Hleb Papou: raccontare in film le nuove contraddizioni
di Hleb Papou. Incontro con Giorgia Alazraki
Mi chiamo Hleb Papou. Sono nato in Bielorussia da genitori bielorussi nel 1991 e lì ho vissuto fino al 2003. A undici anni mi sono trasferito in Italia, a Lecco in Lombardia, con mia madre. Da allora vivo qui. Non mi sento di seconda generazione, sono bielorusso naturalizzato italiano. Sono a metà tra due culture. Se fossi arrivato qui a quattro anni, forse, sarebbe stata un’altra cosa, ma avendo vissuto undici anni in quel paese conosco bene la lingua, ho continuato ad avere rapporti negli anni, tutti i miei parenti vivono lì e solitamente ci torno ogni due anni. Penso spesso che se fossi venuto in Italia più tardi, a tredici-quattordici anni, in un’età critica come l’adolescenza, avrei sentito il bisogno di tornare in Bielorussia. I primi anni devo ammettere che è stato duro, perché venendo da Minsk, la capitale di quasi 2 milioni di abitanti, trasferirsi in una piccola città di provincia che conta 50mila abitanti, è stato un cambiamento radicale. Per un ragazzo come me era difficile anche concepire i centri di aggregazione dei miei coetanei, come gli oratori, dei circoli chiusi all’esterno dove si giocava tutto il tempo a pallone. In Bielorussia, ad esempio, ogni palazzo ha un proprio cortile interno e quindi ci si ritrova in modo più informale, non sentivo la “schedatura” della chiesa di quartiere. Nonostante questa fatica iniziale, la mia è una storia di integrazione positiva, arrivato in una seconda media ho trovato dei ragazzi ultra-gentili e insegnanti che mi hanno aiutato molto. Se ripenso a quel periodo i miei primi amici sono stati anche i migliori, che tutt’ora frequento, conosciuti alle medie. In seguito la cosa più difficile è stata finire la scuola, le superiori, tanto che il diploma è stato un grande traguardo. In confronto, l’università a Roma, dopo gli anni di liceo in cui sono stato bocciato e un po’ ho rischiato, è stato un processo molto più naturale. Oggi Lecco, la mia piccola cittadina di provincia, l’ho rivalutata trasferendomi a Roma, una grande metropoli, perché ogni volta che ritorno a casa è sempre bellissimo, riscopro un posto meraviglioso con le montagne e il lago, rivedo mia madre e gli amici.
Il primo corto
Nel 2012, dopo il primo anno del Dams, ho realizzato La Foresta rossa, un corto che si trova facilmente su youtube. Sebbene sia stato realizzato con 20 euro di budget, è stato selezionato al Short film corner di Cannes nel 2013. Da allora ho capito che il mio obiettivo, non tanto nascosto perché l’avevo condiviso con mia madre, era fare il Centro sperimentale a Roma, la scuola che costava meno e la migliore d’Italia. A quindici-sedici anni avevo già capito di voler fare cinema. A scuola ero un tipo abbastanza solitario che si “chiudeva” a guardare molti film. I film sono stati una cosa che mi ha aiutato. Apro una parentesi, a me piacciono molto i film di genere tendenti all’action. Ho amato molto Bruce Lee, sono cresciuto guardando film senza paranoie intellettualiste, come Rambo, The Rock, Die hard –Trappola di cristallo, Arma letale, Il quinto elemento, niente Truffaut o Godard, gli autori li ho scoperti dopo. Non saprei dire quando mi è nata questa passione, ma già in Bielorussia con un mio amico che aveva una videocamera Vhs ci piaceva rigirare le sequenze di azione ispirate dal cinema americano.
La Foresta rossa è un piccolo corto drammatico d’azione che parla di una fuga verso il confine di due amici da un paese dove c’è una dittatura. La loro macchina si ferma in una foresta che è impossibile attraversare perché il regime l’ha contaminata con un gas nervino. Anche se non è mai specificato, si parla di un paese senza nome da cui nessuno può entrare e uscire, è evidente il riferimento alla Bielorussia, dato che lì c’è una situazione politica di stallo che non cambia dal 1994, da quando è salito al potere Lukašenko. La foresta, inoltre, è uno dei simboli della Bielorussia, mentre il gas volevo che fosse metafora della dittatura da cui si fa fatica a sfuggire. Va detto che nella Bielorussia di oggi non è impedita la circolazione delle persone, si può entrare e uscire, si tratta di un paese semi-dittatoriale dove al potere c’è un governo autoritario con una politica statalista che controlla la sfera sociale, il mercato, le comunicazioni, ma che a volte indebolisce la mano su certe questioni imposte dall’UE, per esempio il rilascio dei prigionieri politici avvenuto nel 2015. Volevo che nel corto ci fosse una certa ambiguità simbolica sullo schieramento dei due amici: il personaggio che si ammala col gas si intuisce sia uno che alla fine non vuole cambiare, forse vicino al regime, mentre l’altro con il desiderio di fuga e di raggiungere il confine, di uscire da questo panorama, che riesce a resistervi in qualche modo. Dopo averlo girato, ho scoperto che esistono le “foreste rosse”, un nome che è stato dato alle foreste intorno a Cernobyl, al confine tra Ucraina e Bielorussia, contaminate dalle radiazioni, dove si osservano fenomeni di mutazione genetica in piante e animali. Cinematograficamente parlando ero più legato alla teoria, non avevo fatto alcuna pratica, tanto che l’ho girato con una piccola Handycam full hd senza attrezzatura pesante, con un approccio libero. Anche la sceneggiatura è stata scritta da me senza andare a intrecciare meccanismi narrativi che si imparano nelle scuole di cinema. Con tutti i difetti, è stata una bella esperienza perché ero libero e spaesato, ma allo stesso tempo mi era chiaro ciò che volevo dire.
Con quel cortometraggio sono stato in seguito ammesso al Centro sperimentale di cinematografia.
Bielorussia o Russia Bianca
Russia Bianca è il nome vecchio e trasandato delle mappe degli anni ’90. È la traduzione dal bielorusso “Belarus”, ovvero ruthenia alba – terra dell’est abitata dalle popolazioni slave, bianca perché pura e libera – ma è più corretto dire Bielorussia.
Storicamente la Bielorussia è stata sempre una terra sfortunata, di passaggio per tutte le truppe che si combattevano dall’occidente all’oriente, sin dalle guerre napoleoniche, quando faceva parte del Granducato di Lituania, fino alla Seconda guerra mondiale quando è stata completamene rasa al suolo. Se l’Ucraina è più combattiva, sa quello che vuole, cerca di schierarsi, la Bielorussia gioca a fare la Svizzera dell’Europa orientale, senza averne le carte. Purtroppo mi sembra un paese senza una vera identità, mentre al contrario Lituania, Estonia, Lettonia, Polonia e Ucraina, i paesi confinanti del blocco ex rosso, dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica nel 1991, hanno scelto una strada verso l’Europa. Solo per pochi anni il paese sembrava indirizzato verso un processo più democratico e riformista, ma dal 1994 è finito tutto con l’arrivo di Lukašenko. Quando penso alla Bielorussia storica facente parte del Granducato di Lituania, nato nel XII secolo e dove una delle lingue ufficiali era il bielorusso antico, sono fiero di essere nato in quelle terre, sento un orgoglio del tutto filosofico per il quale la patria e lo Stato sono due cose totalmente opposte. Oggi invece si tenta di far combaciare il significato di patria a quello di Stato, e ciò è drammatico, perché si tratta di una semplificazione, di una chiusura, è come cancellare la propria identità. La Bielorussia ha convissuto con la Polonia e la Lituania fino al 1795 sotto la confederazione Polacco Lituana, e infine è stata presa dall’Impero Russo, la cui influenza è durata per due secoli. Con Lukašenko c’è stato un avvicinamento fin troppo forte alla Russia, per questo dico che non c’è l’orgoglio ma c’è anzi una vergogna della propria identità .
(Nel 1994 fu emanata la nuova Costituzione e furono indette le prime elezioni democratiche che Lukashenko vinse, ottenendo al primo turno il 45% dei voti e l’80% al ballottaggio. Davanti a Lukashenko si aprivano due strade per governare: seguire l’esempio degli altri paesi della sfera d’influenza sovietica ed avviare una difficile transizione del comunismo all’economia di mercato oppure ristabilire il controllo statale sull’economia e continuare ad operare nell’orbita della vicina Russia. Egli scelse la seconda. Non a caso uno dei primi atti da presidente è stato il recupero della vecchia bandiera sovietica e dello stemma, privati della falce e martello, a rimarcare un processo di riavvicinamento alla Russia, al posto di quelle adottate dal 1991 al 1994 – ovvero la bandiera e lo stemma risalenti al Granducato di Lituania)
Per esempio c’è il bilinguismo: il russo e il bielorusso sono le lingue ufficiali e il bielorusso è schiacciato dal russo. C’è una politica abbastanza filo-russa e purtroppo anche una russificazione della società. C’è una parte del paese che vuole una Bielorussia più tendente verso l’Europa, verso l’Occidente, ma purtroppo politicamente parlando adesso è quasi impossibile. Dato che la Bielorussia è una terra di mezzo, e non avendo risorse proprie, bisognava schierarsi, così dal 1994 in poi c’è stato un forte avvicinamento alla Russia con una politica molto opportunista.
Mia madre e i miei nonni mi raccontavano spesso del periodo sovietico, soprattutto della loro infanzia. Personalmente non vorrei mai vivere nell’Unione sovietica, ma non sono di quelli estremisti che sostengono che fossero tutti cattivi. La Russia era la madrepatria dell’Unione sovietica e perdere tutto quel territorio le ha “fatto male alla testa”, e si è visto dopo con i risultati contemporanei. In Bielorussia c’è qualche movimento nostalgico, qualche partito filo-russo, però so che mia nonna e mia madre sono sempre state bielorusse per la Bielorussia. Mia nonna mi dice che prima pensava a tutto lo Stato e che eri “protetto” da quest’utlimo sotto ogni punto di vista, non potevi essere disoccupato e percepivi comunque lo stipendio, tuttavia non avevi la libertà di pensarla diversamente dal regime. Nel 1991 è crollato tutto: un paese non può durare con un sistema incentrato sulla guerra, perché tutti i soldi andavano alle spese militari.
Un cinema d’azione col cervello
La mia ambizione è realizzare un cinema antibuonista, antimanicheista, che parli di persone. Un cinema d’azione sì, ma col cervello. Con Il legionario, che verrà distribuito a partire da questa primavera, ho deciso di affrontare il tema delle seconde generazioni, perché in Italia ci sono oggi 5 milioni di immigrati di cui più di 900 mila nati e cresciuti in Italia, un fenomeno molto attuale che nel bene e nel male bisogna affrontare. L’idea era quella di raccontare un immigrato integrato nato qui e che ha “fame” di affermarsi, che vuole far parte della società contemporanea italiana. Volevo parlare di seconda generazione in questa chiave, dal punto di vista lato di un immigrato ideologicamente integrato. L’immagine di un agente di colore del reparto mobile ci è sembrata subito molto forte, perché sarebbe potuto essere arabo, bianco dell’est, cinese, sudamericano, ma “nero” di pelle, non etnicamente italiano, sarebbe stato più efficace. Allora da questa immagine abbiamo costruito le storie con i coautori ed è stato un processo lungo e bello: abbiamo fatto un’indagine sul campo incontrando celerini veri, poliziotti neri italiani (esistono!), entrando nella rete delle case occupate, fenomeno che a Roma è molto sentito. Una storia semplice ma profonda: un agente di colore della celere deve sgomberare un palazzo occupato dove vivono la madre e il fratello. È la storia di un conflitto tra fratelli vecchia come il mondo. Romolo e Remo. Il fratello occupante è anche lui un immigrato di seconda generazione, in un altro modo anche lui perfettamente integrato.
Questo lavoro è il mio saggio finale del triennio al Centro sperimentale, e tutto è partito a novembre 2015. Eravamo sei registi e da giugno a settembre 2016 ciascuno ha girato il suo. Avevamo un budget impostato dalla scuola e 5 giorni per girare il cortometraggio. Non potendo girare in una vera casa occupata per questioni burocratiche, abbiamo girato in tre location diverse. Però siamo andati molte volte all’ex-Inpdap, a via Santa Croce in Gerusalemme, dove abbiamo conosciuto diverse persone che vivono lì, da occupanti. Ho scritto questo cortometraggio con due sceneggiatori del Centro che hanno sposato la mia idea di raccontare la seconda generazione in chiave d’azione. Attraverso Il legionario abbiamo conosciuto molte storie di tanti ragazzi di seconda generazione. Anche per fare il casting abbiamo conosciuto tanti attori di seconda generazione e la cosa evidente è che anche i ruoli per il cinema sono tutti stereotipati: tutte le persone a cui ho fatto il provino erano molto interessate a queste parti, perché di solito non ci sono queste possibilità. Volevo mettere questo ruolo in un personaggio che non rispecchiasse l’approccio ai luoghi comuni che vige in Italia, per il quale l’immigrato o è un “morto di fame” o uno appena sbarcato, o è buono o uno spacciatore cattivo, ma che al contrario si prestasse a tante interpretazioni. Raccontare una storia lontana dai cliché ci ha permesso di parlare di contraddizioni, gioie, dolori e conflitti. Esplorando la questione abitativa di Roma ci è sembrato giusto non schierarci da nessuna parte, raccontando le ragioni degli uni e degli altri.
Lavorando al Legionario non mi sono fatto un’idea precisa della seconda generazione oggi in Italia, ma penso che a parte le discendenze etniche non ci siano differenze fra italiani bianchi, italiani neri, italiani arabi, italiani asiatici e italiani sudamericani. Per me integrazione significa poter farsi strada nella società e nelle sue contraddizioni indipendentemente dalle proprie origini e dal colore della pelle, andando fino in fondo. Senza paura.