Fellini ha fatto Casanova e poi ha fatto altri due o tre film, ma non più coi mezzi che voleva lui. Ma poi Fellini! Ancora per lui si trovavano i soldi ma per gli altri… Per il povero Rosi che ha potuto fare Cadaveri eccellenti, e poi Cristo si è fermato a Eboli… Era il pubblico che non entrava più nei cinematografi. Si chiudevano le sale e diventavano garage. È venuta la grossa crisi. Fino al 73-74 c’era la fila ai cinema…
Ma perché sei andato via da Roma? Sei venuto a Treviso a fare che cosa?
La crisi del cinema ha comportato anche lo spostamento di Grimaldi e di molte sue attività in America, a Roma restava una rappresentanza piccola… Mi ha chiesto se andavo in America a continuare. Io ho detto di no, che non me la sentivo per mille ragioni. E allora lui mi ha garantito un’agenzia pubblicitaria per cui ho continuato a lavorare con Fellini, con Rosi, con Monicelli… Però lo facevo molto mal volentieri.
E allora una bella mattina sono andato alla biblioteca nazionale di Roma e mi sono fatto prestare i cinque volumi dell’epistolario di Giacomo Leopardi, sono andato su al Pincio e ho cominciato a leggerli. Ho telefonato a Garzanti chiedendogli se mi lasciava fare uno dei Grandi libri della collana e lui ha accettato. Sono venuto a Treviso, perché avevo in mente anche di lavorare sulla biografia di Comisso. Qui ho lavorato dalla mattina alla sera, ininterrottamente.
Ora vorrei affrontare un argomento che so ti dà un po’ di fastidio: quanto ingombrante è stata per te la presenza di Pasolini e quanto importante?
Bisogna seguire una serie di passaggi. Il primo passaggio quale è stato? Quello di oppormi alla versione posta con tutti i crismi della politica, dei media, dei giornali ecc. che Pasolini era vittima di un complotto. Io sapevo che non era vero questo, opponendomi al politicamente corretto di allora, che era in nascita. Mi opponevo a Berlinguer che era stato un’ora davanti alla bara di Pasolini, ai Pajetta e compagnia bella. Ho avuto anche pesanti conseguenze, ed è uno dei motivi che mi ha indotto a fuggire via da Roma, a defilarmi. A questo punto avevo un desiderio di mettere le mani nella faccenda di Pasolini, che altrimenti per timidezza – sbaragliata soltanto dopo la morte di Pasolini – non avrei mai osato affrontare. Ero così amareggiato da questa ingiustizia che sentivo pesare addosso a Pasolini che mi sono armato. Io sono stato molto devoto a Pasolini, coraggiosamente devoto a Pasolini, in tante occasioni, sia in quelle letterarie, sociali che quelle private. Sono stato molto coraggioso, più che in qualsiasi altra cosa.
Poi c’è stato Zanzotto che mi ha incoraggiato a scrivere quei ricordi che in nuce sono diventati il libro Il treno del buon appetito. E poi soprattutto c’è stato Giulio Einaudi che mi ha spinto a raccogliere le lettere e a curarle. Il lavoro che avevo fatto per Leopardi lo facevo per Pasolini, mettendoli sullo stesso piano. È lavoro quello che tu devi fare, ricerca di datazioni. Con la differenza che mentre per Leopardi i filologi dell’Ottocento hanno fatto un lavoro meraviglioso – Moroncini per esempio – per cui ti trovi parte del lavoro già svolta, con Pasolini dovevo cercare le lettere, farmele dare. Ho avuto un aiuto fantastico dall’Einaudi, che allora fungeva da grande organizzazione culturale e non c’è nessun paragone di adesso che possa rendere l’idea di che cosa era l’Einaudi di allora.
Poi sono usciti i due volumi delle lettere con una lunghissima cronologia. Oso dire che nelle cronologie sono imbattibile. Non è una gran cosa, ma…. Giulio Einaudi mi propose di fare un libro sulla vita di Pasolini a partire dalla cronologia. Ho lavorato come un cane di nuovo a fare il libro. Però l’origine cronologica si sente nella Vita di Pasolini. Il libro che in seguito feci su Filippo De Pisis è molto più libero. Lo stesso libro su Comisso è molto più libero.
In quegli anni Pasolini era ancora nei mass-media e sono stato chiamato infinite volte in infiniti dibattiti, alla Rai, a Roma, e poi sono usciti i libri in traduzione in Francia e Germania e ho percorso tutta la Germania a far conferenze, a Parigi, ecc. Era lavoro.
Così, dopo che mi sono messo a pubblicare dei libri miei ho visto interporsi fatalmente la figura di Pasolini: con una semplificazione volgare, venivo presentato come il cugino di Pasolini. Ciò mi ha in qualche modo impedito in una certa misura di essere conosciuto per me stesso, e questo è stato nocivo per me. Ma è accaduto dopo, quando ho cominciato a pubblicare dei libri miei.
Concentriamoci sul presente, dopo aver esaminato questo passato fatto di “intermittenze del cuore”, tanto per citare un tuo amatissimo autore. Avevo in mente un verso di Pasolini sulla vecchiaia, dalla poesia Saluto e augurio, contenuta ne La nuova gioventù, in cui, rivolgendosi a un giovane, conclude in questo modo (cito a memoria): prenditi tu questo peso, d’ora in avanti io camminerò leggero, andando avanti, scegliendo per sempre la gioventù e la vita. Quello che mi colpisce di te è proprio questa vecchiaia vissuta con una sorta di gaiezza. Da quello che altre volte mi hai raccontato, mi sembra che tu abbia saputo acquisire una certa leggerezza, come se ti fossi liberato da molti pesi…
I pesi erano più che altro pesi esterni a me. Credo di avere un animo disposto alla gaiezza più che alla tristezza. Certo che mi imbatto in fatti di depressione nevrotica. Adesso meno, prima molto di più – la morte di Pasolini ha inciso orribilmente su di me. È l’esterno che mi mette in crisi, mi opprime, mi prostra. Infatti quando riesco a liberarmi da situazioni imprigionanti, allora ritrovo una certa gaiezza.
Certo mi immalinconisco molte volte, ma è una cosa un po’ infantile, del tipo: l’erba del vicino è sempre più verde. Ma poi mi dimentico facilmente, mi dimentico i torti, le malinconie, esco da un momento di nevrosi, di prostrazione e vado avanti.
Pasolini quando scriveva questi versi rifletteva una società che per quanto prevista orribile, non era orribile come quella che si è realizzata adesso sotto i nostri occhi. Io non posso più dire: benissimo mi libero dai miei problemi e caro De Cilia li dò a te. Stiamo passando un momento tremendo, è una discesa nell’orrore. Le mie esperienze in Tunisia, dove alterno la mia vita per sei mesi all’anno, mi hanno messo a contatto con una società così diversa – fortunatamente! – dalla nostra, ma dove peraltro adesso si concentrano tutti i problemi mondiali.
Nello stesso tempo però è anche vero che siccome la vita si sta indirizzando verso fatali appuntamenti, allora questo dà una sensazione quasi euforica. Intanto i pericoli li affronti con più disinvoltura di una volta. La vita, la realtà, ti fanno meno paura di una volta. Le puoi affrontare con più leggerezza, come dici tu, e sentire che c’è il bisogno comunque di descriverle. Descriverle in senso oscillatorio, quasi ciclotimico, di trovare che un giorno è bello e un altro giorno è brutto e poi un altro giorno è bello e un altro è brutto. È la realtà che a me interessa: una vita letteraria disgiunta dalla realtà è la cosa più noiosa che ci sia, per me: è soltanto se la letteratura, la poesia, il romanzo riescono non a fare opera di propaganda ma a catturare la realtà, almeno un alone di realtà, una piccola traccia di realtà, che acquisiscono valore. E questo cosa ti dà? Un certo senso di “indispensabilità”. La grande crisi dell’Ottocento stava nel considerarsi superflui. Un portato del nichilismo: tra Turgenev e Nietschze e compagnia bella era il senso di superfluità che vinceva.
Io invece mi considero quasi indispensabile – perdona questo puro delirio. Davanti a me ogni giorno ho un motivo per mettermi a scrivere una poesia, quella che io chiamo una poesia. Sarà anche un pedalino bucato ma io non ne posso fare a meno. Spesso l’idea mi viene il mattino presto e poi per tutto il giorno ci rimugino su.
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