Ramondino come educatrice

Autrice di romanzi importanti, Fabrizia Ramondino è stata una scrittrice straordinaria e si può dire con Beatrice Alfonzetti “che i suoi testi proseguissero il felice intreccio fra saggistica e narrativa dei nostri ultimi grandi scrittori: Calvino, Sciascia, Pasolini”. Eppure, prima di questa ricca stagione come scrittrice e romanziera, “durante i lunghi anni nei quali custodiva le sue pagine senza rivelarle, si è dedicata al mestiere di guidare ogni giorno i più piccoli, i più giovani” come ha scritto Marco Rossi Doria. L’attività propriamente letteraria di Fabrizia Ramondino è infatti cominciata all’età di 45 anni, quando diede alle stampe il suo primo romanzo, Althenopis, suo più grande successo. Sino ad allora, prima di darsi prevalentemente alla scrittura, Fabrizia aveva praticato con amore profondo il mestiere educativo, prima insegnando a leggere e a scrivere ai bambini e agli analfabeti dei vicoli e delle zone periferiche di Napoli, poi lavorando a Milano e a Napoli come insegnante di francese nelle scuole.
Allora, proprio in questi giorni in cui tornano in libreria alcune sue opere letterarie, proprio mentre il “Corriere del Mezzogiorno” dedica un’inchiesta in quattro puntate ai luoghi della scrittrice, da Napoli a Itri, occorre riprendere in mano la sua eredità (pur)troppo sbiadita. Infatti, a giudicare dalla scarsa produzione presente in internet e dalla difficile reperibilità delle sue opere considerate minori, si può cogliere la marginalità cui la sua figura è ingiustamente relegata. Sarà forse un caso che si tratti di una donna? Rispetto alle grandi maestre del passato stupisce che non esista una più ricca e fiorente produzione critica intorno alle loro esperienze. In questo caso il carattere più politico e sociale della vita di Fabrizia Ramondino è negli ultimi anni finito nel dimenticatoio e qui intendiamo, nel nostro piccolo, contribuire ad alimentare una memoria riguardo l’impegno civile (rinvenibile nei suoi scritti giovanili e nella prassi delle sue azioni) che va tenuta viva.
A questo riguardo, di particolare interesse sono gli anni della prima età adulta trascorsa nella città di Napoli, di cui Fabrizia era originaria ma in cui visse a periodi alterni. La sua stagione più fervente, quella dell’impegno giovanile, si colloca infatti negli anni Sessanta a Napoli, tanto che Beatrice Alfonzetti nel saggio Fabrizia Ramondino, scrittrice del disagio non esita ad affermare che “come Pasolini rimpiangerà sempre gli anni Cinquanta, così Fabrizia Ramondino si àncora, come dimensione politica e sociale, agli anni Sessanta”. Fu in quel decennio, infatti, che la Ramondino scrisse, insieme ad alcuni compagni d’avventura, “un capitolo esemplare di storia dell’intervento sociale che ha ancora molto da insegnare agli educatori e agli operatori più esigenti e più necessari”, come recita la quarta di copertina proprio del libro della Ramondino in cui l’esperienza di quegli anni è raccontata.
Così, in una Napoli in cui si viveva in piccoli bassi dove “la cucina sta fuori, non sta nella casa”, in cui “il gabinetto sta fuori” e, quando va bene, è di una famiglia sola, la Ramondino si impegnò in progetti di sviluppo e aiuto per le famiglie proletarie più in difficoltà. Come apprendiamo dagli stessi scritti dei suoi studenti, insegnò a bambini che vivevano in case affollate, con 7 fratelli in media, quando la maggior parte del paese non poteva ancora permettersi di studiare e si trovavano facilmente bambini di 10 anni che a scuola non andavano più perché facevano i pittori o i masti e guadagnavano “4 mila lire al mese”; e bambine della stessa età che facevano le sarte a casa ed erano anch’esse costrette a saltare la scuola.
Per intervenire su questa condizione sociale, nel 1960, insieme ad alcuni amici e compagni, la Ramondino decise di fondare un vero e proprio “centro di iniziative di sviluppo comunitario” nato con il nome di Associazione Risveglio Napoli (Arn). Grazie al contributo di molti e molte, i volontari dell’Arn riuscirono per anni ad animare una scuola dell’infanzia a tempo pieno e una scuola serale di preparazione alla licenza media per i lavoratori, proprio mentre tentavano, in parallelo, di condurre approfondimenti socio-antropologici nelle famiglie del quartiere San Lorenzo in cui operavano. Il gruppo, il cui nome esibiva una felice eco “mazziniana”, legata al “risveglio”, arrivò in breve tempo a contare “venticinque bambini, circa sessanta studenti del serale, venticinque-trenta educatori, oltre cento soci, di cui oltre una trentina attivi e pronti ad assolvere i compiti più disparati, dall’attintatura delle stanze alla compilazione delle schede” – come riportato negli scritti de L’isola dei bambini oggi meritoriamente ripubblicati da Edizioni e/o. Le imprese educative dell’Arn ebbero fin da subito una gran fortuna e ricevettero persino la visita dell’allora ministro della pubblica istruzione Tristano Codignola, negli anni in cui si andava delineando il progetto della Scuola media unificata. Tuttavia, nonostante la buona nomea del progetto e dei suoi volontari, nonostante le altisonanti visite politiche di quegli anni, non era semplice muoversi in autonomia dalla Chiesa in un paese ancora profondamente cattolico e bigotto. Così, racconta Ramondino, gli operatori dell’Arn si scontravano con la forza della cultura di tradizione cattolica ancora prevalente nel paese, quando anche gli interlocutori “più colti, all’udire la parola “laico”, aggettivo che accompagnava sempre la spiegazione del nostro progetto, trasalivano e la cortesia si mutava in sbrigativo congedo”.
All’epoca, infatti, erano soprattutto i volontari religiosi ad allestire interventi educativi nei contesti più marginali e deprivati. In questo senso l’impegno di Ramondino si inscrive in quella tradizione “laica” dello sviluppo educativo centrato sui territori che fu sempre minoritaria. E non è un caso che negli anni della giovinezza fosse stata allieva di Margherita Zoebeli, figura di primo piano dell’esperienza di rinascita educativa avviata a Rimini nel primo dopoguerra dal Centro Educativo Italo-Svizzero, come riporta Franco Sepe nell’opera Fabrizia Ramondino: rimemorazione e viaggio. Appare dunque doveroso inserire a pieno titolo Fabrizia Ramondino e l’esperienza dell’Arn all’interno di quella corrente di pensiero e azione che va da Aldo Capitini a Vera Lombardi, da Lamberto Borghi a (per l’appunto) Margherita Zoebeli. La Ramondino fu, come loro, capace “di mai arrendersi, di sempre ricominciare, e di essere estremamente attenta, pur nel suo disordine, ai grandi e ai piccoli mutamenti del mondo e delle persone, dalla parte degli oppressi”, come scrisse Goffredo Fofi in occasione della sua morte.
In conclusione, si può dire che la Ramondino con il suo agire abbia sempre considerato centrale la componente intellettuale e morale nei processi di cambiamento, convinta che non vi sia rivoluzione possibile se non si lavora sulle forme di pensiero, sugli immaginari, sulle educazioni. A riprova di ciò scrisse in un articolo per il “Corriere del Mezzogiorno” nel 1986: “ho sempre creduto profondamente in una cosa che Mao ha scritto nella sua inchiesta sul movimento contadino nell’Hunan: che non bisognava distruggere i templi buddisti, ma che occorreva lentamente trasformare le condizioni del popolo e il suo modo di pensare, in modo che i templi si svuotassero”. Da qui nasceva il suo impegno per l’educazione, volto alla trasformazione culturale e materiale, preludio mazziniano di ogni cambiamento possibile.
Così, in un’Italia non ancora sconvolta dal boom economico, le iniziative di sviluppo comunitario svolte insieme ai compagni dell’Arn tratteggiava un programma politico e culturale che tentava di attribuire all’infanzia il giusto peso nei processi di trasformazione. Questa postura così attenta al ruolo dei bambini nel disegnare un futuro diverso mancarono con suo rammarico agli anni successivi e al movimento del ‘68: “Nella mia lunga esperienza con i bambini, dal ’60 al ’67, quando è nata Livia, ma anche dopo, nel ’68 e oltre, non ho capito per molto tempo una cosa fondamentale: che il “movimento”, le lotte politiche, e questo è un grave limite, non tenevano conto dei bambini. Anche per il movimento femminista di quegli anni, (…) i bambini non contavano. Ora i bambini sono stati al centro della mia esistenza politica consapevole. Dico questo perché fino al ‘60 i bambini per me non esistevano, come per una rimozione, poi, attraverso questo lavoro con i bambini dei vicoli, ho scoperto anche la bambina dei vicoli che c’era in me. Che nel movimento del ’68 come degli anni successivi non ci sia stata questa centralità è per me una grave, gravissima colpa e se c’è una cosa di cui ancora oggi mi pento è di non aver continuato a lavorare con i bambini”, (“Corriere del Mezzogiorno”, 2010).
Sebbene l’Arn si sia sciolto nel ’68 con l’arrivo del “movimento”, Ramondino considerò quanto imparato in quegli anni dai bambini come “il bene più prezioso” del suo “dissestato patrimonio culturale”. Da quella stagione maturò “una passione pedagogica mai esibita, anzi celata con pudore dietro un atteggiamento paritario e mai paternalistico” – come ha scritto Miriella Armiero. Per anni seppe prendersi cura di quei bambini che più di altri dovevano fare sforzi enormi per inserirsi nel rigido sistema scolastico del tempo, dai quali sentiva di poter imparare molto.
Anche per questo il suo operato si staglia oggi come un esempio fulgido di come sia possibile costruire piccoli vascelli per raggiungere “l’isola dei bambini” e continuare a fare bene il lavoro educativo e politico che oggi come ieri va compiuto sui territori. Fabrizia Ramondino ci ha insegnato l’impegno e la dedizione disinteressata, con uno sguardo sull’infanzia unico e maestro. Dobbiamo oggi esserle debitori e debitrici per il suo impegno e la sua attivazione autentica a favore degli oppressi e fare in modo che non restino senza seguito i suoi insegnamenti, continuando ad allestire interventi sociali, educativi e politici nei luoghi più marginali e dissestati.
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