Resilienza

La resilienza è la misura della resistenza alla rottura dei materiali. Un primo sviluppo dal suo significato originario è avvenuto quando la psicologia ha preso questa parola a prestito dalla fisica e dall’ingegneria per indicare la capacità delle persone di reagire di fronte a gravi situazioni di difficoltà. L’ulteriore estensione dell’uso è piuttosto recente, ma inarrestabile: da una decina di anni resilienza è diventato un vocabolo ricorrente nel discorso pubblico, utilizzato in contesti molteplici e adottato da angolazioni politiche e culturali eterogenee.
Questa rapida espansione non ha portato con sé una precisazione del significato del termine. Uscendo dai campi disciplinari originari, resilienza ha smarrito una connotazione precisa per assumerne una elastica, ampia, indeterminata. Come molte parole che dominano la narrazione dei nostri tempi, trae forza dalla propria indeterminatezza.
Prendiamo, ad esempio, la definizione proposta nell’ambito del progetto Resilient Cities Network lanciato nel 2013 dalla Fondazione Rockefeller (attualmente in fase di dismissione), che ha finanziato con cento milioni di dollari azioni proposte da cento città nel mondo (tra queste Milano e Roma). Si tratta di una descrizione che – con vari adattamenti ed articolazioni – si ritrova in modo ricorrente negli interventi dedicati alle politiche di trasformazione urbana. La resilienza urbana viene descritta come “la capacità delle persone, delle comunità, delle istituzioni, delle imprese e dei sistemi all’interno di una città di sopravvivere, adattarsi e crescere nonostante tensioni croniche e shock intensi”. Tra gli shock vengono elencati i terremoti, gli uragani e gli attacchi terroristici, tra le tensioni croniche l’alto tasso di disoccupazione, la debolezza dei sistemi di welfare, le disfunzioni del trasporto pubblico. Da questa enunciazione si possono enucleare tre linee di organizzazione del discorso, tra loro strettamente connesse: le “tensioni croniche” – ovvero le questioni sociali – vengono analizzate solo in quanto costituiscono fattori di vulnerabilità nel caso in cui le città si trovino a fronteggiare uno shock; l’approccio psicologico rivolto alla cura delle persone colpite da un trauma viene assunto come una modalità di intervento che può essere esteso a un’intera città e alla totalità dei suoi abitanti; il trauma stesso viene messo al centro dell’azione congiunta dei poteri pubblici e dell’iniziativa privata. Non a caso una delle questioni principali che oggi viene affrontata attraverso la lente della resilienza è il cambiamento climatico. È facile predire una prossima e rapida ascesa del tema della pandemia: basta digitare “resilienza” e “Covid-19” in un motore di ricerca per trovare una grande quantità di materiali ed anche una ricca offerta terapeutica: il mercato – come è noto – ha una grande capacità di adattarsi rapidamente alle situazioni. Il mercato è resiliente. Dietro la vaghezza della definizione si celano, dunque, implicazioni importanti.
Innanzitutto, l’approccio resiliente orienta verso l’individualizzazione. Ciascuna persona è sollecitata a reagire agli shock mobilitando le proprie risorse interiori, anche facendo ricorso a specialisti che adottano approcci terapeutici finalizzati a estrarre dalla difficoltà e dalla sofferenza gli aspetti che possono offrire una lettura positiva della crisi in atto, senza mettere in discussione il contesto. Da questa angolazione, la resilienza ha una stretta parentela con il merito: le due parole definiscono un approccio individuale alla realtà, un approccio orientato ad affermare se stessi, indipendentemente dalle condizioni di partenza. In entrambi i casi, il risultato può essere ottenuto solo abbandonando prospettive di cambiamento e adottando strategie di adattamento.
Nel passaggio dalla dimensione personale e privata a quella collettiva e pubblica, l’approccio individuale e l’adozione di uno spirito di adattamento vengono conservati come principi-guida.
Nell’azione delle istituzioni orientata alla costruzione di città resilienti, l’idea centrale è quella di riparare, che si insedia al centro del discorso pubblico soppiantando l’idea di trasformare. Nel perseguire la resilienza, infatti, gli effetti vengono separati dalle cause, di cui le istituzioni rinunciano a occuparsi. Separare gli effetti dalle cause significa, in definitiva, rinunciare alla politica. Le città resilienti sono città depoliticizzate che abbandonano l’idea di trasformare i propri assetti sociali ed urbanistici preferendo adattarli al sistema economico e sociale dominante. Poiché gli effetti di questo sistema possono essere distruttivi (sul piano ambientale e sul piano sociale), è necessario proteggere gli abitanti delle città. Il processo di adattamento, quindi, incorpora azioni di mitigazione che non mettono in discussione il sistema che genera e riproduce quegli effetti. I cittadini vengono mobilitati nella costruzione delle città resilienti in quanto individui singoli, depoliticizzati anch’essi, privi di legami sociali che vengono ricreati in modo artificiale attraverso molteplici strumenti di partecipazione caratterizzati dalla separazione tra la ritualità dei processi in cui i cittadini vengono coinvolti e la reale capacità decisionale loro attribuita, che risulta residuale e accessoria rispetto alle scelte strategiche, adottate altrove. La partecipazione rappresenta quindi un tassello del processo di adattamento.
La principale proprietà del termine resilienza è quella di essere accogliente e duttile, in grado di integrare punti di vista che nella loro origine possono essere discordanti e di ricondurli a un ambito comune rendendoli generici, neutralizzando le potenzialità più radicali. È il tratto distintivo della neolingua neoliberista, che non scolpisce i concetti con precisione e nettezza, perché dalla definizione chiara e nitida dei problemi possono nascere visioni conflittuali circa la loro risoluzione, e quindi accoglie, ingloba, assorbe e, in definitiva, addomestica.
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