Racconti romani
Se la città non mette mano all’opera di giustizia, come un ubriaco assisterà al suo declino.
(Don Roberto Sardelli e i ragazzi e le ragazze della scuola 725)
Prima di tutto, gli ultimi fatti: a Piazzale Spadolini (entrata est della Stazione Tiburtina a Roma) martedì 26 marzo, dodici persone di diversa nazionalità sono state caricate a forza dentro i blindati dalla polizia e portate all’ufficio immigrazione della questura di Roma, a Tor Cervara.
Due sono le colpe che accomunano queste due persone: essere stranieri ed essere poveri.
In quello che è successo la mattina del 26 marzo, però, c’è un’aggravante. I ragazzi portati in questura a via Patini, infatti, la notte precedente, dormivano tutti dentro la stazione per quella che viene chiamata dal Campidoglio “Emergenza gelo”. Tra le 5 alle 6, come da protocollo, sono stati fatti uscire dalla stazione. Cos’altro fare alle 6 di mattina se non cercare di dormire ancora un po’?
Questo è stato evidentemente un comportamento inaccettabile per la polizia che, arrivata con un numero spropositato di agenti, li ha svegliati e ha preteso che li seguissero. Per chi ha provato a protestare, sono scattate le manette e l’accompagnamento coatto.
I 12 ragazzi sono stati poi tutti rilasciati dagli uffici della questura; accettare l’ospitalità del comune ha avuto per loro il prezzo di passare l’ennesima giornata chiusi nell’ufficio immigrazione.
Tutto questo è successo, per l’ennesima volta, nel silenzio totale del Campidoglio. Nessun impeto, nessuna richiesta di chiarimento, nessuna nota pubblica. Come se fosse naturale offrire ospitalità a chi ne ha bisogno per poi consegnarlo alla Polizia.
Come Baobab Experience ci siamo ripromessi che mai ci abitueremo alla barbarie di questi rastrellamenti. Ne abbiamo visti tanti, troppi, ma mai li considereremo come qualcosa di dovuto, “un normale controllo” o qualsiasi altro nome le istituzioni vogliano dargli.
Da tempo abbiamo perso la speranza che il comune di Roma possa rendersi conto di quello che sta succedendo: troppi i tavoli aperti dall’Assessorato alle politiche sociali finiti in un rincorrersi di chiacchiere, troppo pavide le persone che hanno ruoli di responsabilità, totalmente assente la lungimiranza sul futuro della città.
Roma oggi è una città che sta sprofondando nel fossato che si sta costruendo da sola. Pare non accorgersene perché troppo impegnata a guardarsi l’ombelico, senza mai alzare gli occhi in alto per vedere quanto è alto l’argine che la sta allontanando dalla realtà.
Tutto ciò fa ancora più rabbia perché Roma sta continuando a dimostrare quanto siano forti, indefesse e consapevoli le forze sociali al suo interno. In tutta la città, un brulicare di passione, tenta di costruire una città migliore, il più delle volte senza mezzi, auto-organizzandosi, spendendo forze e tempo. Baobab Experience è una di queste realtà che oggi si trova, suo malgrado, a operare a Piazzale Spadolini.
Piazzale Spadolini, a oggi, è un deserto postmoderno: uscendo dalla stazione Tiburtina si incontra una distesa di cemento, un parcheggio sotterraneo nuovo e mai aperto, e la pensilina dell’unico bus che passa da lì. A fare ombra sul piazzale c’è l’immensa struttura della BNL che ha trasferito qui i suoi uffici da quasi due anni.
In questo deserto, contrapposto alla Babilonia che brulica davanti all’entrata principale della stazione, noi, attiviste e attivisti di Baobab Experience cerchiamo di portare avanti la nostra idea di convivenza dentro la capitale. Una capitale che, oltre a rifiutare la propria storia piena di migranti in arrivo e migranti in partenza, sembra pure voler rifiutare la sua geografia.
Quotidianamente ci rechiamo in questo angolo di città dimenticato per fornire assistenza legale, medica, pasti, vestiti, corsi di lingua, attività culturali e sportive, informazione e per svolgere assemblee. A dire il vero, da quando non c’è più il campo informale, è difficile anche portare avanti una reale esperienza di convivenza. La maggior parte delle forze sono spese per garantire che a uomini e donne che arrivano in città, siano garantiti i loro diritti umani fondamentali.
Quotidianamente ci scontriamo con testimonianze drammatiche, con esseri umani che difendono in tutti i modi la loro dignità e chiedono quel rispetto che viene negato loro.
Negli ultimi mesi abbiamo visto aumentare gli effetti nefasti della legge Salvini su sicurezza e immigrazione. Il giorno dopo il rastrellamento del 26 marzo, ad esempio, nella prima mattinata è arrivata una donna nigeriana, cacciata dal centro di accoglienza in cui era perché non ha potuto rinnovare la protezione umanitaria di cui era in possesso.
In quel deserto di Piazzale Spadolini, lei ha potuto trovare ancora donne e uomini pronte e pronti a supportarla; a darle le informazioni utili affinché lei possa combattere per i suoi diritti e prendere una decisione sul suo futuro.
Allo stesso modo, a Piazzale Spadolini, testimoniamo la crudeltà e l’incompetenza dei legislatori europei, incontrando sempre più persone sottoposte al regolamento di Dublino, ossia rimandati in Italia dopo aver trascorso un periodo (che va dai 6 mesi fino ai 3 anni) in un altro stato europeo.
È difficile immaginare cosa deve essere arrivare a destinazione ed essere poi rimandati indietro, dopo un viaggio durato anche 2 anni; scappando da miseria, guerra e dittature; sfuggendo alla morte nel deserto, ai trafficanti, alle carceri libiche; sopportando torture fisiche, psicologiche e sessuali; scampando la morte nel Mediterraneo.
Pensare di aver finalmente pagato il conto con un destino beffardo, che ti ha fatto nascere nel posto sbagliato al momento sbagliato. Potersi togliere finalmente le scarpe e pensare “sono arrivato”, pronto a ricominciare un’altra vita.
E poi scoprire che il continente in cui ti trovi ha ratificato un regolamento per cui poco importa quello che hai passato: qualcuno decide per te dove dovrai stare.
Non è difficile immaginarlo, è impossibile.
Così come è impossibile accettare l’arroganza di chi straparla, sentenzia, provoca e gioca con il corpo e la psiche di queste persone, non conoscendo nulla delle loro storie.
Questo è quello di cui siamo testimoni. Tutto quello che sembra lontano, che sembra essere riferito solo a numeri, notizie da cliccare e diatribe tra politici, noi lo vediamo sulla pelle delle persone. La testimonianza è quindi un onere cui non possiamo rifuggire, ma non basta. In primis dobbiamo fornire strumenti e la solidarietà alle persone che subiscono ingiustizie. In questo non c’è nulla di strano, fa parte della natura umana da sempre. In seguito, dobbiamo essere in grado di ricostruire le cause che hanno portato a queste singole ingiustizie, cercare di comprenderne i macroprocessi e, in ultimo, provare a fermarli.
Iniziando dal contesto locale, è evidente che la nostra città ha un grosso problema con le forze dell’ordine. Attenzione, non si tratta di un’accusa verso qualche comportamento fuori dall’ordinario o di qualche abuso di ufficio. Si tratta piuttosto di una questione di ripartizione dei poteri, di tenuta democratica, di governo dello spazio comune.
Attualmente le questioni sociali rilevanti, a Roma, sono prese in carico dalla questura e dalla prefettura che, come è plausibile, non hanno interesse a trovare una soluzione a lungo termine o in qualche modo diversa da quella repressiva.
Come si è arrivati a questo punto, proprio con una giunta che diceva di voler aprire il Campidoglio per farne partecipi cittadine e cittadini?
Governare Roma non è certo facile e le responsabilità sono sicuramente ripartibili a più livelli. Ma chi ha scelto di svolgere un ruolo, chi si è preso l’impegno e ha avuto il mandato rispetto a certe promesse, deve sentirsi addosso tutte le ingiustizie che continuano ad accadere in città.
Sgomberi, daspo urbani, episodi di discriminazione razziale da parte della pubblica amministrazione: chi siede in Campidoglio non ha forse chiaro quelli che saranno i frutti a lungo termine di queste azioni.
Tante sono le cose a cui mettere mano, la prima sull’agenda, però, dovrebbe essere quella di abbattere la differenza tra ricchi e poveri in questa città. Oggi, viaggiare dai quartieri del centro e da quelli residenziali fino alla periferia est di Roma, vuol dire attraversare dei pianeti che non sembrano nemmeno appartenere alla stessa galassia. Dal lusso sfrenato, in pochi chilometri, si arriva alla mancanza di un tetto, del cibo, di assistenza sanitaria.
Come è possibile sentirsi parte della polis, di una comunità impegnata a costruire e vivere uno spazio comune? Come si può essere parte attiva di un’installazione al Maxxi, della festa del cinema, di un concerto ai fori imperiali se si è costretti ad affrontare la mancanza dei servizi sociali, l’accanimento contro il proprio stato di povertà e addirittura la criminalizzazione degli atti di solidarietà?
A questo si aggiunge un imbarbarimento sociale diffuso, guidato dall’attuale rappresentanza politica. Nello specifico, sui mezzi della capitale si continuano a registrare identificazioni e perquisizione solo ai danni di persone dalla pelle di colore scuro, atti di razzismo da parte degli altri passeggeri e, ancor più inquietante, l’indifferenza di chi assiste a tutto ciò. Su queste pratiche stanno tentando di puntare un faro l’associazione legale Alterego-Fabbrica dei Diritti e la rete Restiamo umani, invitando a denunciare pubblicamente ciò che si subisce o ciò a cui si assiste.
Ovviamente la situazione romana non rappresenta un unicum nel paese, né tantomeno in Europa. Questo vale sia in termini di repressione istituzionale verso il povero e lo straniero, sia in termini di forze sociali che, con pochi mezzi a disposizione, provano a difendere e contrattaccare.
In tante e in tanti, pur non essendoci in quei tempi, non hanno dimenticato la lezione degli anni trenta e quaranta dello scorso secolo. Non considerano tutto quello che è nato dopo la seconda guerra mondiale, come la costituzione italiana o la carta dei diritti fondamentali dell’uomo, come semplici fogli anacronistici e buoni per qualche anniversario. Ricordano bene, empatizzando e attualizzando il sacrificio di donne e uomini che in diversi modi hanno contribuito affinché l’umanità ponesse delle pietre inamovibili sul suo cammino, segnasse quei punti della sua storia dai quali non si sarebbe mai potuti tornare indietro.
Di strada dobbiamo farne ancora tanta, mettere ulteriori pietre sul nostro cammino, agendo in attacco e non solo in difesa. Da questa materia grigia attuale che sembra non trovare rappresentanza, sta per nascere una nuova forza. Basta non lasciarsi spaventare dalla mancanza di punti di riferimento o da schemi passati. “Act local and act global”, parafrasando uno slogan di inizio millennio, dovrà essere il nostro mantra.