Renzi come Giufà: riuscirà a uccidere la scuola?
Per molti anni ho auspicato che la scuola fosse demolita. Da sinistra, per così dire, se l’indicazione direzionale ha ancora un senso (ma ormai la mano sinistra sa perfettamente cosa fa la destra, essendo intente entrambe allo stesso sincronico lavoro).
Distrutta, essendo irriformabile, e poi ricostruita su nuove basi, più democratiche e libertarie. Più sane e forti. Più eque e plurali.
Ed ecco adesso che, come in certi inquietanti racconti fantastici, il sogno diventa realtà, convertendosi in incubo. Gli incubi, si sa, si avverano sempre.
E ora infatti si stanno avverando, anche oltre ogni immaginabile catastrofismo, assumendo la faccia lessa, anodina e apparentemente innocua, quindi infida, di una caricatura di Tony Blair che imita Mister Bean (di cui il nostro premier ricorda le fattezze con allarmante somiglianza, come ha sottolineato satiricamente la stampa inglese).
Ma con la sua aria da tonto e insieme da furbo, la faccia da grullo e l’occhio scaltro, Renzi è una maschera della politica che ricorda invece Giufà, il più famoso tra i personaggi delle tradizioni popolari siciliane. Solo che Giufà, questo islamico archetipo della schizofrenia plebea, è noto per pensarne una e farne cento, con la sua calamitosa stravaganza ipercinetica.
Renzi invece, il Giufà alla rovescia, ossia il Giufà convertito al gesuitismo, su cento che ne dice riesce a farne soltanto una (almeno per ora). Basta e avanza, è vero, ma il rapporto invertito svela con l’esattezza di una formula matematica la vera natura di questo leader rampante e pseudo-pragmatico: un comunicatore di frottole e un venditore di fumo, in quest’arte ciarliera forse inferiore solo a Berlusconi, di cui è l’emulo ripulito e reso presentabile.
Tra dense cortine di fumo, senza arrosto ma non senza fiamme, improvvisamente e finalmente si è tornati a parlare di scuola, non come lamentazione, ma in termini propositivi. E questa potrebbe essere una buona notizia, sebbene i propositi, maldestramente celati, a leggere tra le righe inquietino un po’.
Forse l’unica buona notizia, a essere sinceri. O ingenui. Giacché invece, molto probabilmente, come in certi giochi di prestidigitazione, si parla soltanto allo scopo di distogliere l’attenzione dal trucco che le mani (di cui sopra) stanno compiendo ai danni dell’allocco che presta ascolto e si distrae.
Al centro del dibattito torna dunque la “buona” scuola che Matteo Renzi e il ministro Stefania Giannini vorrebbero. La quale discenderebbe da un “patto”, parola vetero testamentaria o proto-americana che forse sta a indicare una condiscendenza del pantocratore. Da quale trattativa sia nata questa sacra alleanza resta infatti un mistero (come spesso accade per le trattative nostrane).
Tuttavia, Renzi vuole mettere un accento nuovo nella sua comunicazione: la scuola è “il cuore di tutto” (come la Sicilia di Goethe è la “chiave” di tutto) e occorre perseguire una “bellezza educativa”.
Questo riferimento alla bellezza è notevole. Ammettiamolo, ancorché con riserva e con qualche sospetto d’inganno. Soprattutto perché sembrerebbe indicare una mentalità più aperta alla polivalente esperienza pedagogica.
E quelle di Renzi sono per l’appunto belle parole. Va da sé che con le belle parole si possono fare dei bei discorsi. Raramente altro. Di belle parole è lastricata la restaurazione. Tuttavia resta la necessità di uscire dalle retoriche della scuola. Dalle sue brutte parole.
E Renzi ci prova. Come no. Basta precari, afferma (una parola! Per quanto bella). E poi: giudicare gli insegnanti per merito e non più per anzianità, premiandoli, come si fa con gli animali addestrati, con uno zuccherino in busta paga.
Per la cronaca, bisognerebbe dire che gli stipendi degli insegnanti sono bloccati da un bel pezzo, sebbene gli insegnati nel frattempo siano diventati più anziani e molti di loro si trovino ormai nella prospettiva poco allettante di dover trascorrere la loro vecchiaia in cattedra.
Ma questa sarebbe polemica spicciola (in tutti i sensi). Sul giudicare gli insegnanti o il loro operato c’è invece un antico dibattito. Un’antica ossessione meritocratica, per un verso destinata a fare un buco nell’acqua, per l’altro a perpetrare piccoli misfatti, premiando proprio i peggiori.
In breve, chiunque abbia una conoscenza non superficiale della scuola ed esamini la questione con onestà intellettuale dovrà addivenire alla conclusione che giudicare oggettivamente un insegnante è pressoché impossibile. Tutto ciò che può essere oggetto di valutazione è solo ciò che è misurabile, ossia che può essere ricondotto a una determinata quantità, che può essere inserito in curriculum, che può tradursi in titoli, incarichi, in ore di presenza o di impegno. Non poco, in verità, e comunque quasi tutto già oggi retribuito in modo specifico (il che fa temere che in futuro non lo sarà più se non nella forma del ricattatorio scattino stipendiale).
Ma al tempo stesso, niente di essenziale. Essendo l’essenziale tutt’altro (“invisibile agli occhi”, direbbe Saint-Exupéry, sebbene raramente a quelli degli alunni).
Ciò che davvero conta è la capacità di fascinazione e fabulazione di un insegnante. La sua inventiva e il suo umorismo. L’ironia e l’autoironia. La sua capacità di creare curiosità. Anche inquietudine. Perfino scandalo, diceva Pasolini.
Una capacità incalcolabile e non tabulabile (ma che tutti abbiamo personalmente intuito da alunni). E a dirla tutta nemmeno sempre verificabile nel breve periodo, essendo talvolta destinata a fruttificare in un futuro imprevedibile, a restare per un tempo più o meno lungo in incubazione.
La bellezza dell’insegnare e dell’apprendere, che è sempre un processo reciproco, sta proprio in questa apparente gratuità e leggerezza.
Ma il fatto è che la scuola, per lo più, è un santommaso che crede solo nel misurabile, nella quantità e quasi mai nella qualità. E ciò spiega la sua passione per i numeri. Non quelli della matematica, s’intende, bensì quelli dei voti.
C’è una scuola eterna (così come c’è un fascismo eterno o un eterno barocco dello spirito, per esempio) che permane imperturbabilmente nozionista, mnemonica, grammaticale. Insomma normativa e vetero-positivista. E ovviamente discriminatoria. Ma questo è un altro discorso.
Se vogliamo restare ai numeri, in soldoni (o meglio in soldini), Renzi propone (o si dovrebbe dire pattuisce) sessanta euro in tre anni agli insegnanti migliori. Che in gran parte recupererebbe dalle tasche degli insegnanti non meritevoli, castigati a non godere di alcuna progressione.
La questione potrebbe sembrare, a questo punto, meramente sindacale e anche miserrima.
Tuttavia il nocciolo tematico è un altro. E riguarda la politica scolastica. Quella che viene detta la “riforma” della scuola con una parola vecchia che Renzi, in questo caso, non ama, ma di cui abusa in forma iperbolica in altri ambiti (persino l’elargizione degli 80 euro ai redditi bassi viene spacciata per riforma).
L’esiguità del premio parrebbe infatti indicare con tutta evidenza un intento del governo al risparmio, che non fa ben sperare. Renzi infatti partiva da altre premesse. Altre (belle) parole.
La spesa per la scuola era intesa come “investimento per l’Italia”, essendo la scuola un fattore centrale del sistema nazionale, il luogo deputato in cui si elabora il futuro del paese.
Naturalmente, si può ritenere necessario ridurre la spesa per i docenti allo scopo di potenziare altre emergenze della scuola nel suo insieme. Ma non certo in una logica premiale e di incentivazione della crescita professionale degli insegnanti, delle loro “nuove opportunità” di carriera.
Il premier Renzi e il ministro Giannini si impegnano a costruire una “scuola di vetro” (che in termini retorici fa subito pensare a una rischiosa fragilità) in primo luogo meno burocratica. Proposito giustissimo, anzi assolutamente indispensabile per la stessa sopravvivenza della scuola.
Si tratterebbe, dicono, di “individuare le cento procedure burocratiche più gravose per la scuola. Per abolirle tutte”.
E questa sarebbe già una vera rivoluzione. Non sufficiente però. Stefania Giannini, che (ahinoi) è una glottologa, dovrebbe cominciare dal linguaggio stesso della scuola, cioè da quel grottesco buro-didattichese che riduce tutta la vita (e la “bellezza”) pedagogica a schematismi tecnico-automatici (e sedicenti scientifici).
Eliminata, con il rasoio di Occam, tutta questa barba ideologica, inutile quando non perniciosa, si potrà mettere mano a una vera sburocratizzazione della scuola.
Ma, a mio avviso, il dinamico duo Renzi-Giannini non va in questa direzione quando pensa a modalità funeste, già sperimentate e fallite, come la “formazione continua obbligatoria” dei docenti, in una logica un po’ da caserma (tutt’altro che bella e antiburocratica) che come al solito penalizzerebbe proprio quei soggetti che più si aggiornano con esperienze vere e non mediate da logiche clientelari.
Per di più, questa inutile formazione coatta, quasi sempre centrata sui discorsi di lana caprina della più vacua docimologia, aumenterebbe lo spreco delle risorse, già magrissime, e quindi accelererebbe il disastro strutturale, soprattutto in situazioni allo stremo, che mancano di tutto e di tutto hanno bisogno, eccetto che di esperti tecnocrati.
Bisognerebbe invece dare più entusiasmo alla scuola con una più libera circolazione di idee, di sperimentazioni, di ricerca, di dialogo. Insomma di cultura (che paradossalmente è la grande assente della vita scolastica).
Il rischio è che anche stavolta i provvedimenti di semplificazione burocratica si rivelino delle superfetazioni burocratiche in un circolo vizioso di autoproduzione.
Pur parlando spesso un linguaggio vecchio, che fa rima con il codice autoreferenziale della scuola, Renzi e Giannini, con le loro grottesche promesse-minacce di “coding” e “digital makers”, sembrerebbero proporsi di innovare un mondo anchilosato con un’audace scommessa: eliminare lo scandalo del precariato. Se la prospettiva è di lungo termine (vent’anni, cioè un tempo praticamente inverificabile in termini politici), ben più ravvicinato è il primo provvedimento sanatorio: un piano straordinario per assumere centocinquantamila docenti entro il settembre 2015.
Ecco un potenziale fatto (bello) su cui si potrebbe fondare un discorso concreto.
Ma dopo aver udito le minacce di licenziamento degli insegnanti reprobi, ancorché ipocritamente paludate, del ministro Giannini, non dovrebbero sussistere più dubbi sulla natura antidemocratica e illibertaria della “riforma” renziana.
Che è in perfetta continuità con quella del ministro Gelmini, di cui anzi è l’audace perfezionamento, reso possibile dal patto (il vero patto) trasversale della compagine governativa.
Lo scopo è evidentemente lo smantellamento dell’istruzione pubblica, inteso come momento strategico del generale smantellamento dello stato sociale (e perfino di quello di diritto, per molti versi).
E dovrebbe essere anche chiaro, almeno a chi conserva un briciolo d’intelletto, il senso dell’accanimento simbolico contro l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Lo scopo vero di tutta questa manovra piuttosto losca è il taglio di una spesa ritenuta non necessaria (mentre si celebra, a parole, la centralità sistemica della scuola).
Ecco in che senso la scuola è il “cuore di tutto”. Nel senso che la sua distruzione è un momento indispensabile nel processo autoritario di centralizzazione del potere e di drastico ridimensionamento della spesa pubblica a carico e danno dei cittadini.
Il progetto, che millanta un’improbabile (per non dire impossibile) eliminazione in tempi brevi del precariato, peraltro giustamente intimata dall’Unione Europea, si rivela palesemente un tentativo di precarizzazione dell’intera scuola, della scuola tout court.
Così come l’impraticabile valutazione meritocratica degli insegnanti si dimostra un modo subdolo per cercare di controllare ogni forma di pensiero dissidente, non allineato, in aperta violazione dei diritti costituzionali degli insegnanti e soprattutto degli alunni, ben oltre la sostanziale abrogazione dell’articolo 33.
Insegnanti coartati, licenziabili, manovrabili sono la migliore garanzia per la trasformazione della scuola in un organo di trasmissione del consenso acritico.
La questione della scuola diventa allora la chiave per interpretare tutta la strategia reazionaria del governo Renzi, che attraversa l’intero corpo delle istituzioni nazionali.
“Meditate, gente, meditate”, raccomandava un vecchio slogan pubblicitario. Che era solo uno slogan, certo. Né più né meno che la gran parte di quel che Renzi dice, ma ben più inoffensivo.